Vorrei partire da una considerazione di un grande attore, Gigi Proietti, di recente scomparso sull’atteggiamento attuale nei confronti delle persone anziane: “Non esiste un momento storico nella nostra civiltà dove gli anziani non sono stati rispettati come adesso, e questa cosa mi fa un po’ inca….e”. Questa frase è il compendio di quanto ormai da tempo viene denominato “ageismo”, termine ignoto ai più, che significa discriminazione nei confronti degli anziani. Da un lato, i comportamenti ageisti hanno un’origine emotiva e psicologica: l’ostilità e la ripugnanza verso la vecchiaia deriverebbero dalla paura della nostra stessa mortalità. Dall’altro lato, sono un effetto collaterale del progresso medico: il successo della medicina nel trattare le malattie le ha rese croniche, caratterizzate cioè da un declino progressivo, ma lento. Ha determinato, inoltre, un incremento della multi morbilità, la coesistenza di più patologie o condizioni cliniche in un medesimo individuo. È cresciuto quindi il numero di utenti da assistere e, con esso, la quantità di risorse da convogliare verso la popolazione anziana fragile o con malattie croniche, che viene a rappresentare un onere per i singoli e per il sistema. La difficoltà di accettare “il peso della vecchiaia” si sedimenta in pratiche sociali, linguistiche, lavorative e manageriali. Si pensi alla difficoltà di venir assunti dopo i 45 anni, ai maltrattamenti nelle case di riposo, a metafore di uso comune come quella del “rottamare gli anziani”, al fatto che un over-60 su 6 subisce truffe, abusi finanziari, fisici e psicologici. L’OMS ritiene che, tra le varie tipologie di discriminazione l’ageismo sia la più frequente, persistente, normalizzata e socialmente accettata. Il ritornello: “virus che colpisce solo i vecchi” indica il sentimento di rassicurazione che accompagna l’identificazione della terza età con una fase di declino fisico, cognitivo e sociale. Chi abbraccia questa prospettiva ritiene giusto che gli effetti più gravi del virus ricadano sugli anziani, già titolari di una “quantità di vita” sufficiente e ormai gravosi per il sistema sociale ed economico. Questa è solo la riattivazione più recente dell’“ageismo”, termine coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Neil Butler per indicare l’insieme dei pregiudizi, degli stereotipi e delle discriminazioni basati sull’età. Il concetto non si riferisce solo all’ultima parte della vita, ma indica, in generale, l’atteggiamento sprezzante e discriminatorio di soggetti appartenenti a una fascia d’età verso soggetti appartenenti ad un’altra fascia d’età. Nelle società contemporanee, ammaliata dal mito della giovinezza e dallo stigma della vecchiaia, è intuitivo che l’ageismo finisca per riferirsi soprattutto a chi è in là con gli anni. I vecchi sono considerati lenti, incapaci, inefficienti, mancanti. Come osserva Butler: “la condizione anziana viene quasi negata da una società a impronta giovanilistica con una forma di spregio mass mediatico dell’immagine anziana, ridotta a caricatura fuorviante e discriminante, o peggio a sole immagini deteriori”. La seconda osservazione che propongo, viene da un primario geriatra, il dott. Monzani, circa il lockdown e gli anziani: “chiusi in casa, l’invecchiamento accelera e chi ha patologie croniche peggiorerà”. Un noto cardiologo, dott. Boccanelli, ha affermato “Sono sotto gli occhi di tutti i cardiologi i disastri provocati dall’inattività fisica, che hanno fortemente modificato l’andamento delle malattie cardiache. Sono aumentati i casi di scompenso cardiaco, le crisi ipertensive e le recidive di fibrillazione atriale, sia per il cambiamento peggiorativo dello stile di vita, dovuto a inattività fisica ed eccessi alimentari compensatori della depressione, sia per il timore di andare a farsi controllare periodicamente. Inoltre il deterioramento psichico causato dall’isolamento e dalla paura ha indotto spesso nei pazienti cardiopatici stati confusionali, con errori nell’assunzione di farmaci”. “Quando gli anziani cardiopatici, da maggio in poi, hanno timidamente rimesso la testa fuori casa, al cardiologo sono apparsi regolarmente mutati in peggio.” È ben vero che la curva epidemica e la mortalità salgono con l’età e con la presenza di più patologie croniche, tuttavia il beneficio che si avrebbe provvisoriamente per la pressione sugli ospedali, avrebbe successivamente ricadute ben peggiori, se si avranno anziani non autosufficienti o bisognosi di maggiori cure negli anni a venire. A questo si aggiunga che la vulnerabilità degli anziani non può essere tamponata con la segregazione, considerato che esiste una questione strettamente logistica insormontabile: come isolare delle persone anziane che, non di rado, in Italia convivono alle volte con figli che, essendo più giovani, godrebbero di maggiore libertà di circolazione e dunque potrebbero ugualmente portare il virus in casa. Nella sostanza, chi, anziano, decidesse di trasgredire norme e raccomandazioni e di esporsi al rischio di contagio farebbe in quel caso un danno a sé stesso, frutto di un calcolo personale, ma probabilmente non metterebbe a rischio l’intera comunità. Con l’aumento della circolazione virale nella popolazione, in generale diventa sempre più difficile isolare le fasce d’età a rischio, per cui anche contatti molto scarsi potrebbero comunque portare ad infezioni persino nella popolazione isolata. È logico e opportuno quindi tutelare la salute e la dignità dell’anziano non privandolo della libertà di movimento, ma solo con l’invito ad evitare possibilmente luoghi affollati e al rispetto delle misure di protezione individuale. L’educazione avuta negli anni passati dagli attuali anziani, adusi al rispetto di regole ben più stringenti in famiglia e a scuola, è la prima garanzia di un atteggiamento consapevole e rispettoso delle regole, sempre che queste siano chiare e non contraddittorie. Con le misure di distanziamento, il contagio è sicuramente inferiore al danno, quasi certo, che trarrebbero gli anziani da un secondo confinamento, con conseguenze ancora peggiori sulla loro salute. Come scritto nella Costituzione, art.3, l’Italia riconosce il diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione a tutte le persone che risiedono sul territorio nazionale, per cui oltre a raccomandare alle persone più fragili di non esporsi a rischi evitabili, non si possono disegnare obblighi destinati a singole categorie di cittadini. Nessun paese del mondo ha adottato un vero lockdown selettivo per gli anziani. Invece, potenzialmente, molte altre cose potevano essere fatte per creare un’infrastruttura e una rete organizzativa che permettessero una protezione ed un isolamento degli anziani, seppur parziale, molto più efficiente di quello attuale, che è stato lasciato in larga parte alla responsabilità e alle possibilità delle singole famiglie. A questo si aggiungono problemi etici; infatti, tanti avvertono che il passo tra la protezione degli anziani e la segregazione delle persone considerate “non produttive”, come definite recentemente da un personaggio politico, può essere molto breve. Isolare i cosiddetti soggetti fragili motivandone la segregazione con la volontà di proteggerli è una proposta ancora più paradossale, se pensiamo a quante attività economiche e professioni sanitarie sono appannaggio di anziani, sani e vitali. La vecchiaia, in sé, non è una malattia, non è un peso per la collettività, ma una risorsa basata sugli affetti, sullo scambio delle idee, delle esperienze e delle abilità. Privarci di competenze mature spezzerebbe i vincoli che legano l’intera comunità. Non è facile stabilire chi sia anziano e chi no; c’è gente che va per i 90 anni che è efficiente e dice anche cose molto intelligenti e ci sono persone di 50 anni che sono in condizioni molto peggiori. Taluno ha ricordato che Renzo Piano, che ha ricostruito il ponte di Genova, ha 80 anni e che la vulnerabilità non deve essere intesa come un difetto, ma come una grande opportunità, come ha ricordato il tennista Nadal, recentemente. Non ci sono esseri umani di serie A o di serie B: sono anni che lottiamo contro ogni forma di disuguaglianza e adesso se ne vorrebbe creare una nuova, di tipo anagrafico. Il rispetto dell’umanità deve venire prima di tutto. L’interruzione dei rapporti sociali diretti ha creato un vuoto nelle nostre giornate che, come hanno ricordato gli psichiatri, sul lungo periodo, sta portando ripercussioni sul tono dell’umore e sulle abilità residue di tutti noi e in special modo delle persone fragili, che non sono solo quelle che vivono con disabilità manifeste, ma sono anche tutte quelle che non hanno ancora o non hanno più, gli strumenti per controllare emozioni e sentimenti: i bambini e gli anziani. La tenera età e l’età della vecchiaia sono molto delicate: nella prima lo sviluppo della socialità aiuta a formare la personalità della persona adulta, nella seconda la socialità è indispensabile per sentirsi ancora parte del mondo e per cercare di mantenere attive le funzioni psico-fisiche che si vanno via via più o meno perdendo a causa dell’età. Ecco che l’improvvisa interruzione di ogni contatto sociale, ad esclusione dei famigliari conviventi, ha portato al crollo della rete sociale, che è il fondamento del nostro essere umani parte di una comunità. Rispetto al razzismo e al sessismo, “l’ageismo è ancora relativamente tollerato”: non esistono leggi che vi si oppongono. Inoltre, le persone anziane sono spesso ritenute responsabili dell’aumento dei costi della sanità. Infine, i più giovani possono percepirle “come una minaccia per la propria pensione”. L’etichetta della vulnerabilità può provocare quella stessa vulnerabilità, inducendo nell’anziano sentimenti di inutilità e frustrazione deleteri per la sua salute. Il rischio più grande che una vittima di ageismo corre è del tipo “profezia che si auto avvera”: la consapevolezza di essere visto in un certo modo dagli altri (ageismo etero-diretto) potrebbe indurre l’anziano ad adottare l’immagine negativa (ageismo auto-diretto) e a condurre stili di vita passivi e sedentari aderenti a quel quadro. Potrebbe, per esempio, sviluppare un sentimento di rassegnazione per la vita, rinunciando ai comportamenti preventivi e all’aderenza terapeutica. Tutto ciò comporta ripercussioni economiche non indifferenti. Uno studio condotto negli Stati Uniti su persone di età superiore ai 60 anni ha stimato che l’ageismo percepito in un anno dagli over-60 è la concausa di 17 milioni di casi di malattia, fra cui patologie cardiovascolari, respiratorie a metaboliche, con una spesa annuale di 63 miliardi di dollari. D’altra parte, gli over-65 in pensione e in salute continuano ad assolvere importanti funzioni produttive e sociali, per esempio attraverso il sostegno economico ai figli, l’assistenza ai nipoti, il lavoro non retribuito, il volontariato. Tanto per il benessere del singolo quanto per l’equilibrio sociale sarebbero auspicabili una rivalutazione e un cambiamento nel modo di concettualizzare l’età avanzata, a partire da una raffigurazione dell’anziano più complessa e realistica. Un fatto di cui si dovrebbe tenere conto è che, con l’aumento dell’aspettativa di vita la categoria degli anziani ha cambiato profilo, raccogliendo persone di una fascia di età estremamente ampia e diversificata nelle caratteristiche, in alcuni casi molto distanti dall’immagine stereotipata. Secondo uno studio condotto a livello europeo, il 28% degli anziani ha riferito episodi di intolleranza, addirittura più di coloro che subiscono atti di sessismo (22%) e razzismo (12%). In uno dei settori che riguarda gli aspetti principali della vita della persona anziana, ossia quello della sanità, il 30% degli over-60 ha dichiarato di essere trattato in modo ingiusto a causa dell’età. L’ageismo, come il sessismo o il razzismo, è un fenomeno che crea delle barriere tra un “noi”, costituito spesso dalle generazioni più giovani, e “gli altri”, usato in riferimento agli anziani, che devono essere abbattute Ciò che sorprende non è ovviamente il carico economico della popolazione senior, quanto il fatto che prima di arrivare alla terza età gli adulti ne parlino come se non toccasse anche a loro invecchiare, prima o poi. A ciò aggiungiamo che l’ageismo è esso stesso causa di morte prematura. Gli anziani che soffrono di discriminazione sono vittime due volte: della discriminazione in sé e del fatto che spesso non possono reagire, sia perché sono più fragili, sia perché non possono contare sull’identità di un gruppo, come invece accade per esempio con la comunità afroamericana nel caso del movimento Black Lives Matter, dove invece l’appartenenza etnica rappresenta una forza, anche per il singolo L’ageismo, dunque, causa danni psicologici, ma anche fisici. L’articolo 25 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue afferma che “l’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale.” Lo stigma dell’età che grava sulle identità professionali ha un peso maggiore più per le donne che per gli uomini. In tal senso si parla di accumulazione degli svantaggi: essere una lavoratrice donna è in generale più limitante che essere un lavoratore uomo; ma essere una lavoratrice donna over 45 è anche più limitante dell’essere una lavoratrice giovane. Il tema sembra collocarsi negli stereotipi di genere che le donne subiscono con l’avanzare dell’età anagrafica. Con l’invecchiamento le donne devono affrontare non solo alcune condizioni inevitabili nel ciclo di vita di ogni essere umano, quali l’indebolimento delle forze e della salute e lo scemare della memoria, ma qualcosa in più. Le donne subiscono lo stigma del decadimento fisico che le rende socialmente meno belle e desiderabili e professionalmente meno pronte a passaggi di ruolo e di responsabilità. Mentre è ancora diffusa la convinzione che gli uomini con l’età possano acquistare fascino e interesse, nelle conversazioni sono frequenti frasi come «è ancora una bella donna», «sembra più giovane»: espressioni che segnalano come la norma sociale di riferimento per la reputazione e la considerazione sociale e professionale delle donne sia la «bellezza della gioventù». La dittatura della bellezza, secondo i canoni estetici della gioventù, diffusa e incoraggiata dai mass media e dal web, travolge tutti, uomini e donne, vecchi e giovani, ma sembra condizionare soprattutto le donne più anziane. Il rispetto di certi modelli e canoni estetici viene sottilmente imposto come condizione indispensabile per il successo. Il bisogno di aderire a tale modello, contravvenendo alla propria identità fisica e psichica, è tale da rendere sempre più ricco il mercato dei prodotti di bellezza e della chirurgia estetica. Durante l’invecchiamento, che spesso coincide anche con un’età di forte cambiamento ormonale dovuto alla menopausa, si crea per le donne un circolo vizioso: da un lato la lotta contro l’invecchiamento fisico attraverso la manipolazione del proprio corpo rende le donne psichicamente fragili; dall’altro il burka estetico e il conseguente stigma professionale rendono impervio riuscire a mantenere un atteggiamento di serenità nei confronti dei cambiamenti fisici che la vecchiaia comporta. Tutto ciò è raccontato efficacemente nel video «Vecchio a chi» di Procter & Gamble realizzato per combattere gli stereotipi che gravano sulle donne, ma anche sugli uomini, over 50; è la testa e non il corpo in sé a fare la differenza, ed è la passione con cui si guarda al futuro che permette di avere sempre più progetti che ricordi e di invecchiare attivamente. L’interruzione di tutti i servizi sociali, tra cui anche i circoli ricreativi per gli anziani, ha tolto alle persone la possibilità di incontrare gli amici una o più volte alla settimana, di fare delle attività, come il gioco a carte o il ballo di gruppo, che stimolano le funzioni cognitive e mantengono in allenamento le abilità residue. In una situazione d’isolamento e di tono basso dell’umore, unico sollievo è portato dal trascorrere del tempo insieme a persone care e allegramente. L’isolamento forzato ci ha fatto assistere situazioni impensabili, da un lato negative, con anziani soli chiusi in casa, caregivers costretti a sopportare da soli la fatica di stare accanto al loro caro con disturbi cognitivi, caregivers ammalati ed impossibilitati ad accedere ad interventi di sollievo nella gestione della casa e del loro convivente, dall’altro positivo, facilitando l’utilizzo di dispositivi da parte di chi non è nato nell’era tecnologica, col grande aiuto dato gli strumenti social: chat, videochiamate singole e di gruppo, condivisione virtuale di momenti per cercare di sentirsi vicini, anche se lontani. Certamente questa inclusione virtuale ha rappresentato una parziale continuità dei rapporti sociali e alcuni dei servizi messi a disposizione da enti ed associazioni hanno cambiato forma, ma non sostanza. Sono stati attivati servizi telefonici di supporto psicologico, sono stati approntati webinar e corsi on-line per diffondere consigli e metodologie di approccio alla gestione dell’emergenza e della paura, è stata ampliata la rete della diffusione delle informazioni per cercare di raggiungere quante più persone possibili, cercando di infondere a tutti positività, per non aggravare situazioni già difficili. Molte ricerche evidence-based dimostrano quanto sia importante arrivare all’età della vecchiaia in una buona condizione psico-fisica; una di queste ricerche è il Grant Study dell’Università di Harward, che da oltre 80 anni monitora un gruppo consistente di persone nell’arco della loro vita, cercando di trovare gli elementi predittivi per un invecchiamento di successo. Uno dei fattori più importanti per il benessere psico-fisico riconosciuto da tutti gli studi è avere e mantenere nell’arco della vita relazioni sociali di buona qualità: le relazioni sociali positive migliorano il tono dell’umore e permettono di affrontare meglio anche le avversità della vita, mentre la solitudine porta a stati fisici e psichici deleteri per gli individui. In questi mesi di lockdown la solitudine non è stata una scelta ma una imposizione; gli anziani, spesso sopravvissuti alla guerra, hanno faticato a comprendere la necessità di isolamento per cercare di contenere un “nemico invisibile” ed è stato difficile per i familiari riuscire a trasmettere l’importanza di adottare comportamenti di sicurezza che hanno modificato pesantemente le abitudini quotidiane. In queste condizioni così difficili, ci sono persone con una difficoltà in più: sono le persone con i disturbi cognitivi e le persone a rischio di disagio psico-sociale, persone alle quali la socialità è indispensabile per mantenere viva e attiva la memoria, alle quali la gioia di trascorrere del tempo insieme a persone care e in allegria porta sollievo in una situazione d’isolamento e di basso tono dell’umore. Il leitmotiv è stato per tutti infondere positività per non andare ad aggravare situazioni già difficili. Il mantenimento di relazioni positive ci aiuta in tutti i frangenti della vita e ad affrontare l’emergenza e la paura insieme a persone care, vicine, anche se fisicamente lontane, e ci permette, anche se con fatica, di mantenere alto il tono dell’umore per superare la difficoltà. Al di là del contagio, per gli anziani esiste il rischio di depressione, la mancanza di controllo e cure costanti dei familiari, ad esempio per un anziano autosufficiente, ma che tende a dimenticarsi le medicine o l’assenza di movimento fisico adeguato. Una chiusura riservata selettiva, riservata agli over 70, sarebbe efficace solo in presenza di una rete solida di servizi che sia, davvero, una presenza sui territori. La sfida della società e delle imprese sembra dunque quella non solo di combattere lo stigma dell’ageismo, ma anche di promuovere «l’invecchiamento attivo» che, secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, è «un processo di ottimizzazione delle opportunità̀ relative alla salute, alla partecipazione e alla sicurezza, allo scopo di migliorare la qualità̀ della vita delle persone anziane» In piena bufera Covid-19, al netto dei numeri e delle percentuali di persone infette o guarite, dei gravi danni arrecati alla economia e alla società in generale, balza con evidenza marcata il numero degli anziani che il nostro Paese sta perdendo giorno dopo giorno. /Ci si riferisce a quelle donne e a quegli uomini che dopo averci dato la vita, ci hanno donato la Democrazia, hanno fatto esplodere il boom economico del dopoguerra, ci hanno messo a dormire con favole “delicate” per affrancarci dalla paura, ci hanno fatto studiare rappresentandoci il futuro come meta raggiungibile a determinate condizioni. Sono quelli che, poi, si sono trasformati in nonni, all’arrivo dei nipoti, senza investitura ufficiale, certo non con la firma di un decreto di nomina, perché essere nonni è una proclamazione di fatto. Sono quei nonni che hanno sostituito e sostituiscono, con abnegazione e intelligenza, “l’assenza involontaria” dei genitori, consci che, con il loro impegno, consolidano sicuramente le capacità del bambino, dell’adolescente e del giovane, e spesso rappresentano un punto di riferimento. Sono quei genitori che, in più di una famiglia su tre (37%), aiutano il bilancio domestico dei propri figli e, nei fatti, hanno assunto una dimensione rilevante; gli ultimi dati statistici segnano un aumento del numero dei nonni di età compresa tra i 50 e i 60 anni. Nel nostro Paese, le persone anziane sono oltre 15.200.000 e per aspettativa di vita siamo, comunque, al secondo posto a livello mondiale dopo il Giappone, con una media pari a 82,3 anni (80,9 per gli uomini 85,2 per le donne). Non può continuare ad esserci dicotomia tra l’investire sui giovani, sul loro welfare e agevolare un rinnovato ruolo dei nonni: entrambi rappresentano due facce di una stessa medaglia, che deve essere contrapposta all’ageismo. Un termine che ritorna, con violenza inaudita, in questa epoca in cui si comincia a parlare di selezione nell’assistere gli ammalati anziani, ma che raggiunge il suo parossismo quando si ascoltano dichiarazioni ciniche e superficiali, come quella del giornalista olandese Jort Kelder che, in diretta TV, ha dichiarato: “stiamo salvando gli ottantenni obesi che fumano, chissà quanti danni economici comporterà il salvataggio di queste persone che potrebbero morire tra due anni”. Ma, forse, una forma di ageismo, ancora più subdolo, è nascosto nel segreto della gestione delle Rsa (Residenze sanitarie assistite) che, come un vaso di Pandora, hanno messo alla luce la triste e critica situazione in cui sono abbandonati i nostri anziani. Fra le tante riflessioni che Covid-19 ci sta consegnando, rimane forte la convinzione che siamo obbligati ad optare per una visione che guardi con attenzione ad un modello di società che privilegi la qualità della vita, ridisegnandola in una dimensione tale da guardare al presente e al futuro senza discrimine fra generazioni, perché non c’è ossimoro tra l’investire sulle future generazioni e agevolare un rinnovato ruolo dei nostri nonni, ma codipendenza vera e propria e questo trade–off è un punto cruciale, che va realmente preso in considerazione prima che sia troppo tardi. È un percorso obbligato non per affrancarci dalle responsabilità, ma per evitare di continuare a “snobbare” le migliaia di morti portati via nell’assordante silenzio di questa immane tragedia. Le discriminazioni nei confronti degli anziani sono in aumento. Secondo un sondaggio, il 28 % delle persone della terza età si sente discriminato. Con la crisi, chi è anziano diventa il capro espiatorio delle politiche di austerità. L’Ageismo è diffuso, ma ancora tollerato e la colpa è anche delle istituzioni che nulla fanno per combatterlo. Occorre attivare un programma di sensibilizzazione dei bambini sull’ageismo, come ha di recente affermato il professore Christian Maggiori, docente presso l’Alta scuola per il lavoro sociale di Friburgo, in un’intervista pubblicata dal quotidiano friburghese “La Liberté”. È importante lavorare con i bimbi, perché gli stereotipi vengono integrati a partire dai 4-5 anni. Quando la persona sarà anziana, applicherà a sé stessa questi stereotipi, che avranno un impatto sul suo benessere, per cui alcune persone anziane tendono, ad esempio, a trascurare le cure perché ritengono che sia normale essere malati a partire da una certa età. Al tempo della Terza Grande Depressione, gli anziani (i non ricchi e non potenti) spesso divengono -insieme ad altri soggetti marginalizzati, discriminati o disprezzati (ancora una volta migranti, rifugiati, rom)- capri espiatori per settori di popolazione che sperimentano direttamente gli effetti sociali della crisi e delle politiche di austerità. Non solo: l’ideologia dell’austerità, le sue pratiche, nonché una certa demografia apocalittica fanno sì che l’invecchiamento della popolazione sia rappresentato – dai poteri ma anche da settori di opinione pubblica – come fardello sociale non più sopportabile. Così i tagli drastici al welfare, in specie alla sanità pubblica, nel nostro e in altri paesi europei incrementano la discriminazione delle persone anziane. In Europa sono soprattutto i medici a denunciare che l’età avanzata è la principale barriera rispetto all’accesso a cure sanitarie adeguate. L’età non è solo un limite e deve essere trasformata da problema in risorsa. La speranza di vita è un segno di civiltà e un indicatore di sviluppo, ma da un po’ di tempo è anche un fattore di rischio. I portatori involontari di questo rischio appartengono alla categoria anziani, alias vecchi, vecchiacci, nonnetti, vegliardi, secondo una poco simpatica classificazione. Su di loro si fanno pesare i maggiori costi della sanità, la spesa pensionistica, persino la mancata crescita. È una semplificazione sbagliata. Perché la vecchiaia, nonostante tutto, non ha il monopolio della debolezza o della cattiva salute, dicono i medici. Perché su 16 milioni di pensionati in Italia, 7,2 milioni hanno un assegno inferiore ai mille euro e il 17 per cento vive con meno di 500 euro, informa l’Istat. Perché la mancata crescita è dovuta alla bassa competitività e ad una popolazione attiva che invece di allargarsi si restringe continuamente. Per mettere la longevità «nel cassetto delle risorse e non dei problemi», sostiene Fabio Roversi Monaco, ex rettore dell’Università di Bologna, ideatore del festival della Scienza medica, «va cambiato un modo di pensare» troppo incline all’ageismo e alla rottamazione. Bisogna aggiornare le età della vita. Si deve trasformare una questione prevalentemente assistenziale e sanitaria in una risorsa che può diventare fattore di ricchezza: la crescita si aiuta anche con i beni relazionali. In questo caso gli anni non sono un limite: possono essere un vantaggio. L’età è solo un numero, intitola un saggio sulla vecchiaia il semiologo Marc Augè. Ci sarebbe una soglia da abbattere, per dare a milioni di persone un motivo in più per non sentirsi vecchi. È la soglia 65. Per convenzione si considerano anziani le persone di età superiore a una soglia fissa, per esempio i 65 anni. Tra gli ultrasessantacinquenni esistono profili eterogenei per stato di salute e condizioni di vita. Sono state proposte varie misure dinamiche dell’invecchiamento di una popolazione. È stato detto che c’è un’età anagrafica e ce n’è una biologica. A metà del secolo scorso la speranza di vita residua a 65 anni era di 13 anni. A 65 anni si entrava così nel parametro «anziani». Oggi a 65 anni ogni uomo e ogni donna può dire «anziano sarà lei» a un incauto interlocutore rimasto fermo ai pregiudizi, perché, negli ultimi cinquant’anni, è cambiato tutto. Oggi 13 anni sono l’attesa di vita di un uomo di 73 anni e di una donna di 75 anni. Se utilizzassimo l’attesa di vita residua di 13 anni, come criterio per definire la soglia di entrata nell’età avanzata, oggi in Italia 6,5 milioni di persone di età compresa fra 65 e 74 anni non verrebbero più considerati anziani. Non è una rivoluzione lessicale. Indica una trasformazione in corso: la soglia di transizione mobile si porta dietro una serie di effetti da non lasciare alla deriva. I dossier dell’Onu e il rapporto «An Aging World 2015» ci avvertono che per la prima volta nella storia dell’umanità la percentuale degli ultrasessantacinquenni supererà quella dei bambini di età inferiore ai cinque anni. Il punto d’incrocio è proprio nel 2020. In Italia, ci ha ricordato l’Istat, nel 2015 ci sono state 15 mila nascite in meno rispetto al 2014: il minimo storico da quando c’è lo Stato unitario. Nel 2050 la percentuale degli ultrasessantacinquenni sarà più del doppio di quella dei bambini. Così, fra poco ci saranno più nonni che nipoti. E questo è un guaio serio. Se il miglioramento delle condizioni di salute ha portato l’Italia al primato della longevità (dopo il Giappone), la mancanza di politiche a sostegno della donna che lavora incide sul calo delle nascite. Crescere un figlio ha un costo che molte giovani coppie, senza il sostegno della famiglia, non riescono a sostenere. La retta di un asilo nido è come uno stipendio: troppo alta. Del pari le rette delle case di riposo, che si abbattono sempre sulla famiglia, quando la vecchiaia da conquista diventa un peso, a causa di malattie gravi o degenerative sono esose. L’anzianità va rimessa in gioco senza scontri generazionali, sfruttando i vantaggi e limitandone i disagi. Le cifre e i grafici vanno interpretati cercando le condizioni per un riequilibrio, senza colpevolizzare chi si avvia ad entrare nella quinta età, quella degli ultranovantenni. Cancellando l’aggettivo anziano per i sessantacinquenni si definisce un’area e si libera un’età. Non solo per chi è fisicamente in forma. Soprattutto per chi partecipa alla vita sociale, economica, culturale e civile del Paese ed è ancora pronto a fare la sua parte. «Viviamo più a lungo, è vero. Ma gli ultimi anni della nostra vita li viviamo male rischiando di peggiorare ulteriormente la nostra condizione. Non è per caso che la stragrande maggioranza delle vittime causate dal coronavirus siano persone anziane con pluripatologie». Roberto Pili, medico, presidente della Comunità mondiale della longevità, conosce bene il problema e da anni è impegnato in progetti per sensibilizzare l’invecchiamento attivo e in salute. «In Sardegna – spiega – ci sono circa 500mila over 65, poco meno di un terzo della popolazione isolana, di questi, 15mila sono over 90. Molti di loro non sono autosufficienti, hanno bisogno di una badante che magari, per via dei costi, pagano in nero. Ora, non potendo dimostrare il rapporto di lavoro, si ritrovano da soli. È uno dei tanti problemi conseguenti all’emergenza», ma non l’unico «perché tra gli anziani che vivono in famiglia e quelli che stanno da soli in casa o che vivono nelle Rsa e in altre comunità, c’è una sostanziale differenza. Soprattutto c’è un modo diverso di guardare il cosiddetto nonnino. In famiglia è ancora un punto di riferimento, spesso di aiuto economico a figli e nipoti. Nelle altre situazioni è visto quasi come un peso». La pandemia ha focalizzato sugli anziani i riflettori. Dobbiamo sperare che questo serva a riconsiderare quanto sia negativo per la società civile, sotto tutti gli aspetti, partendo da quelli etici per giungere a quelli economici, perseverare in una discriminazione strisciante, quale l’ageismo. Dobbiamo essere consapevoli che i giovani di oggi saranno i vecchi di domani, ma anche domandarci quale prospettiva e futuro avranno questi stessi giovani, se non rispettano e pongono in essere, adesso, idonei correttivi per non subire essi stessi forme di ageismo domani.
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