Il centenario della nascita del Partito Comunista Italiano ha prodotto in Italia una serie infinita di saggi e di articoli, quasi tutti molto elogiativi e totalmente privi di una riflessione critica e storiografica, su un partito che ha dovuto chiudere i battenti perché condannato dalla storia. Oggi solo piccoli gruppi si richiamano a quel partito che ebbe un ruolo nella società italiana del passato, ma che dal crollo del Muro di Berlino, ha dovuto cambiare ragione sociale per sopravvivere e riuscire ad andare al potere. Una delle assurdità della politica italiana è stata che un partito storicamente morto, dopo una cosmesi frettolosa, con gli stessi dirigenti di prima, sia andato al potere; qualcosa di incomprensibile, se non la si associa alla forza d’urto di certa magistratura, messa in campo all’epoca di Tangentopoli contro i partiti democratici, cancellati via con un colpo di stato giudiziario. Ci si sarebbe attesi qualche capacità di ripensamento critico, ma pretenderlo da Ezio Mauro risulta davvero impossibile, essendo stato un militante comunista mai pentito, che ha diretto “Repubblica“ come il carro armato che a Praga nel 1969, ha schiacciato la libertà appena riconquistata. In passato gli esponenti comunisti erano più seri e preparati, erano settari, ma anche intellettualmente migliori; tra essi Paolo Spriano, che fu l’autore di una vasta storia del partito comunista italiano, che venne scritta quando quest’ultimo era in piena attività e la sua disciplina interna ferrea. Spriano era uno storico di spessore, anche se era un militante disciplinato, una posizione non facilmente conciliabile con la libera ricerca storica. I suoi volumi erano diretti ai militanti e non ad una ricostruzione spassionata dei fatti; in ogni caso, in occasione del centenario di fondazione del PCI, quei volumi sono scomparsi dal dibattito ed è un peccato, perché sarebbe stato interessante un confronto tra il lavoro di Spriano e quanto è stato scritto dopo la sua morte, avvenuta nel 1988, un anno prima della caduta del Muro di Berlino. Dobbiamo considerare che in quegli stessi anni ’70, periodo di pubblicazione dell’opera di Spriano, usciva la storia contemporanea di Massimo Salvadori, che vedeva il punto di arrivo del vissuto storico sino a quel momento (!) nell’eurocomunismo di Berlinguer, un abbaglio che può costare il discredito scientifico. Di questa opinione era il cugino di Salvadori, il grande filosofo politico Nicola Matteucci, che mi espresse i propri dubbi in una discussione. Questo era il clima plumbeo di quegli anni, quando non essere comunisti era considerata una colpa imperdonabile, che condannava all’isolamento, al gulag intellettuale, ed essere anticomunisti provocava l’accusa di filofascismo. In occasione di questo centenario è stato pubblicato molto per celebrare il PCI, ma non per ricostruirne la storia con un minimo di distacco. Stiamo retrocedendo velocemente alle vulgate, stiamo giungendo al paradosso che il libro migliore che ho letto, è quello di un dirigente comunista di rango come Piero Fassino, che non si è mai privato della sottigliezza appresa dalla scuola dei Gesuiti e anche in questa occasione ha scritto in modo non banale e libero da pregiudizi. Eppure il centenario doveva essere l’occasione per fare i conti con la storia del partito nato a Livorno nel gennaio 1921, come una delle tante scissioni del partito socialista. Quella scissione non fu in grado di combattere, ma facilitò l’ascesa del fascismo, perché indebolì ulteriormente il movimento operaio e portò successivamente alla cacciata dal partito socialista di Turati e Matteotti. Un suicidio politico che contribuì a consegnare l’Italia a Mussolini. Oltre a Gramsci e a Togliatti, fu Amedeo Bordiga a dar vita al partito di cui divenne il primo leader, anche se presto venne emarginato, perché contemporaneamente spirito libero e settario: un eretico da cacciare. Il PCI nacque come una diretta filiazione di Mosca e rimase prigioniero di quella sudditanza per quasi tutta la vita. Sono rimasto infastidito della mancanza di spirito critico nell’affrontare un tema che ha toccato la storia italiana in modo significativo. Ritengo doveroso quindi un riequilibrio che riporti le cose al proprio posto, o quasi, perché aver avuto un partito comunista con quelle caratteristiche fu una disgrazia della democrazia italiana. Certo i comunisti hanno dato il loro contributo all’antifascismo e alla Resistenza, che hanno anche monopolizzato in modo soffocante. Hanno avuto degli eroi tre le proprie file come Dante Di Nanni, ma anche delinquenti comuni come Moranino o i vili responsabili di Via Rasella e di altri atti di terrorismo perpetrati durante la Resistenza, che provocarono rappresaglie feroci. L’uccisione a tradimento di un uomo inerme come Giovanni Gentile si deve ad un gruppo di comunisti fiorentini ancora oggi esaltato. Troppi comunisti non scelsero mai la libertà e la democrazia con convinzione, ma perché costretti da una situazione internazionale che impediva la via rivoluzionaria e spingeva verso la dittatura di tipo sovietico. La democrazia come mezzo e non come fine, come mi diceva Leo Valiani, a sua volta ex comunista. Si macchiarono di crimini orrendi dopo il 25 aprile, dimostrando ferocia. Negli anni ‘50 si scontrarono con la legge elettorale maggioritaria, definendola legge truffa, mentre era una legge che avrebbe dato una vera stabilità alla democrazia italiana. Cercarono un rapporto con i cattolici che ambiva al compromesso storico, anche se alla fine da questo rapporto nacque un partito che farebbe inorridire Togliatti, Berlinguer e Moro. Io rendo omaggio a chi ha militato in buona fede nel PCI, soprattutto agli operai, ma non perdono gli intellettuali – molti ex fascisti – che si ammassarono in quel partito, ponendo la loro penna al servizio del conformismo più fazioso e intollerante ed ottenendo premi, posti, prebende, elogi smisurati. L’esempio di un pittore mediocre come Guttuso lo testimonia, mentre Vittorini e lo stesso Pasolini venivano messi all’indice per la loro “indisciplina”. Infatti essere omosessuali nel PCI era considerata una cosa incompatibile con l’etica politica del partito e non era considerata una scelta privata. Gli intellettuali che sono andati nelle case editrici e nei giornali e poi in Tv e dappertutto a spargere oppio ideologico, per dirla con Aron, hanno colpe gravissime, anche perché non hanno dedicato una sola parola di condanna a quanto avveniva in Russia prima, durante e dopo Stalin. Gente come Alberto Moravia, dedita alla più borghese e comoda delle esistenze, che si spacciava come comunista, rappresenta qualcosa di molto indigesto da accettare. Più recentemente fa la sua bella figura Corrado Augias, per non parlare dei tanti che dalle scrivanie dei giornali sbianchettano giornalmente con scrupolo, ancor oggi togliattiano, le notizie scomode o enfatizzano quelle più adatte alla propaganda. Anche la mitologia attorno all’alta figura morale di Gramsci, al di là del nobile e straordinario esempio del carcere, va ridimensionata, perché l’idea di un partito simile ad un moderno principe machiavellico è aberrante, per non parlare della doppiezza e del cinismo di Togliatti, che invitava i Russi a trattare nel peggior modo possibile i nostri soldati prigionieri in quel paese. L’idea gramsciana di “egemonia” è quanto di più illiberale esista, perché in effetti fu un seguace di Togliatti appartenente ad un’ altra generazione, ma non ad un altro pensare, perché il suo eurocomunismo fu poco più che uno slogan e il suo compromesso storico una versione aggiornata del togliattismo dialogante con i cattolici. Certo, il Pci ha anche avuto grandi figure come Giorgio Amendola, che fu largamente osteggiato dal suo partito, da cui prese spesso le distanze. Ci sono stati milioni di italiani che hanno creduto nel comunismo e che meritano rispetto, ma il bilancio storico del centenario si chiude in negativo. Il crollo del comunismo reale si è trascinato dietro il partito, che non ha saputo o non ha voluto riconoscere prima del 1989 il fallimento del marxismo leninismo in tutte le sue versioni. Gli ardimentosi leoni che erano nel PCI senza essere comunisti, come sostennero, dovevano aprire gli occhi molto prima. Un deputato comunista ai primi degli anni ‘90 mi disse: ”Noi liberali”… lo fermai e lo pregai di non continuare la frase. Si trattava forse solo di un eccesso di gentilezza nei miei confronti, perché anche dopo certi metodi “comunisti“, battezzati con altri nomi, continuarono ad essere usati senza problemi. Il liberalismo non era nel DNA dei comunisti e non lo sarà mai. Uno dei motivi del disastro economico italiano, non dimentichiamolo, sta nel consociativismo che governò la politica italiana, oltre che nelle scelte di un sindacato a guida comunista. Queste sono responsabilità storiche gravissime e sono anche verità scomode: ad un centenario bisognerebbe solo rivolgere auguri e complimenti, ma il protagonista di quel centenario da tempo non è più in vita. L’ultimo testimone è mancato pochi giorni fa: Emanuele Macaluso, anche lui togliattiano, checché ne scriva il figlio del togliattiano Maurizio Ferrara, lui stesso per lungo tempo comunista. In questo centenario io voglio rendere omaggio a due grandi ex comunisti perseguitati, a cui venne resa la vita impossibile: Angelo Tasca, uno dei fondatori, ed Ignazio Silone. A loro dovrebbero essere rivolte delle scuse per come vennero trattati, al loro magistero possiamo ancora attingere qualcosa di vivo rispetto ad un’esperienza intellettualmente morta e oggi politicamente inesistente. Le celebrazioni del centenario del PCI si accompagnano tristemente alla negazione delle foibe, un’infamia in cui furono anche coinvolti i comunisti italiani. E’ un gran brutto segno di un paese che sta precipitando nell’ignoranza interessata del suo passato, mentre si sta inabissando in un presente denso di inquietudine, errori, incapacità ad ogni livello. E’ paradossale che gli ex comunisti di oggi, pur di partecipare al banchetto, vogliano l’appoggio di un non meno precisato gruppo liberale, fatto di voltagabbana in cerca di uno strapuntino di potere. Una sorte triste e trista per tutti, in primis per gli ex comunisti che si considerano eredi di quel gennaio 1921 a Livorno, lì almeno c’era gente seria, operai e artigiani convinti, pronti al sacrificio e alla rinuncia in nome di un ideale.
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