Nei giorni immediatamente precedenti la riapertura delle attività economiche e produttive in Italia, decise per il 18 maggio prossimo, sorge spontaneo pensare all’importanza, ancora una volta, del distanziamento cui ciascuno sarà tenuto, perché questa riapertura possa avvenire in sicurezza. Quando il governo ha iniziato a parlare della necessità indispensabile del “distanziamento”, all’inizio del lockdown, che ha imposto anche severe misure negli spostamenti, per la prima volta è comparso, affiancato al termine di “distanziamento”, l’aggettivo “sociale”. Forse si è trattato di un lapsus freudiano, forse di una scelta voluta, ma credo, comunque, poco felice, perché si sarebbe potuto, in modo più appropriato, parlare di “distanziamento fisico”, a proposito del quale si sono spesi fiumi di inchiostro in tema di analisi e valutazione degli stessi tipi di distanziamento ed addirittura delle tipologie delle sue misure ( 1 metro, 1 metro e mezzo, o 2 metri).

Al di là  dell’aspetto numerico, rimane presente, secondo me, invece, quello assai più preoccupante della scelta dell’aggettivo “sociale”. Forse con questo termine il governo voleva veicolare come messaggio che si sarebbe reso necessario ed indispensabile evitare di continuare a praticare la vita sociale cui in genere le persone erano abituate in precedenza  ( tranne i misantropi),  frequentando, nell’epoca pre Covid, musei, mostre, case di amici, palestre e circoli…

Ma il “distanziamento sociale” è un’espressione che non ha soltanto questo significato, ma implica anche il senso della chiusura relazionale di un soggetto nei confronti degli altri, avvertiti come diversi su una base riconducibile a precise categorie sociali. Esistono, infatti, delle dinamiche, studiate anche in passato, che regolano i rapporti tra lo spazio simbolico, culturale e quello fisico, che sono tipiche del distanziamento sociale. Insomma la scelta da parte del governo, caduta su questo aggettivo, per indicare una priorità comportamentale da tenere per prevenire il contagio (insieme all’uso della mascherina), pare richiamare un modello di pensiero abbastanza reazionario, che ha trovato una conferma anche nella scelta, nel DPCM entrato in vigore il 4 maggio scorso, di consentire, nella fase 2, le visite ai cosiddetti “congiunti”. Anche qui il termine,  dal punto di vista legale, è risultato abbastanza ambiguo e capace di prestarsi a svariate interpretazioni. Derivato dal latino “coniunctus”, esso è sinonimo di parente, indicando una persona unita ad un’altra da un vincolo di parentela ( quindi consanguinea o affine).

In realtà, proprio il codice Civile, all’articolo 74, definisce il termine parentela “come vincolo tra persone che discendono dallo stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione sia avvenuta all’interno del matrimonio, sia al di fuori di esso, come nel caso dell’adozione”. Quindi il termine “congiunti” verrebbe ad includere parenti ed affini, tra cui quelle figure che vanno al di là dei coniugi e dei conviventi, ma includono anche i fidanzati ed i cosiddetti “affetti stabili”.

Cercare di ricondurre a schemi rigidi le relazioni interpersonali e gli affetti, come si è cercato di fare nelle disposizioni governative fissate per l’avvio della fase 2, sta dimostrando la fragilità intrinseca nel controllo che si può esercitare sull’osservanza di disposizioni formulate in questi termini. Il lockdown che l’emergenza sanitaria da Covid 19 ci ha imposto ha, in fondo, dimostrato che la collettività non aveva in sé, già in tempi pre-Covid, quella forza di coesione, che sarebbe stata capace di impedirne una pericolosa frammentazione domiciliare. E se ora la fase 2, con la riapertura progressiva delle attività, porterà inevitabilmente le persone a confrontarsi con l’esterno, soltanto uno sforzo individuale e collettivo insieme riuscirà ad impedire che questa frammentazione ( necessaria in tempi di lockdown ) diventi la normalità sociale.