La politica e chi la svolge sono per definizione impopolari, oggi certamente più di ieri, perché supportati dalle ideologie; in passato si badava meno agli uomini e più alle idee rappresentate dai Partiti.Da “mani pulite” in avanti, il fenomeno si è ampliato, non solo per la percezione che i cittadini hanno dei politici, quanto per la disaffezione nel partecipare alle formazioni, fenomeno che ha abbassato il livello dei Parlamentari e dei dirigenti di Partito. Oggi risulta facile mettere in luce le contraddizioni della Destra Leghista e della Sinistra capitanata dal PD, ma dopo la lettura dell’ultima intervista a Veltroni, dove per l’ennesima volta viene rimarcata la superiorità della sinistra post comunista, diventa difficile trattenersi: se Salvini non ha ancora fatto i conti con Bossi, certo Veltroni e compagni non l’hanno fatto con Gramsci, considerato glorioso e perenne riferimento. Si è creato un corto circuito tra le aspettative verso la politica e quanto in realtà questa possa dare. Il grillismo è emblematico, non intendo necessariamente solo quello dei Pentastellati, che sono la punta dell’icenberg, perché di grillini sono pieni tutti gli schieramenti.

Ho considerato la formazione del Governo giallo-verde un’anomalia, in realtà davo credito, se non ai dirigenti, all’elettorato della Lega che al di là dei miti della creazione bossiana, era il medesimo (almeno al Nord), che per un ventennio diede fiducia a Silvio Berlusconi e cioè a quell’Italia moderata, sempre maggioritaria nel Bel Paese, che mal digeriva i voli pindarici e del tutto astratti di una certa sinistra. La Lega Nord quando propugnava il separatismo padano, per non diventare irrilevante, dovette riallearsi con il centro destra berlusconiano, paradossalmente nel momento in cui aveva ottenuto importanti risultati sul piano del federalismo e del riconoscimento delle ragioni del “Nord”. Iniziò così la normalizzazione leghista che si mostrò persino più solidale a Berlusconi rispetto all’altro alleato: Fini.

Per certi versi, il fenomeno Salvini non è dissimile dal fenomeno Bossi, la cosa incredibile è che riesce molto meglio del fondatore a incrementare i risultati elettorali. Tuttavia la cosa paradossale è che da federalista, di fatto, il Partito diventa nazionalista, senza trovare, a parte qualche timida protesta,  legittime riserve, neppure da quei Governatori che contemporaneamente alla creazione del Partito Nazionale (e nazionalista), chiedono un maggior federalismo, che di fatto non aiuterebbe certamente le Regioni del Sud, per altro quasi tutte di Centro Destra. Questa trasformazione della Lega è pari a quella del PD, che fu la fusione a freddo tra le varie anime della sinistra e il progressismo cattolico. Entrambe questa forze, eredi l’una del PCI e l’altra del sindacalismo cattolico, hanno dato vita ad una marcata dicotomia tra la dirigenza e l’elettorato, sempre meno legato ai miti della sinistra classica ma profondamente integrato con questa società post industriale e i suoi rappresentanti a tutti i livelli. Ho sempre sostenuto come “La Repubblica” del duo Eugenio Scalfari-De Benedetti, sia stata determinante in questa trasformazione, soprattutto nell’aver alimentato l’antisocialismo craxiano prima, e l’antiberlusconismo viscerale dopo. E’ stato soprattutto la lotta personale a Bettino Craxi di Scalfari, ispiratore prima dell’alleanza berlingueriana con la DC, la relativa campagna morale in funzione antisocialista e poi, nel momento di maggior crisi del PCI, causa la caduta del muro di Berlino, dopo che Craxi aveva favorito l’ingresso del Comunisti nel socialismo europeo, rigettando la possibilità di una riunificazione. La trasformazione scalfariana della sinistra ha modificato la tipologia del consenso, addirittura creando un pensiero: “Repubblica”, un misto tra il moralismo e l’elitarismo borghese, con il risultato, non solo di aver perso i riferimenti ideologici del secolo scorso (il ché di per sé sarebbe buona cosa) ma addirittura il non averne in questo. La sinistra di derivazione comunista, dal dopo guerra in avanti si è sempre trovata ad inseguire i fallimenti del socialismo reale, senza mai fare i conti sulle sue origini e sugli uomini che l’hanno generata, tanto che un “moderatone” quale Walter Veltroni, può rilasciare un’intervista che tra alcune cose di buon senso, alterna una ricostruzione storica delle vicende del dopo muro di Berlino e dei rapporti con il socialismo craxiano e post craxiano, non solo distanti dalla realtà ma totalmente privi di quella critica postuma che, nonostante tutto, i comunisti seppero fare dopo il grande errore (tra i tanti) di non aver subito preso le distanze dallo Stalinismo. Oggi il buon Walter assiste imperterrito alla alleanza della sinistra con i Grillini e non analizza politicamente il rifiuto, prima all’unificazione con i socialisti che avrebbe finalmente messo una pietra sopra all’assurda scissione di Livorno, e poi alla diaspora dei socialisti dopo mani pulite, in quello che poteva essere una seconda occasione per rifare una casa comune, il tutto per poi fondersi con i rimasugli della DC, e addirittura ora, auspicare l’ingresso grillino nella sinistra. La ciliegina sulla torta dell’intervista è stata l’ennesima frase di rito sulle gloriose origini. Quando gli ex comunisti non hanno argomenti per giustificare il loro spappolamento ideologico, che li ha portati dal Partito della classe operaia, al Partito di una certa media borghesia di sinistra che “fa fine e non impegna”. Cerco di spiegare questi salti temporali nella storia del Comunismo nostrano partendo da come e perché si arrivò alla scissione di Livorno. Forse la più pazza partorita dalla sinistra. Quindi secondo Walter: le gloriose origini. Alla base, due furono le divergenze con l’allora Partito Socialista: i rapporti con l’URSS e il presunto parlamentarismo e imborghesimento socialista, in una fase storica che la corrente comunista (a torto) considerava pre-rivoluzionaria, il tutto condito dalle teorie di Gramsci sulla centralità della classe operaia (mi scuso della semplificazione). Sicuramente Gramsci era uno intelligente, ma dal punto di vista delle strategie politiche lasciava alquanto a desiderare, anche se era giustificato, in parte, dalla giovane età, sua e del suo gruppo. Nel post sessantotto ebbe molti emuli, alcuni altrettanto intelligenti con risultati che non furono migliori. La scissione avvenne dopo lo sciagurato biennio rosso culminato con l’occupazione delle fabbriche. Si badi bene, sciagurato soprattutto per la sinistra di cui sarà l’inizio della fine e la vera causa dell’affermarsi del Fascismo.

Tornando a Gramsci ,credo sia stata la sua “torinesità” a fargli elaborare quella via rivoluzionaria tra le avanguardie intellettuali e la classe operaia, una novità tra i socialisti che avevano avuto come riferimento, soprattutto le lotte contadine e del bracciantato. La critica degli “Ordinovisti “  al Partito, arrivò addirittura a descrivere le sezioni di questo, come accolite di avvinazzati, il tutto in una fase in cui il Partito socialista stava per liquidare il riformismo turatiano, strepitando  pure, di “fare come in Russia”. Al di là del disagio che quei giovani intellettuali potevano provare di un Partito che dopo le elezioni del ‘19, si era rimpolpato soprattutto di Parlamentari senza trovare però, ne una strada riformista, ne la svolta rivoluzionaria, quest’ultima solo a parole. Non possiamo che rilevare, come quei professorini facessero analisi superficiali, sia sulle reali possibilità che la classe operaia potesse essere il grimaldello rivoluzionario dal momento che questa, presente solo nel triangolo industriale, era minoritaria anche nelle stesse regioni dove l’industrializzazione era elevata per cui, scioperi e occupazioni, erano circoscritti e fortemente impopolari nella maggioranza della popolazione, tutt’altro che rivoluzionaria.

Dopo la vittoria di Pirro delle occupazioni, il Partito e soprattutto il Sindacato processò gli Ordinovisti, additati addirittura di avventurismo, patente che fece si che i torinesi nel nascente Partito di Bordiga entreranno timidamente, senza ricoprire cariche di particolare rilievo. Le cose andarono meglio dal 22 in avanti quando i torinesi daranno la scalata, non solo al partito ma anche alla segreteria, esautorando Bordiga reo di non essere totalmente succubo ai voleri sovietici. Comunque, quel partito fu marginale, se non politicamente, elettoralmente anche quando ci fu la dissoluzione socialista i voltagabbana italici preferiranno il Fascio.  Dopo la débâcle aventiniana del 25, il fato volle che Gramsci si trovasse in Italia e Togliatti a Mosca, ciò permise al primo di riconsiderare gli errori commessi durante la lunga prigionia, da qui la teorizzazione della diversità di Gramsci sfruttata dall’intellighenzia revisionista nel PCI sorvolando come in carcere fu bandito dai compagni. La palla passò a Palmiro Togliatti che non avendo mai brillato per coraggio personale, fu succubo di Stalin anche quando vedeva arrestare, deportare e uccidere i compagni fuoriusciti, fino ad essere nominato segretario dell’Internazionale comunista e infine commissario politico agli ordini del satrapo in Spagna, dove furono liquidati tutti i dissidenti. Ciò che fece la differenza per l’affermazione comunista in Italia, fu l’organizzazione di tipo stalinista del partito, l’aver puntato sul partigianato ma soprattutto, essere gli emissari dell’URSS, risultata con gli USA tra i vincitori del conflitto, infine il denaro, che Mosca profuse ben oltre l’inizio della presa di distanze. Berlinguer fece il resto, considerato il santino numero due dopo Gramsci; mentre in Francia Mitterand liquidava ii  veterocomunismo di Marchais, i Comunisti italiani, sempre duri e puri, promuovevano il finto dialogo con i cattolici, in realtà con la “Balena bianca” democristiana.

Da qui, alla liquidazione socialista per via giudiziaria che a livello politico, secondo me, è avvenuta con il tacito consenso almeno di una parte dei DC. Operazione che non tenne conto come ad un certo punto la Magistratura potesse giocare in proprio, salvando quello che restava del “glorioso” e quindi consentendo la sopravvivenza della sinistra che, aimè, sinistra più non è, salvo per la presunzione e la falsificazione storica.