In una precedente nota a proposito de Il cielo stellato e la legge morale dopo il 21 luglio 1969, interpretavo il pensiero di Kant nella età della “tecnica tutta spiegata” e della vichiana “barbarie della riflessione”, con l’appello alle “Guise della prudenza” ( che è anche il titolo del mio volume, Laterza, Bari 2017 ). In effetti, Vico viene prima del Rousseau, considerato da Kant; e apre le piste per la kantiana Metafisica dei costumi, distinta in “Dottrina della virtù” e “Dottrina del diritto”, a proposito dei doveri che attengono alla “Ragion pura pratica” (1787). Ma vi è di più. Il Vico prepara la distinzione tra imperativi ipotetici e imperativi categorici, caratterizzati – questi ultimi – da aspetti puramente formali ed universali; per l’ esigenza di porre il “come”, più che il“contenuto”materiale, a fondamento della azione morale. Questo tratto verrà dipanato in tutti i suoi momenti nella seconda “Critica” del Kant; ma, in fondo, era anticipato, come suggestione filosofica, con il “Diritto Universale” del Vico, prova ancor viva e parlante della Scienza Nuova prima e seconda (1725 – 1731 – 1744). Nella “complessità” etico-politica, storica, economica, giuridica e antropologica, che oggi tutti ci abbraccia e coinvolge, ‘non possiamo non dirci vichiani’.
Affiancherò alcune affermazioni vichiane con le più rigorose deduzioni kantiane, alla ricerca di un bandolo che ci sia di aiuto a dipanare problemi e aspetti della dottrina giurisprudenziale.
A Cartesio Vico obietta: il ‘Cogito ergo sum’ è in grado di darmi ‘coscienza’ non ‘scienza’ della mia identità. E’ il possesso del ‘come’ a garantirmi di ‘fare scienza’, con l’esempio ironicamente addotto del Sosia plautino, nel De nostri temporis studiorum ratione. Per quanto è da escludersi che Kant conoscesse le opere del Vico ( non lo cita mai espressamente ), pure tale esigenza gnoseologica ispira diversi punti o dottrine all’interno della sua speculazione filosofica e giuridica, spunti da cui attinsero successivamente la filosofia “positiva” dello Schelling, la fenomenologia e la critica dell’essenzialismo e del nominalismo, pronunciata da Karl Popper. C’è, poi, l’appello al De Constantia Jurisprudentis in Vico, che sostanzia la indagine del corposo “Diritto Universale” ; con l’instancabile ricerca delle “modalità” o delle “guise”, che ho provveduto a dipanare in quattro sensi: 1) le “regole” e la conoscenza delle regole; 2) le “modificazioni della mente umana”; 3) la mediazione e presenza dei “modi categoriali” tra le forme spirituali; 4) il Giudizio o la “guisa della guise”, come ripristino del “senso comune”. La attenzione serbata per le “guise”, con le vichiane “modificazioni della mente umana”, oscilla tra un aspetto “liquido” ( diremmo oggi con Bauman, anche se Kant dava al termine altra accezione ), di passaggio e transizione tra le forme di attività spirituali o tra natura e spirito; ed un aspetto “solido”, di creazione di opere e forme, Mondo 3 della cultura, possesso per sempre ( arte, logica, etica, economica, istituzioni ). Ma è un ‘tratto d’unione’ trascorrente e comune alla episteme moderna e contemporanea. Ed è anche anticipazione, come “metafisica della mente”, per certi aspetti, della “sintesi a priori” di Kant. “Il ‘verum ipsum factum’ precede la ‘sintesi a priori’. Vico insegna come l’uomo fa la storia. Kant come lo spirito fa la scienza”, sintetizzò Francesco Fiorentino negli Scritti varii ( Napoli 1883, p. 183 ). Ci fu anche un contemporaneo idealista di Kant, Friedrich Jacobi ( 1743-1819 ), che conosceva le opere di Vico e citava spesso il di lui Liber metaphysicus, del 1710, porgendolo all’attenzione del Kant e dello Hegel, specialmente per la valutazione della storia e delle scienze matematiche: “Geometrica ideo demonstramus quia facimus”. E cioè: “Noi dunque dimostriamo i princìpi e i teoremi della geometria, perché siamo noi a farli”. Jacobi vi rinveniva un precedente di Kant: “noi intendiamo un oggetto solamente in quanto possiamo farlo diventare pensiero davanti a noi e crearlo come giudizio” ( Jacobi, “Sulle cose divine e loro manifestazione”, in Werke, III, 1816, pp. 351-354; Bibliografia vichiana, di Croce e Nicolini, Napoli 1947, I, pp. 371-372 ). Su questa strada, si pose la celebre prolusione di Bertrando Spaventa (1817-1883), La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea ( 1860, riedita più volte a cura di Giovanni Gentile, Bari, dal 1908 in poi ), per cui “era implicita in Vico quella metafisica della mente che prenderà poi forma nella sintesi a priori kantiana” ( Bibliografia vichiana, 1948, II, pp. 619-621 ).
Il concetto vichiano della Provvidenza, “divina mente legislatrice”, fa sì che le traversìe divengano opportunità, “come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il genere umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tra grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità” ( Scienza Nuova seconda, § 132 e più oltre, in sede conclusiva, § 341 ). Questo concetto, noto come “eterogenesi dei fini”, in ambito di filosofia della storia e del diritto, verrà poi centralmente ripreso da Giorgio Hegel con la tesi della “astuzia della ragione”, nelle sue Lezioni di filosofia della storia. Ma è proprio Kant a occuparsi del concetto di “legalità”, nella Introduzione alla Metafisica dei costumi (1786) : “Queste leggi della libertà si chiamano morali per distinguerle dalle leggi della natura. – chiarisce il filosofo di Koenisberg -. In quanto esse riguardano soltanto le azioni esterne e la loro conformità alla legge si chiamano giuridiche; se però esse esigono inoltre di essere considerate esse stesse come princìpi determinati delle azioni, allora queste leggi sono etiche; si dà il nome di legalità alla conformità delle azioni colle prime; e di moralità alla loro conformità colle seconde” ( Scritti politici, trad. it. di Gioele Solari e Giovanni Vidari, con revisione di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, UTET, Torino 1956, pp. 389 sgg. in: 385- 411 ). Donde il Kant ricava le formulazioni dell’imperativo categorico: “Il principio che fa di certe azioni un dovere è una legge pratica. La regola di colui che agisce, che egli stesso si costituisce come principio, derivandola da motivi soggettivi, si chiama la sua massima; perciò, anche conformandosi alle stesse leggi, le massime di coloro che agiscono possono essere molto diverse. L’ imperativo categorico, che stabilisce soltanto in generale che cosa sia l’obbligazione, è: agisci secondo una massima che possa valere nello stesso tempo come una legge universale”. “Il principio supremo della dottrina morale è dunque: Agisci secondo una massima che possa valere nello stesso tempo come una legge universale. Ogni massima che non può essere qualificata come tale, è contraria alla morale” ( op. cit., pp. 401-402 ).
Tutto ciò è riproposto da Kant nella triplice formulazione dell’ “imperativo categorico” e nella Introduzione alla dottrina del diritto: “L’insieme delle leggi, per le quali è possibile una legislazione esterna, si chiama dottrina del diritto ( ius ). Se una tale legislazione esiste realmente, allora si ha la dottrina del diritto positivo; e colui che è erudito di diritto ( iurisconsultus ) si chiama giurisperito ( iurisperitus ), se egli conosce le leggi esterne anche esternamente, cioè nelle loro applicazioni ai casi che possono rappresentarsi nell’esperienza; e si può allora dare a questa conoscenza il nome di giurisprudenza ( iurisprudentia ); altrimenti si ha soltanto la scienza del diritto”. E’ qui che Kant introduce la brillante distinzione ( ancora attuale ) tra il quid sit iuris e il quid sit iustum, ossia tra il mero formalismo giuridico e il sentimento del giusto, tra l’aspetto procedurale e il “giudizio” vero e proprio; spingendosi a dire che il formalismo stretto è paragonabile alla “testa bella ma vuota” della Favola di Fedro ( ‘La volpe e la maschera teatrale’ ). Quindi Kant conferma il riferimento alla “legge universale”: “Dunque la legge universale del diritto: Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa accordarsi colla libertà di ogni altro secondo una legge universale”. Ma poi soppesa in sede pratica, nella “Appendice” a una delle due parti della sua “Introduzione”, tutte le aporìe di ‘fatticità’ ermeneutica della esigenza di applicazione della legge universale ai casi della esperienza comune ( pp. 410-411).
“Del diritto equivoco ( ius aequivocum )”. “Ogni diritto in senso stretto ( jus strictum ) include la facoltà di costringere. Ma si può inoltre concepire un diritto in senso largo ( jus latum ), in cui il potere di costringere non può essere determinato da nessuna legge. Ora questo diritto, vero o supposto, è di due specie: l’ equità e il diritto di necessità: di essi il primo implica un diritto senza coazione, il secondo una coazione senza diritto. Si scorge facilmente, che questo doppio senso deriva propriamente dal fatto che si dànno casi, in cui il diritto è dubbio, e in cui non è possibile riferirsi alla decisione di nessun giudice”.
Vedansi oggi, e con sconcertante attualità, i casi riproposti in sede di legislazione. L’alternativa tra la esigenza di “certezza del diritto” e la abnorme “crescita esponenziale della legislazione” ( specie nei paesi latini, ma non solo ), comporta casi di intricata contraddittorietà, in tutta evidenza. Kant direbbe ‘evidente’: ‘liquidum’ in senso diverso da “fluido” ( citato da Bauman, due secoli dopo ); ma di “certo”, “chiaro”; in netto contrasto con “illiquidum” ( “incerto”, “oscuro” ). Questo passaggio lo dobbiamo al saggio kantiano, in risposta a Christian Garve, Sopra il detto comune: ‘questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’ “ ( Scritti politici, cit., pp. 274-276 in: 237-281 ).
Procuratori, giudici, avvocati, pubblici ministeri, studiosi di ermeneutica giuridica sottolineano, specialmente in Italia ( a confronto del noto “Common Law” britannico o di alcune legislazioni europee, come la tedesca ), tutte le asperità della applicazione di una “legislazione” accresciuta nel tempo, proprio quando l’esigenza di “legalità” o conformità alla legge si impone in maniera sempre più severa, per il contrasto alle mafie e condotte criminogene ( es.: giornata della Legalità, il 23 maggio di ciascun anno, a perenne ricordo della strage di via D’Amelio, per Giovanni Falcone e la sua scorta, cui tenne dietro l’ uccisione dell’amico giudice Paolo Borsellino ). Proseguendo la propria spiegata analisi intellettuale, Kant tocca tratti di ancora più scottante attualità, nel momento in cui esamina l’altro capo del filo, ossia l’alternativa – essa pure fuori del “Sensus communis” – tra abuso di “potere giuridico” in senso formalistico e “Giudizio”, propriamente inteso. Che è un punto di pregevole e smagliante profondità ‘dialettica’. Continua, dunque, il filosofo tedesco, più di duecento anni fa: “Il motto ( dictum ) dell’equità è in vero questo: ‘Il sommo della giustizia è il sommo dell’iniquità ( summum jus, summa iniuria )’; ma a questo male non si può rimediare sulla via stessa del diritto, per quanto si tratti di un’esigenza fondata sul diritto, perché l’equità appartiene solo al tribunale della coscienza ( forum poli ), mentre all’opposto ogni questione di diritto propriamente detto deve essere portata davanti al tribunale civile ( forum soli )”. Dove il tribunale ‘celeste’ è detto poli, cioè ‘del cielo’. Mentre quello ‘terreno’, è soli, della terra. Notabilmente, Kant precede la critica contemporanea del cosiddetto ‘giustizialismo’, ossia dell’ abuso di potere sanzionatorio e repressivo, tessuto di formalismo e rigore procedurale; che per noi si protende nella attualizzazione di George Orwell, esemplificata negli ossimori di “1984”: “Illegality is Legality”; “Autonomy is Eteronomy” e “Guarantee is Pain” (“1994”. Critica della ragione sofistica, Laterza, Bari 1997 ). E cioè, proprio gli ossimori “Illegalità è legalità”, “Autonomia è eteronomia”, “Avviso di garanzia è pena”: nuovi ossimori che cancellano i chiarimenti kantiani di filosofia del diritto e corrispondono ai tempi, ripensando quelli originali del 1948: “War is Peace”; “Ignorance is Strenghr”; e “Freedom is Slavery”, con potente traccia ermeneutica. Kant, inoltre, nell’intuire e dedurre questa drammatica alternativa, definisce anche, immortalandolo, il conflitto tra ‘tribunale celeste’ e ‘tribunale terreno’, ius poli e ius soli, e potremmo dire ancora con Sofocle tra Antigone e Creonte, ‘leggi non scritte’ e ‘leggi scritte’ ( donde le tematizzazioni di Giorgio Hegel e Italo Mancini ). Ma, forse, il dilemma kantiano è ancora più versato sulla ‘modernità’, impegnando il “senso del celeste” come la ‘risorsa’ spirituale, di cui abbiamo in altra sede parlato.
Allo spartiacque tra ‘senso del celeste per gli antichi’ ( come conoscenza e influsso degli astri ) e ‘senso del celeste per i moderni’ ( comunicazione e risorsa spirituale ), spartiacque di fronte al giacobinismo, che segna il “turning point” comune per tanti temi e problemi della modernità ( libertà e totalitarismo ), Kant coglie le due infinità, il ‘cielo stellato’ e la ‘legge morale’, da una parte; ma, insieme, il “tribunale della coscienza” come forum poli o del cielo, avvicinando i termini della diade, giusta la prospettiva che sarà maturata da Raffaello Franchini, come abbiam visto in un precedente saggio ( “soltanto oggi possiamo dire che il cielo stellato comincia a sussistere non solo sopra ma anche dentro di me” ). In effetti, l’asserzione che “il cielo è mio, e nessuno mai me lo potrà sottrarre”, o – per dir così – la “meità del cielo”, è un paradigma efficace per tutti gli esuli e i martiri sgomenti e per tutte le vittime del “Dio che è fallito”, della shoah e del gulag, delle fughe e delle persecuzioni razziali: dal personaggio di Leone Tolstoj alle donne delle Occasioni di Eugenio Montale, dal Fato moderno e fato degli antichi di Giorgio Santillana alla cosmologia di Italo Calvino, dalla poesia di Dante fatta propria da Ernestina Battisti Bittanti e Giorgio Bassani agli studi scientifici di Arthur Koestler a proposito degli uomini “assetati di infinito”. Il “Turning point” è presente a Kant, che lo individua all’interno dei problemi di applicazione della nozione di “legalità” nei casi concreti, in cui si cala l’eccesso di “legislazione” ( il classico summum ius, summa iniuria, tante volte evocato nei dibattiti etico-politici degli ultimi trent’anni, da Nicola Matteucci ad Arturo Diaconale ! ). Ma i frutti del ‘giustizialismo’, forma sovrastrutturale del totalitarismo, si troveranno accentuati e moltiplicati nei secoli avvenire.
Per allora ( 1786-1797 ), Immanuel Kant si pone, e ci pone, innanzi agli occhi, il gran tema del “diritto equivoco”, della coazione e della libertà, del “doppio senso” del diritto, o del “diritto dubbio, in cui non è possibile riferirsi alla decisione di nessun giudice”. L’umanità è posta oggi – e sempre con maggior impetuosità e urgenza – di fronte ai problemi dell’automazione, della tecnica come dominio, della intelligenza artificiale, del fine vita, della manipolazione genetica, tutte forme in cui l’uomo ( direbbe John Milton di Paradise Lost ) si è fatto ‘pari a Dio’, “Equal to God”.
In un passo sopra citato, Kant ricorre alle discussioni di Lessing e Moses Mendelson, nel Jerusalem: “Noi vediamo che il genere umano considerato nel suo insieme compie delle piccole oscillazioni e non fa mai alcuni passi in avanti, senza ben presto, con raddoppiata velocità, ritornare alla condizione anteriore” ( cfr. Sopra il detto comune: ‘Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’ , del 1793, ora in Scritti politici, cit., pp. 274-276 ).
Siamo, così, di fronte a una rimodulazione della teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici, che si affaccia a visitare le tracce della “barbarie della riflessione”, peggiore della prima ‘barbarie del senso’, ma senza il matematismo e il determinismo illuministico di Lessing e Mendelson ( “con raddoppiata velocità, ritornare alla condizione anteriore” ). Vico, invece, scrive, nella Conchiusione dell’ Opera, ai paragrafi 1105-1108 della Scienza Nuova seconda, che la “barbarie della riflessione” rende gli uomini “fiere”, tali che “vadano ad arruginire le malnate sottigliezze degli ingegni maliziosi”, criticando “sì fatta riflessiva malizia”, esattamente sul percorso che porterà al “linguaggio capovolto” di Orwell e alla disanima di “Sofisma e libertà” nel citato Franchini, o della “menzogna politica” nei vari critici del costruttivismo e totalitarismo del XX secolo. E’ lecito, a questo punto, chiedersi. Siamo, allora, sull’orlo del precipizio, nell’età della tecnica tutta spiegata e della “barbarie della riflessione” ( Vico ), della “Fine della cività” ( Croce, 1946 ), del nuovo “abisso” ( Heidegger, 1946 ) o della junghiana “enantio-dromìa” ? Che riparo può esistere al “nessun giudice”, alla cui decisione mai riferirsi, menzionato dal Kant del 1797 ? Forse, per rispondere alla domanda ( che è un assillo ), un aiuto può venire da ciò che – storicisticamente – io chiamo la “dialettica delle passioni”, il piacere e dispiacere dello stesso Kant ( tra il 1763 e il 1790 ), ove gli scritti politici e di filosofia della storia e del diritto preparano la terza “Critica”, la Critica del Giudizio. In altri termini: quando un problema appare confliggere ed estenuarsi in una insanabile aporìa e quando una antilogia si dimostra insolubile ( più in generale: quando i supporti e gli artefatti dell’ intelletto astraente sopravanzano le chiare conquiste della Ragione pensante, sul ‘Tempo’ e sulla ‘vita’, sul ‘male’ e sulle ‘origini’ ), allora si ricorre alla formazione coeva del ‘sentimento’, inteso però come travaglio, ‘di-battimento’ interiore, ‘dia-leghesthai’ ( non a caso il termine giuridico-forense deriva dall’accento morale, ‘ri-guardato’ filosoficamente, cioè considerato nella sua processualità ‘trascendentale’ ).
Lo stesso Kant scrive, in questa ottica, “Del rapporto delle facoltà dell’animo colle leggi morali”, per la Introduzione alla metafisica dei costumi. “La facoltà di desiderare è il potere di essere causa degli oggetti delle proprie rappresentazioni per mezzo di queste rappresentazioni stesse. La facoltà di agire conformemente alle proprie rappresentazioni si chiama la vita. In primo luogo, col desiderio o l’avversione è sempre collegato il piacere e il dolore; la facoltà di essere sensibili a essi si chiama sentimento; ma il reciproco non è sempre vero, perché vi possono essere dei piaceri che non sono collegati con nessun desiderio di oggetto, bensì colla pura rappresentazione che ci si può formare di un oggetto ( essendo poi affatto indifferente, se quest’ oggetto esista o meno ). In secondo luogo, il piacere o il dolore che si connettono per noi all’oggetto che si desidera, non precedono sempre il desiderio, non debbono quindi essere considerati da noi sempre come causa, ma anche come la conseguenza di questo desiderio. (..) Il piacere che è necessariamente collegato col desiderio ( di quell’oggetto, la cui rappresentazione determina così il sentimento ) si chiama piacere pratico, sia esso causa od effetto del desiderio” ( cfr. Scritti politici, cit., p. 385 ).
Da parte la perdurante impronta empiristica del concetto di “causa” ( ‘post hoc, propter hoc’ ), che qui sopravvive in Kant, è evidente, nel concetto di “pura rappresentazione” dell’oggetto desiderato, il progresso verso la Critica del Giudizio e verso il “sentimento di piacere e dispiacere”, introdotto nella prima Prefazione del 1790, come cosmo intermedio tra la “facoltà del conoscere” (1781) e la “facoltà del desiderare” (1787). Kant ha còlto il valore “prospettico” del sentimento, e cioè il senso temporale e drammatico del travaglio interiore, che si accende nell’orizzonte della decisione (dell’ “Aut Aut”, come dirà il padre dell’esistenzialismo, Soren Kierkegaard ). Kant lo chiama “rapporto delle facoltà dell’animo umano con la legge morale”. Ed è questo il punto, che sollevo all’attenzione ermeneutica di interpretazione della “legalità” o della conformità alle leggi della decisione, anche nei casi più controversi, di carattere per dir così “ancipite”, in applicazione della ‘legislazione’.
Il giudice attraversa, egli pure, un sofferto dibattimento interiore: da un lato è chiamato a rispettare la “costanza del giurisprudente” e la “insistenza del giuridico” come principio formale ( discendente dal “Diritto Universale”, di Vico ); dall’altro, si trova innanzi al sopravvento della “legislazione”, che ‘complica’ tanto le cose, quanto più è stata introdotta per ‘semplificarle’ ( con nuova ‘eterogenesi dei fini’, o per le conseguenze inintenzionali di azioni umane, secondo Friedrich von Hayek ). Ecco che si anima nelle ‘facoltà dell’animo umano’, e del ‘suo’ animo, una forma moderna di ‘maieutica’, il parto della decisione, sofferta e agìta come dialettica di piacere e dispiacere. Tutto ciò comporta – diceva il geniale Carlo Antoni ( 1896- 1959 ) – il fatto che: 1) “La pena è del giudice”; e 2) il momento della pietas, la sintesi della “guisa delle guise”, il Giudizio, si caratterizzano per una superiore istanza umanistica di “com-prensione”, appunto, come contemperamento di ‘tribunale celeste’ e ‘tribunale terrestre’, foro della coscienza e foro dell’esistente, ethos e kratos, in una dialettica immanente, che risulta tanto più intensa e profonda quanto meno avvertita ( specie in quelle fasi di crisi, che vedono il coinvolgimento in inchieste e condanne di alcuni degli stessi magistrati, caso anche questo di ‘malizia riflessiva’ e prototipo della “barbarie della riflessione”, in senso ancora una volta vichiano ).
Anche di fronte allo spesseggiare di tali casi, in sede di ermeneutica filosofica e di metafisica dei costumi, andrebbe ricordato che “La pena è del giudice”, con tutto quanto ciò comporti ed impegni, ai fini della risoluzione delle “crisi”. Solo così si salvaguarda “Il diritto al diritto” ( v. il mio Enrico Cenni e Croce, nelle Generazioni del Tempo, Matarrese, Andria 2018, pp. 92-101 ).
“L’attività dello spirito è tensione e sforzo, affermazione di sé contro il nulla, che la insidia nel suo interno, ed è produzione di valore, quando è vittoriosa. Essere e non essere, che non si possono pensare separati, sono i termini e i poli di questa dialettica. – chiariva l’Antoni sul “Mondo” del marzo 1954 – Ma bisogna pur ammettere che l’impresa talvolta fallisca o risulti mediocre, che cioè il non-essere si traduca in impotenza ed angustia. Il giudizio negativo constata questa povertà, che non è mai però vuoto totale. Come il lento e il veloce sono opposti, ma il lento ha una sua velocità, come l’alto e il basso sono opposti, ma il basso ha una sua altezza, così anche il male è una coscienza morale, ma fiacca e gretta. Ma essa non è consapevole di esserlo, perché se si vedesse, si redimerebbe e impererebbe. E’ una superiore e più ricca coscienza che scopre con orrore e quasi con stupore quella meschinità. Questa scoperta è la sofferenza e pena del giudice, non del malfattore. E’ un dolore che è parente del rimorso, e forse è una sorta di universale rimorso. Dove però, nella condanna, c’è sempre il pericolo della superficiale incomprensione, della mancata carità, della superbia, proprie del fariseo, del puritano, del moralista, che condannano con soddisfazione e non con dolore e compassione. E’ quanto ben sanno le madri, che richiamano i figli dai loro peccati col solo spettacolo della propria delusione ed afflizione” ( Carlo Antoni, ‘La pena è del giudice’, in Il Tempo e le idee, ESI, Napoli 1967, pp. 447-452: sottolineature mie ). Trattando delle ‘origini della dialettica’, il filosofo triestino mette in guardia dal pericolo della “incomprensione, mancata carità e superbia, proprie del fariseo, del puritano e del moralista”, dando una traccia per la risoluzione del “diritto equivoco” o “dubbio”, isolato già criticamente da Immanuel Kant, come dei tanti casi limite di facile ‘giustizialismo’ avvenire. Il paragone con le “madri, che richiamano i figli dai loro peccati col solo spettacolo della propria delusione ed afflizione”, rende bene l’idea della difficoltà e della complessità del Giudizio, insieme con l’inevitabilità della “superiore e più ricca coscienza che scopre con orrore e quasi con stupore questa meschinità”.