Il 23 settembre ricorrono i 150 anni dalla scomparsa dello scrittore e patriota Francesco Domenico Guerrazzi, avvenuta a Cecina (era nato a Livorno nel 1804).

Nel corso del XIX secolo furono molto letti i suoi romanzi storici. In effetti, il romanzo storico, durante l’Ottocento, contribuì, e non poco, a formare il carattere dei popoli e delle nazioni (si pensi, per fare un nome, a Walter Scott nel mondo britannico).

Per l’Italia basterà citare, come esempio di romanzi storici che agirono in tal senso, I Promessi Sposi del Manzoni, Le confessioni di un italiano del Nievo, Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio e anche quelli (che però nel XX secolo non ebbero la fortuna che ebbero nel secolo precedente), appunto, del Guerrazzi. Questi tradusse in italiano anche il primo romanzo storico americano, La spia, di James Fenimore Cooper, ambientato ai tempi della guerra d’indipendenza americana e, secondo il mio parere, molto più bello e avvincente dell’assai più famoso L’ultimo dei Mohicani, dello stesso autore. Del Novecento, invece, sono i romanzi storici, 18 in tutto, del piemontese Luigi Gramegna che per vari motivi (pubblicati “fuori tempo massimo”, ossia quando il romanzo storico aveva esaurito la propria funzione nazional-popolar-pedagogica e anche perché molto legati ad una dimensione esclusivamente regionale, quella piemontese) non ebbero il successo che pure avrebbero meritato.

I principali romanzi storici del Guerrazzi furono, La battaglia di Benevento (1828), che narra della spedizione di Carlo d’Angiò contro Manfredi di Svevia, Isabella Orsini duchessa di Bracciano (1844), sulla triste vicenda della figlia di Cosimo de’Medici, strozzata per gelosia dal marito (un tipico caso di femminicidio si direbbe oggi, con una bruttissima espressione…), Beatrice Cenci (1854), imperniato sulla figura della sfortunata nobildonna romana del XVI secolo che uccise il padre, violento e depravato, per difendersi dai suoi abusi, La Torre di Nonza (1857) e Pasquale Paoli (1860), in cui si esalta l’italianità della Corsica, terra ove il Guerrazzi visse qualche tempo in esilio, Pasquale Sottocorno, (1857), dedicato ad un eroe delle Cinque Giornate di Milano, divenuto di queste una figura iconica, L’assedio di Firenze (1863), che rese celebre Francesco Ferrucci.

Laureato in legge, l’avvocatura la esercitò poco, preferendo ad essa le lettere e la politica. Nel 1828 fondò il giornale politico-letterario, L’Indicatore Livornese, che venne soppresso due anni più tardi. Avvicinatosi al Mazzini, trasformò Livorno in un centro di diffusione di idee patriottiche e ciò gli procurò non poche noie e anche arresti.

Nel caos politico del 1848 – 49, ebbe modo di farsi notare, tanto che il Granduca lo nominò Ministro degli Interni. Bisogna riconoscere che, come uomo di Stato, Guerrazzi non ci seppe proprio fare, mostrò indecisione nei momenti più critici, facendosi detestare dai moderati e dagli estremisti, dai partigiani del Granduca e da quelli della Repubblica. Il Granduca lasciò il trono, poi ritornò e lo fece condannare all’esilio in Corsica (il Granduca gli riconobbe, comunque, di essere stato il più onesto dei suoi ministri e, dal punto di vista personale, espresse su di lui giudizi sempre positivi).

In Corsica il Guerrazzi scrisse, tra il resto, i romanzi cui accennavo più sopra. Nel 1856 abbandonò la Corsica per il Regno di Sardegna e fece tappa sull’isola di Capraia, l’unica isola dell’arcipelago toscano che non faceva parte del Granducato, bensì del Regno di Sardegna, essendo sempre stata parte della Repubblica di Genova (è toscana solo dal 1925). Chiedo scusa per il ricordo personale, l’unica volta che ho visitato la bellissima isola, mi è capitato di visitare anche la casa ove soggiornò il Guerrazzi, soggiorno che ora è ricordato da una lapide.

Si stabilì a Genova e dal 1860, per tre legislature consecutive, venne eletto deputato, militando in quella che allora si definiva “l’Estrema”, ossia l’estrema sinistra risorgimentale.

Memorabile il discorso che tenne, il 25 maggio 1860, contro la cessione di Nizza alla Francia. Dopo aver illustrato la questione dal punto di vista costituzionale, giuridico, politico, storico, nazionale, così concluse il suo intervento:

Io pertanto non voto il trattato. Non lo voto, perché inviato al Parlamento italiano per operare quanto mi è dato a unire in un corpo solo l’Italia, diventerei mandatario infedele, e mancherei di coscienza se col primo voto cominciassi ad approvare il taglio di un membro nobilissimo della mia patria (…) con la perdita di Nizza rimarrà in perpetuo manomessa l’Italia (…) perché potendo scindersi il trattato, per reverenza alla nazionalità, gran parte della Savoia, ricorrendo certe contingenze, avrei ceduto; Nizza non avrei ceduto giammai (…) perché la votazione calpesta la legalità, santa custode del diritto (…) perché mentre il generale Garibaldi mette a repentaglio la vita per acquistarci con la spada la patria, mi pare delitto levargli col mio voto la sua (…) perché, depositando il voto nell’urna, mi parrebbe conficcare un chiodo nella bara dell’unità italiana. No. Se non possiamo unire l’Italia, tolga Dio che per noi non vada divisa. A seppellire i morti si chiamano i becchini, non liberi Italiani nel primo Parlamento italiano”. Nobili parole pronunciate da un uomo dall’animo nobile, ma le cose andarono, purtroppo, diversamente da come lui auspicava.

Negli ultimi anni di vita, deluso dalla politica e dal lavoro parlamentare, si dedicò all’attività letteraria e alla cura della sua fattoria, nei pressi di Cecina, ove, 150 anni fa, passò ad altro stato di esistenza.