1. l’idea generosa del socialismo
L’equivoco fondamentale è il moralismo, che è la tomba della sensibilità alle questioni politiche. Il moralista, che pretende di comprendere e di correggere i mali della società immaginando misure proibitive e castighi, grazie alle quali separare i buoni dai cattivi, soffre di un inguaribile infantilismo politico. La sua coscienza, contrariamente a quanto egli creda e gli altri possano ritenere, dorme nella visione puramente teorica del bene e del male che lottano tra loro. Questa lotta, che c’è in ognuno di noi, perde di senso e di mordente quando, smesso un atteggiamento introspettivo, passiamo a guardare ai problemi della società.
Nella società – specialmente in quella delle metropoli e delle megalopoli dei nostri tempi – l’inserimento nella vita sociale è un fatto complesso e a quella che è la cultura ufficiale si affiancano tante sottoculture non riconosciute, non studiate, a volte perfino non percepite. A queste culture, silenti ma attive, fa riferimento chiunque abbia difficoltà a inserirsi nelle dinamiche della cultura dominante. Ciò accade perché la cultura dominante è tale in quanto sa fare i conti con quella ufficiale, che per secoli in Italia è stata la “cultura”, il sapere che conta e che è tale per decreto informale della cultura dominante. Per farci capire, la cultura ufficiale è in Italia la cultura di base condivisa dal mondo accademico europeo, quella che rende agili i rapporti che i nostri giovani studenti universitari hanno con le istituzioni culturali del resto d’Europa e non solo. Non è l’ultimo grido in fatto di ricerca, quanto piuttosto il complesso di quei saperi e di quelle norme comportamentali poste, come già detto, a base di quanto può apprendersi in campi specifici della ricerca. La cultura “ufficiale” è insomma quella a cui si appella la maggioranza delle persone, con l’assenso della scuola, dei mezzi di comunicazione di massa, del “gusto imperante”. In tal modo si giustificano vari comportamenti e si tratteggiano “idealtipi” (eroi ed eroine) che vengono poi proposti, per esempio, negli spot pubblicitari, nei fumetti, nei film di cassetta, nei romanzi popolari. È la cultura ufficiale che distribuisce premi alle opere letterarie e cinematografiche, che non manca all’appuntamento con gli eventi culturali di richiamo, come le mostre d’arte nelle più prestigiose cornici cittadine, spettacoli teatrali e musicali di grande impatto. Con molta discrezione, nel punto in cui tenta di saldarsi con la cultura dominante dice la sua su ciò che è la sobrietà e il buon gusto ma è poi la cultura dominante che suggerire di vestirsi “appropriatamente” secondo il luogo in cui ci troviamo; di parlare “correttamente”, a seconda di chi sia il nostro interlocutore; d’essere spigliati e sorridenti; di non arrabbiarci, preferendo mostrare stupore, disappunto, sconcerto, specie da parte delle donne, mentre l’uomo è autorizzato a voltare le spalle alle situazioni che disapprova. Da questa cultura che può definirsi, alquanto anacronisticamente, borghese e perbenista, sono tanti a discostarsi sempre di più e del tutto legittimamente, proprio facendo appello a questa o a quella sottocultura comunque operante nel tessuto sociale. Questo spiega l’emergere di certi localismi, di certe nostalgie del passato, che vanno dalla ricetta della nonna a un esotismo vivo nei discendenti di emigranti rientrati in Italia. Non sfugga neppure il fatto che vengano delineandosi, in questo clima di incertezze e di confusione, campioni di culture remote nel tempo e nello spazio, presunti maghi, ancor più presunti veggenti, santoni e perfino fattucchiere. Tutto questo perché la “cultura ufficiale” va perdendo in Italia di credibilità. La scuola non risponde alle esigenze degli studenti, anche per la troppa attenzione che i politici rivolgono alle famiglie degli studenti, utenti impropri del servizio educativo, ma finalmente soggetti votanti che spesso chiedono un impossibile tuffo nel passato. La pedagogia è teorica e suggerisce strategie che non si adeguano alle discipline da insegnare, cioè non mirano a risolvere problemi che l’insegnante ha materialmente in classe nel presentare questo o quell’argomento specifico, ma bada a soccorrere gli studenti in difficoltà. A volte si ottengono dei risultati ma per un caso risolto, ce ne sono altri che non si risolvono, magari perché vengono bullizzati quei ragazzi che, all’interno della classe, sono più solleciti a esprimere solidarietà con i compagni in difficoltà.
Resta il fatto che, se qualcuno ti chiede un parere intorno a fatti che fanno discutere, invece di dire quel che effettivamente pensi e senti, fai attenzione a uniformarti a giudizi condivisi, magari scontati e finisci col fare ragionamenti da bar, come accade alle persone che vengono “intervistate” (ma sarebbe meglio dire fermate) dai giornalisti della tv. È qui che ci si accorge come la cultura dominante domini di fatto anche la cultura ufficiale.
2. Dal fare al dire
Tutto questo per dire quanto sia facile, tutto sommato, cambiare opinione e difficile, invece, difendere certe posizioni perfino quando siano date per scontate. C’è così oggi chi vuole che il cittadino si armi per proteggersi “legittimamente”; chi pensa a pene più severe per i trasgressori della giustizia; chi contesta la sentenza di un giudice. E c’è anche chi invoca un qualche perdonismo perché “tutti possiamo sbagliare”. Sono tutte valutazioni superficiali e moralistiche, come tali prive di qualsiasi spessore politico perché non rimuovono la famosa “occasione” che proverbialmente “fa l’uomo ladro”, cioè all’occorrenza, farabutto, delinquente e assassino. Pochi si mostrano solleciti a riflettere circa le circostanze che portano l’uomo a delinquere. Pochissimi attirano l’attenzione su quella zona d’ombra lungo la quale corre la differenza tra “buon cristiano” e mascalzone patentato. Si fanno piuttosto discorsi confusi che valgono un più sincero “non conosco bene il problema perché non mi riguarda direttamente”. Gridare allo scandalo per le molte cose ingiuste non basta a cambiarle, serve solo a un commento con cui, a volte ipocritamente, si prendono le distanze da qualcosa che è ufficialmente riprovata ma che poi magari tanti fanno lo stesso. Nell’Ottocento qualcuno aveva sostenuto che per migliorare la società occorre aprire più scuole e più ospedali. Chi la pensava così, vedeva il problema nella giusta dimensione. Oggi però scuole e ospedali non bastano più e perfino i centri sportivi e le palestre sono piuttosto spesso ambienti formativi, ma diseducativi, nel senso che formano o rischiano di formare “campioni” che sono poi più mostri da circo equestre che persone capaci di gestire il proprio destino e la propria vita. Però la persona di successo è invidiata, rispettata, assai ben considerata e nessuno si pone la domanda del prezzo che in certi casi s’è pagato per arrivare al successo. E dàgli col moralismo.
È in questo quadro che il socialismo si rivela idea generosa, alla quale è difficile rinunciare senza arrossire di qualche vergogna. La cultura ufficiale non lo consente. Nei fatti però il socialismo è oggi fuori moda, per decreto della cultura dominante.
C’è una riprova di questo fenomeno. In nome di questo moralismo imperante, s’è infatti continuato a criticare, in quanto improntato a una qualche forma di egoismo, il famoso motto con cui Francesco Guicciardini ricordava come in politica non si debba trascurare il proprio particulare.
Guicciardini aveva ragione nel senso che ciascuno di noi si spende, e si spende bene, nel difendere le cause che gli appartengono, non quelle che si sostengono nel nome di un principio di giustizia che, per quanto nobile, nasce da una solidarietà posticcia che prescinde dalla conoscenza diretta dei fatti. Nessuno mette il dito sulla piaga dicendo che finalmente quel commuoversi per le disgrazie altrui non è vera solidarietà, ma momentanea e fuggevole partecipazione a un dolore che ci guardiamo dal fare nostro, proprio perché nostro non è. Ammetterlo però non pare bello. Sia la cultura ufficiale, sia soprattutto quella dominante si oppongono a che questo venga rivelato esplicitamente. Tutto questo denota una certa ipocrisia che diventa, senza colpa di nessuno, un abito mentale, uno stile di vita che consiste nel comportarsi come ci si comporta dal parrucchiere (dove si strizza l’occhio alla cultura dominante) o nel salotto buono di casa (e stavolta l’occhio si strizza anche alla cultura ufficiale). Questa “recitazione” ci trasforma tutti in indifferenti, partecipi a parole, fino all’indignazione di tutte le possibili ingiustizie del mondo, che vanno dall’infelice che fruga nei cassonetti dell’immondizia agli ucraini che patiscono per via di una guerra che combattono e che nessuno ha saputo scongiurare, fino a lambire la tragedia degli immigrati. Ma poi questa indignazione non ci porta ad adoperarci fattivamente perché qualcosa possa cambiare. E questa è l’indifferenza, per cui si dice e si dice, ma non si fa nulla.
3. Dal dire al fare
Ora l’avvocato Maralli del Giornalino di Giamburrasca, personaggio letterrario citato nel titolo di questo mio articolo, è un socialista che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ambisce a un seggio in Parlamento e tanto si affeziona all’idea da far sospettare che il suo socialismo nasca dalla mira di diventare onorevole cioè esponente della classe dirigente, acquisendo una posizione sul piano sociale che, a conti fatti, lo renda sempre più distante da coloro di cui vorrebbe patrocinare la causa.
Non voglio con questo tacciare tutti i socialisti italiani di quell’epoca di ipocrisia, quanto dare ragione a Guicciardini perché il proprio particulare, a ben guardare, emerge sempre nel politico che, quando è un vero politico, non si vergogna di lottare per perorare una causa che lo riguarda e che sente essere fondata. E per farmi capire ricorrerò a un esempio. Dopo l’unità d’Italia, le ferrovie che sorsero al Sud furono volute dai parlamentari meridionali, che si adoperarono per la strada ferrata. È facile capire che c’era di mezzo la difficoltà, per l’eletto, di far bene quello che doveva fare, cioè andare alle sedute in Parlamento dopo aver discusso con gli amministratori locali e valutato l’umore degli elettori e le esigenze reali dei cittadini, e in Parlamento riferire, se si presenta l’occasione, i problemi emergenti a livello locale. Ma arrivare a Torino dopo un viaggio di quattro giorni, parte in carrozza, parte in nave, parte in treno, arrivando per un qualsiasi imprevisto accidenti quando magari i temi importanti sono stati già discussi, pone a rischio l’impresa d compiere e che assai più disinvoltamente affronta il deputato torinese che, fino al un’ora prima di recarsi alla seduta, si confronta con la sua realtà che spesso muta in base alla notizia del giorno. Ci si adoperò da parte dei parlamentari meridionali del tutto giustificatamente per avere la possibilità di svolgere il proprio lavoro, cosa di cui non ci si deve in alcun modo vergognare, specie quando questo lavoro sia svolto per gli altri, oltre che per sé stessi.
Ecco allora che il proprio particulare non è da confondere col proprio personale tornaconto ma, almeno in una democrazia che si rispetti, col tornaconto della figura istituzionale o pubblica che precariamente si ricopre e che sarà domani ricoperta da un’altra persona in condizione di valutare il mio operato e di farne tesoro se avrò lavorato bene. È quanto accade in un qualsiasi ufficio pubblico con il cosiddetto passaggio delle consegne.
Tornando all’avvocato che, nel secondo Ottocento, conosce per lo più attraverso i suoi clienti quali siano i disagi e i problemi del proletariato che sono da lui vissuti di riflesso, va detto che la partecipazione emotiva dell’avvocato Maralli e dei suoi colleghi non basta a renderlo edotto di realtà che non ha mai vissuto. Dopo l’arringa nella quale ha strappato perfino lacrime oltre che applausi, raccontando del milieu nel quale il suo assistito ha trascorso l’infanzia, vinta la causa, il Maralli va a festeggiare in un confortevole ristorante assieme ai dirigenti locali del partito, una vittoria giustamente avvertita come utile a un successo elettorale. Ma che cosa pensa il cameriere che serve l’allegra compagnia, dell’allegria e dell’esuberanza giovanile e goliardica che a quel tavolo si respira? E quanto freddo è il tono, compassato magari e cortese, con cui l’avvocato Maralli fa la sua ordinazione?
Va da sé che nessuno è tenuto a rivolgersi, per fare politica, a un padre spirituale o a uno psicologo che lo aiuti a indagare quale sia la sua reale e più profonda vocazione. La psicologia umana alle volte conduce la persona a non vedere quale sia il suo vero particulare. Questi sono problemi che l’avvocato Maralli del Giornalino di Giannino Stoppani non deve affrontare, anche perché gli manca quella malizia che abbiamo maturato noi lettori dell’Interpretazione dei sogni di Freud e delle inquietanti note che la psicanalisi ha scritto dopo di lui, per non parlare del Libro rosso di Jung, vero capolavoro dell’analisi introspettiva. Tornando a quell’epoca e ai suoi dintorni, va detto che sicuramente il socialista Mussolini dovette a un certo punto capire che quel che lo interessava del socialismo era la strategia della rivoluzione, intesa come lotta per la presa del potere. E ne prese atto, accettando di porsi alla guida di un partito in cui tanti militanti erano antisocialisti. In fondo il fascismo nacque proprio da questa svolta.
E qui, passando dalla finzione letteraria alla realtà storica, occorre chiedersi che fine abbia fatto all’epoca del fascismo l’avvocato Maralli. Vamba infatti non ne parla e la ragione principale è che non fece in tempo a curiosare oltre quel 1920 che segnò la fine della sua vita. Però io credo che avesse intuito qualcosa di quel che stava per accadere. Il qualcosa era la crisi della tanto temuta rivoluzione liberale sulla quale non mancano d’appuntarsi alcune critiche sparse qua e là nel Giornalino.
Ritenere che tutti i socialisti del tempo siano stati dal regime fascista malmenati, assicurati alle patrie galere, al confino o addirittura uccisi è ipotesi da scartare, anche se diversi tra loro conobbero questo triste destino. Ma, a cominciare da alcuni deputati che, come oggi si direbbe, cambiarono casacca, non furono pochi i socialisti e i comunisti “in vista” che rinunciarono a fare opposizione, ritirandosi, piano piano e discretamente, a vita privata. Fu la base socialista, comunista e repubblicana, a tener duro, con esponenti dell’uno e dell’altro partito (Pertini, Gramsci, Buozzi per fare nomi notissimi) che tennero a non abbandonare la base non più “elettorale”. Ma nel partito socialista il famoso penalista Enrico Ferri, esponente storico di quel partito, si allineò sulle posizioni di Mussolini, dopo un colloquio con lui. E non fu il solo. Suo genero, avvocato, anzi celebrato principe del foro, Bruno Cassinari, stando a ricerche storiche effettuate in tempi recenti da Mauro Canali e da Mimmo Franzinelli, ufficialmente fedele al socialismo, sarebbe diventato spia dell’OVRA. Costui, secondo la ricostruzione dei fatti operata dagli studiosi, avrebbe utilizzato la sua fama di socialista per estorcere ai clienti che difendeva davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato istituito dal governo fascista nel 1926, informazioni che poi passava, dietro lauto compenso, all’ OVRA. Visse agiatamente, ed è credibile che riscuotesse laute parcelle dai clienti ingannati e non meno lauti compensi dal governo in carica.
4. Dalla storia alla storiografia (per arrivare alla politica)
Una più o mano ordinata successione di fatti. Questo appare tuttora la storia. Ma che ne è di quell’ordine prima che lo storico si sia posto al lavoro? In fondo la storia è narrazione e chi narra i fatti è lui a ricostruire il filo che li unisce. Forse, a volte, è opportuno far risaltare la difficoltà di mettere ordine in una ricostruzione di fatti che, accadendo simultaneamente o quasi, non collimano, si contrastano, si combattono trovando poi magari un regista che cancella questa evidenza. Voglio dire che la politica, prima della storia è manipolazione di fatti. Forse è anche per questo che l’antifascismo post-fascistico è stato alla fine una sorta di capovolgimento della autocelebrazione che durante il ventennio il fascismo aveva fatto di sé stesso. Era, sul piano narrativo, la soluzione più semplice, raccontare al negativo quel che era stato fino ad allora raccontato al positivo.
Il 2024 ai avvicina e si ragiona del doveroso omaggio da rendere a Giacomo Matteotti nel centenario della sua tragica morte. Sui retroscena di quel delitto è stato detto ancora poco, a cominciare dal fatto che Mussolini avesse compiuto qualche passo per coinvolgere i vecchi compagni di lotta socialisti ad entrare nel governo da lui guidato. Alcuni avrebbero volentieri aspettato, rimanendo a vedere che cosa si potesse fare. Matteotti, per varie ragioni che possono riassumersi nel fatto che nel Polesine lo scontro fascisti-socialisti fosse stato durissimo alla vigilia e durante le elezioni, era evidentemente contrario e improvvisò lì per l’un discorso coraggioso rivolto a Mussolini da un lato, ma anche ai suoi compagni di partito dall’altro.
La sua posizione di segretario del Partito Socialista probabilmente contribuì a condannarlo, dal momento che la cattura e l’omicidio che ne seguì fu opera dei cosiddetti “duri e puri” del fascismo che in tal modo ridussero, e di molto, il rischio di un’alleanza governativa tra fascisti e socialisti, nel senso che tutto si limitò a qualche “cambio di casacca”, come ho già detto. Ma di quel delitto non si è ancora trovata la mente che lo ha concepito, tenendo Mussolini a rivendicarne la responsabilità perché il capo di un governo non può ammettere di nulla sapere di quanto si verifica nelle file del suo stesso partito, senza perdere di credito presso i suoi sostenitori e di rispettabilità verso gli oppositori. E una cosa è certa, se Mussolini fosse allora caduto, sarebbe caduto per sempre. Il sospetto è che di lì in avanti, fino ad almeno l’inizio degli anni Trenta, si resse in piedi grazie a un certo funambolismo di cui l’uomo fu senz’altro capace.
Da questi fatti dovrebbe trarsi una lezione. In democrazia il politico non dovrebbe mai giocare a nascondere il suo particulare e dove questo fosse “inconfessabile” fare il bene di tutti qualche passo indietro fino ad abbandonare l’attività politica. Questa non fa per lui, perché non fa per noi. Comunque ci si ponga, a sinistra a destra o al centro.