Aristotele nel Libro XII della Metafisica pensava che il mondo fosse racchiuso in una sfera chiamata Primo Cielo, che ruota eternamente su sé stessa. Per spiegare tale movimento egli ammetteva un Motore sempre in atto e perciò immobile. Il Motore Immobile muoverebbe il Cielo come oggetto di amore, cioè sarebbe amato dal Cielo e il Cielo per amore del Motore Immobile ruoterebbe su sé stesso. Almeno questa è la interpretazione tradizionale.

             Enrico Berti ha ipotizzato che questo “amore” non sia il fine ma la causa efficiente del moto del Cielo. Nel capitolo VII del Libro XII c’è un famoso passo in cui Aristotele spiegava come è possibile la necessità di un Motore Immobile per il movimento eterno del Cielo: il Motore Immobile muove il Cielo nello stesso modo in cui l’oggetto del desiderio e quello dell’intelligenza muovono. Tra gli oggetti del desiderio c’è un primo che è condizione di desiderio di tutti gli altri, così come ce ne è un primo di oggetto dell’intelligenza che è condizione di tutti gli altri: i due coincidono, quindi il Motore Immobile è questo primo oggetto del desiderio e oggetto dell’intelligenza, che è un fine, “ciò in vista di cui” (to ou eneka) si tende. Quindi Aristotele concludeva il passo dicendo che il Motore Immobile “muove in quanto amato”, come oggetto di amore, kinei de ōs erōmenon.

           O almeno la tradizione ha sempre applicato questa frase al Motore Immobile, il Motore Immobile muove il Cielo in quanto amato dal Cielo. Ma qui nasce un problema: normalmente quando si ama una persona perché si produce un movimento? Perché il Cielo ruoterebbe su sé stesso per amore? Il problema è stato sentito anche dalla tradizione, infatti il primo allievo di Aristotele, Teofrasto, si chiedeva di quale desiderio parlasse esattamente Aristotele. Teofrasto ci informa che secondo i platonici questo amore di cui parlava Aristotele sarebbe stato una mimesis, una “imitazione”, quindi questo spiega perché i commentatori successivi, come Alessandro di Afrodisia, che scrive i più antichi commenti di Aristotele a noi pervenuti, dicevano che il Cielo cercherebbe di imitare il Motore Immobile muovendosi in un movimento che somiglia alla immobilità, cioè lento. È una spiegazione ingegnosa, tra tutti i movimenti quello che più somiglia alla immobilità è quello circolare. Da allora tale interpretazione si è imposta su tutti i commentatori successivi di Aristotele. Ma non c’è nessun testo di Aristotele in cui egli dica espressamente che il Cielo imita per amore il Motore Immobile.

                Allora Berti interpreta “muove in quanto amato” non riferito al Motore Immobile bensì all’oggetto del desiderio umano, cioè Aristotele direbbe: il Motore Immobile muove come l’oggetto del desiderio e poi spiega come muove l’oggetto del desiderio. Nel De anima (Libro III capitolo 10) Aristotele diceva che l’oggetto del desiderio attrae, quindi fa muovere qualcuno esercitando questa attrazione. Del resto nel libro XII della Metafisica Aristotele usa due volte il verbo al plurale “noi desideriamo”, quindi noi uomini e allora non sta parlando del Cielo. Sta illustrando il modo in cui l’oggetto del desiderio umano muove l’uomo. Questo primo oggetto del desiderio è l’ottimo, ma non è detto che Aristotele stesse parlando del Motore Immobile, potrebbe essere anche l’ottimo per l’uomo, che è la theōria, la conoscenza pura e fine a sé stessa, che per Aristotele è la felicità, cioè per Aristotele l’uomo realizza sé stesso, vale a dire che è felice, in una vita dedita alla ricerca intellettuale, è questo il senso genuino di theōria, termine greco che, diversamente da quanto spesso si scrive, non è per Aristotele la contemplazione di Dio, attività che nascerà solo nei monasteri cristiani del Medioevo.

           E qui sorge il problema capitale dell’uomo. Quello della felicità. Cosa è che procura felicità, come fa l’uomo ad essere felice? Se l’interpretazione di Berti è esatta, c’è in qualche modo un nesso tra la felicità dell’uomo e il Motore Immobile.

           Da quando nasce l’essere umano sperimenta il dolore, dopo il paradiso fetale. È il trauma della nascita di cui parlava Rank, che si ripercuoterà per tutta la vita successiva. Ma prima di esso l’essere umano sta nel feto come in un luogo di delizie. Pertanto l’uomo inizia ad esistere in una condizione paradisiaca: ricordiamo che il feto ha una mente vera e propria, che sa reagire agli stimoli, come la luce o la voce della madre e del padre.

            Da allora in poi l’uomo cercherà sempre quella felicità che avvertiva all’inizio. È questo il ruolo delle religioni. Cosa è la salvezza finale se non il raggiungimento della felicità alla quale l’uomo da sempre aspira?

             Gesù si confrontò durante la sua vita terrena con varie correnti ebraiche, come i farisei, i sadducei, ma probabilmente anche quella apocalittica. La apocalittica è una visione del mondo che si riscontra nella cosiddetta “letteratura apocalittica giudaica” (che va dal 350 a.C al 150 d.C.), ma anche in altri generi letterari, come quelli dei rotoli di Qumran (Regola della Comunità, Rotolo della Guerra). Il libro dell’Apocalisse del Nuovo Testamento appartiene al genere apocalittico.

            La letteratura apocalittica, rappresentata nella Bibbia anche dal libro di Daniele e fuori dalla Bibbia dal libro di Enoch, dal IV libro di Esdra e così via, presenta, in una cornice narrativa, un mistero divino, cioè una rivelazione divina comunicata da un mediatore sovrumano a un essere umano. Normalmente il contenuto della rivelazione è triplice: una crisi degli ultimi tempi (sconvolgimenti cosmici, persecuzione degli eletti), poi il giudizio fatto dagli angeli e infine la felicità finale, cioè la salvezza riservata agli eletti. La finalità di questa rivelazione apocalittica è quella di fornire una chiave di interpretazione della storia per i fedeli che si trovano in una situazione difficile con lo scopo di motivarli a perseverare nella fede nel Signore.

            Quindi il libro dell’Apocalisse, che sugella tutta la Bibbia, non vuole terrorizzare ma consolare in quanto la felicità sarà a tutti concessa da Dio dopo le prove.

             Gesù nel Monte degli Ulivi, di fronte al Tempio, pronuncia il cosiddetto Discorso escatologico, cioè relativo alla fine dei tempi, riportato da tutti e tre i vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Leggiamo la versione di Marco, al capitolo 13:

“1 Mentre usciva dal tempio, un discepolo gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». 2 Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta». 3 Mentre era seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: 4 «Dicci, quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?».

5 Gesù si mise a dire loro: «Guardate che nessuno v’inganni! 6 Molti verranno in mio nome, dicendo: “Sono io”, e inganneranno molti. 7 E quando sentirete parlare di guerre, non allarmatevi; bisogna infatti che ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine. 8 Si leverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti sulla terra e vi saranno carestie. Questo sarà il principio dei dolori”.

         Si tratta di una profezia di Cristo. Nella Bibbia le profezie non sono solo anticipazioni del futuro ma anche luci per capire il presente nel quale si trova quell’autore. Cristo sta parlando delle prove degli ultimi tempi, che sono volute da Dio e in cui Dio si rivelerà, ma anche delle tribolazioni attuali, che, come quelle ultime, devono essere vissute con fede.

          La corrente apocalittica è molto presente nei vangeli, soprattutto in quello di Marco. La vita stessa di Cristo è un mistero, che gli evangelisti rivelano al mondo su mandato di Dio.

            All’inizio del vangelo di Marco durante il battesimo di Cristo si squarciano i Cieli e Dio parla rivelando la identità di Cristo. Alla fine dello stesso vangelo si squarcia il velo del Tempio con la morte di Cristo. Il velo era considerato dalla tradizione ebraica ciò che copriva il Santo dei Santi, detto Porta dei Cieli, in quanto luogo più sacro di Israele nel quale si manifestava Dio stesso. L’aprirsi dei cieli è tipico della letteratura apocalittica.

            Nella Trasfigurazione Cristo si riveste di Luce, e nella Bibbia la luce è un simbolo di Dio, quindi Gesù si rivela come Dio, e Dio Padre parla nella nube, rivelando la identità di Cristo. Nel vangelo di Marco Cristo sulla croce viene riconosciuto da un centurione romano come Figlio di Dio.

              Nel vangelo di Marco la veste di Cristo che brilla richiama un altro elemento tipico della letteratura apocalittica che è la Veste di Gloria dei giusti, come quelle bianche che compaiono nell’Apocalisse. Queste vesti sono presenti anche nel libro di Enoch e pure nel II libro di Enoch, un’opera più tardiva, nella quale Enoch viene rivestito delle vesti che erano quelle originali di Adamo e Eva, i quali secondo la tradizione ebraica erano cinti di Gloria e solo dopo di pelle. Quindi secondo la tradizione ebraica la “pelle” (in ebraico chor, con la ayn) ha oscurato la “luce” (‘or, con la aleph) primigenia dell’essere umano, che aveva un corpo glorioso.

             La piena felicità dei giusti avverrà alla fine dei tempi, dove i santi saranno glorificati in anima e corpo. Nel II libro di Baruc è scritto che alla fine dei tempi gli eletti avranno uno splendore glorificato da mutamenti e la somiglianza del loro volto si convertirà nella luce della loro bellezza, perché possano ricevere il mondo che non muore.

            Già il libro di Ezechiele, sebbene non sia un testo della letteratura apocalittica anche se ha avuto un grande influsso su questa, si apre con uno squarciarci dei cieli e le visioni divine. La visione divina che inaugura il libro è un Carro celeste, Merkavà, che è il Trono di Dio. Precisamente è Dio il Signore della storia, e questo viene molto evidenziato dalla letteratura apocalittica, per la quale nonostante le prove che i diavoli danno ai giusti, questi ultimi godono del privilegio divino già in esse e soprattutto alla fine dei tempi, quando la loro gioia sarà piena e perfetta.

               Il Figlio dell’Uomo è un titolo divino, secondo Daniele: il Figlio dell’Uomo verrà sopra le nubi, e la nube è un simbolo di Dio. Nel Nuovo Testamento Gesù, ricevendo il titolo di Figlio dell’Uomo, viene presentato come Dio.

               Nel brano qui riportato del vangelo di Marco Cristo conosce i segreti della fine del mondo, e come Dio egli sa tutto essendo Signore della storia.

               Gesù esce dal Tempio con i discepoli dopo le dispute avute con le varie correnti ebraiche e, mentre escono, durante il cammino, uno dei suoi gli fa una domanda, come è tipico in Marco. Gesù dice che le pietre del Tempio verranno distrutte.

               Ai tempi di Cristo il Tempio era una grande meraviglia, lo sottolinea anche il vangelo (“Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”). Erode lo aveva restaurato, ampliato e abbellito, dotandolo di una grande spianata, quella oggi detta delle Moschee, perché luogo sacro anche per i musulmani. Giuseppe Flavio scrive che il Tempio era l’opera più ammirevole sotto il sole, mentre il Talmud babilonese afferma che “chi non ha visto l’edificio di Erode, non ha visto nulla di bello”.

              Adesso il Tempio è solo qualche pietra, fu distrutto nel 70 d.C. e poi quasi completamente nel 135.

              Ma gli uomini non devono cercare la felicità in un luogo, bensì in sé stessi. Gesù diceva a santa Caterina da Siena di costruirsi una “cella interiore” nella quale incontrare sempre Dio. Gli edifici sono importanti per il culto ma il vero contatto deve essere sentito nel cuore e nell’anima, che sia dentro o fuori un edificio sacro.

            C’è un filo invisibile che collega tutta la storia dell’uomo ed è la ricerca della felicità. Ogni religione è una medicina che indica alle persone come fare per ottenere la salvezza, la gioia piena. In ogni religione diversa dal cristianesimo c’è del buono e chi segue quei principi religiosi conformi alla legge naturale e al cristianesimo può salvarsi, ma sempre per i meriti del sacrificio di Cristo sulla croce.

            L’uomo non troverà pace fino a quando non ritornerà al Cuore di Dio, che è l’Eucaristia, possiamo dire interpretando le parole di Nostro Signore a santa Faustina Kowalska. Nel pane eucaristico vi è il corpo risorto di Cristo e particolarmente il suo Cuore.

            La Beata Speranza di Gesù, una mistica morta in Umbria nel 1983, diceva che nella Eucaristia abbiamo il nutrimento del corpo e il nutrimento dello spirito. Sono queste le due condizioni necessarie per ottenere la felicità in questo mondo e poi in quell’altro, quando la nostra felicità sarà piena con la risurrezione del corpo alla fine dei tempi per la gloria eterna.

            Le persone cercano la felicità nel mondo e nei piaceri, ma quella vera sta nel Cuore di Cristo, il solo Signore, che sa donare la pace e la vita eterna. È questa la Buona Notizia, cioè il significato del termine greco euanghelion, donde la parola “vangelo”.

             La chiesa da duemila anni annuncia la Buona Notizia a tutte le genti, ed è questa la sua prima e più importante missione. Nonostante i peccati degli uomini, la chiesa è Santa in quanto guidata da Dio stesso nella Persona del Santo Spirito.  

          Se Dio crea l’universo, è Lui il garante e il datore della salvezza e della felicità. Nelle religioni il sacrificio è spesso il fulcro del mondo. La Santa Eucaristia è definita dall’ultimo Concilio “fonte e culmine della vita cristiana”, per questo la chiesa invita i fedeli ad andare a Messa la domenica e le feste comandate e di fare la comunione almeno a Pasqua.

           Così il Ṛg-Veda, il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, recita con il metro virāṭtrisṭup (I.164.35):

iyaṃ vediḥ paro antaḥ pṛthivyā ayaṃ yajño bhuvanasya nābhiḥ | ayaṃ somo vṛṣṇo aśvasya reto brahmāyaṃ vācaḥ paramaṃ vyoma ||

“L’altare è l’ultimo limite della terra;

questo sacrificio compiuto da noi è il centro del mondo;

Soma è il seme prolifico, essenza di virilità;

la nostra preghiera è il cielo più alto dove abita la Parola”.

           Nei vangeli Gesù dice che bisogna pregare incessantemente. Per il cristianesimo la preghiera rende presente Dio nel cuore del battezzato.

            Il dio vedico Varuna viene così pregato nel Ṛg-Veda con il metro gāyatrī (I. 25. 21):

ud uttamam mumugdhi no vi pāśam madhyamaṃ cṛta | avādhamāni jīvase ||

“Liberaci dalle catene

Di qualunque specie.

Sciogli i nostri vincoli

Perché vogliamo vivere!”