Ci spiega Marchetti che, dopo avere antologizzato in modo ponderato i propri testi nell’antologia Latitudini fluttuanti (puntoacapo Editrice) si rese conto che altri testi – per nulla scarti, ma che non potevano giustamente confluire in quel volume,  meritavano una riproposizione – altrettanto ponderata. Ed ecco il secondo volume di oggi, Le incognite dell’anima (ivi), in un certo senso satellite pregiato del primo, che si dota di una illuminante postfazione di Mario Marchisio.

Questo ci conferma quanto Marchetti sia un poeta serio e progettuale, i cui libri sono sempre frutto di una attenta riflessione.

C’è un modo per fraintendere il suo lavoro. Certo, è poesia che nasce da riflessioni personali, persino aneddotiche, che in un certo senso portano sulla pagina le intermittenze del cuore, della memoria ma anche della ragione; certo, per questo motivo può essere definita poesia che oltre a porre l’Io come punto di vista lo pone anche al centro della tematica; e infine, certo, è poesia spesso colloquiale, in un verso libero che spesso ci riporta alla prosa del mondo, alla direttrice metonimica: le accensioni liriche, le spinte sull’asse metaforico e simbolico sono sempre sotto attenta sorveglianza della ragione.

Marchetti imposta fin dagli esordi (già misurati e maturi) una poetica di aurea mediocritas (e si intenda il termine in senso elogiativo!). Il suo sguardo da osservatore non di rado distaccato (lo attesta già la prima raccolta) proviene da un disincanto, da una sorta di disillusione esistenziale: la stessa, inaspettatamente, di un Montale, poeta solo apparentemente distante, in realtà vicino nel cercare il varco, l’anello che non tiene, e quindi molto più in sintonia nelle sue ultimissime prove con il Marchetti già degli esordi. La disillusione di Marchetti è però temperata da una dose di ironia, mai priva di empatia, più divertita che mai cinica, garbata e spesso signorile, apparentemente svagata, aneddotica, impregnata di saggezza classica, più stoica o forse epicurea che cinica.

È una poesia sabauda, forse, “da sfingea capitale subalpina”, p. 50), che ha in filigrana il rigore austero della sua città, un esprit de geometrie che governa sempre il dettato imponendo una ratio di equilibrio e proporzione. Fare poesia “equilibrata” è molto pericoloso, infido: si corre il rischio di una prosa sciatta con a capo casuali, e tematicamente di una generale insipienza. Si veda però ad esempio la citata poesia a p. 50, Se mai avvenga, dedicata alla moglie Daniela: qui c’è un equilibrio perfetto tra spinta emotiva e realizzazione espressiva, senza debordare mai nel patetico.

Non bisogna però pensare a una poesia che serenamente renda conto di un rapporto distaccato e pacificato con il mondo. Quella di Marchetti è poesia di inquieta indagine, come confermano i tanti interrogativi che puntellano i testi, e che ricordano la tensione metafisica del Luzi di Per il battesimo dei nostri frammenti, anche se qui il significante delimita soprattutto un Io colloquiale, incerto sul proprio statuto di fronte a una verità sfuggente o forse inesistente – e di cui fa parte la consapevolezza del tempo che fugge e lascia ben poco fra le mani e il dubbio ontologico che trapela soprattutto nella Suite delle tenebre e del mare (puntoacapo 2017?). Altro segnale di questa inquietudine sono i frequentissimi incisi, davvero una costante nella poesia di Marchetti e che rappresentano, più che irruzioni di altro nel discorso poetico,  

esitazioni:

ora che i giochi

sono fatti (più o meno bene e più o meno tutti

(Istantanee memoriali, LF 163)

Precisazioni:

L’Apocalissi –

quella millenaristica escatologica fasulla

che tutti da sempre hanno temuto o hanno

fatto le lustre di temere, non quella

operante e reale descritta da Giovanni

(e di cui nulla importa a nessuno ad eccezione

di pochi saggi dottamente addetti ai lavori) –

l’Apocalissi apocalittica

torna di moda e alla ribalta in questo mondo

(Odicina dubbiosa a Giambattista Vico, LF 171)

anche l’amore crebbe nel tempo

– come dovrebbe –

 (Legami indissolubili, LF 155)

mi venne a un tratto da pensare

che anch’io – senza essere Borges

e neppure Guido – sono stato

infelice e l’ho saputo

(D’ora innanzi, LF 148-9)

digressioni

Saliva le scale lentamente

per ritornare in camera

e il suo costume azzurro era stracciato

                (mi viene proprio da piangere

                domani ripartiamo

                e neanche un bagno ho fatto)

 (Foto a sorpresa, LF 146)

Ecco, Marchetti ci consegna una voce che si esprime in un piano, persino in un pianissimo, ma che è forte, perché lavorando progettualmente per accumulo, ci consegna man mano una esperienza di vita e una profonda riflessione su di essa, in equilibrio fra sogno e ragione. Ed è poesia vera perché autentica e vissuta, di contro a tanta pseudopoesia che sì parte dall’autenticità ma per sprofondare nel banale diarismo.