La mattina della Vigilia era un momento di grande eccitazione per noi bambini, ci si svegliava abbastanza presto, e con la mamma andavamo a prendere le ultime cose. In realtà era almeno un mese che lei e nonna Ida compravano cibo e lo mettevano da parte, neanche aspettassimo l’invasione dei Marziani. Mio padre era quasi sempre defilato da qualche parte e lo si rivedeva qualche ora prima del Cenone, cosa che non mancava di scatenare le ire materne. Un paio di giorni prima avevamo comprato una grossa pagnotta di pane pugliese, almeno tre chili di profumata mollica e crosta croccante, tenuto lì ad indurire, per fare la bruschetta della Vigilia. Mio padre accendeva il poutagé e abbrustoliva il pane, che poi veniva condito con l’olio spremuto da poche settimane. Ricordo il pizzicore alla gola che l’olio novello, torbido e aromatico, provocava. Nel pomeriggio tardo ci si riuniva a casa della nonna paterna, rossa di capelli, occhi verdi e con la pelle candida e profumata, e si cominciava a cucinare frittelle di pane. Poi tutti seduti a tavola per il lungo Cenone di magro, che terminava solo mezz’ora prima della Messa di mezzanotte, alla quale era impossibile mancare. Tornati a casa, seppure assonnati, aprivamo i regali, pochi e semplici, faticosamente messi sotto l’albero dai nostri genitori. Un anno volevo appassionatamente il Cicciobello, bambolotto dalle sembianze di neonato, che mia madre e mia nonna pagarono ben 11.000 lire alla Upim, raggranellando soldi tutto l’anno. Per le Feste arrivavano le cugine dal Veneto e i cugini da Foggia, che allora mi sembrava grande come New York, e si festeggiava assieme. Mi piaceva giocare con mia cugina Patrizia, rossa di capelli e con gli occhi verdi, come la nonna paterna, che tutti rimpinzavano, perché sottile e pallida, mentre cercavano di tenere a bada la mia fame robusta. La mattina di Natale si preparava il gran pranzo, mai meno di 15 persone, e noi bambini mettevamo la letterina brillante di porporina, sotto il piatto di papà, che la apriva, ce la ridava con fare pomposo, e noi la leggevamo tutta d’un fiato e cantilenando, accompagnando le rime col dondolio del corpo. Arrivavano allora gli spiccioletti da tutti i presenti, la strenna, che io trasformavo in figurine dell’album degli animali o in caramelle e mio fratello in qualche soldatino di plastica per le sue armate. Il pomeriggio si giocava a tombola, mia nonna materna vinceva sempre, e a mercante in fiera o a carte, si continuavano a mangiare dolci e frutta secca, e tutto sembrava magico. Non importava se l’indomani sarebbero tornati i problemi di una vita difficile, le litigate tra i miei e le difficoltà economiche, nessuno poteva interrompere quell’atmosfera rarefatta, in cui tutti galleggiavamo interpretando la nostra parte migliore, e l’anno nuovo? Chissà….
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