Il nostro direttore Pier Franco Quaglieni ha pubblicato qualche giorno fa un articolo (http://www.pannunziomagazine.it/giu-le-mani-dalla-parola-liberale-di-pier-franco-quaglieni/) sull’abuso dell’aggettivo “liberale” utilizzato a sproposito in qualsiasi contesto politico e da qualunque famiglia ideologica si provenga. Per un liberale, che potremmo definire “storico“, come Quaglieni non c’è da compiacersi: ormai l’uso del termine “liberale” è diventato un provvidenziale intercalare quando si è a corto di argomentazioni, e finisce che ormai nessuno ci fa più caso. La questione è: come possiamo riconoscere in un partito, in un movimento, in un politico le genuine caratteristiche del liberalismo? Fatte a Quaglieni in forma privata alcune considerazioni in merito al suo pezzo -che condivido quasi interamente, escludendo la ingenerosa opinione su Luigi Facta- accetto di buttarmi sull’argomento, rendendomi conto che ben altri studiosi e capienti spazi sarebbero necessari… Scelgo allora di scrivere di getto una riflessione, che spero possa essere spunto di dibattito. Volendo definire il liberalismo in quanto pratica politica mi riferisco alla concisa esplicazione che ne dà il filosofo Franco Manni introducendo il saggio di Norberto Bobbio “Liberalismo e Democrazia“: “il liberalismo è una teoria e una pratica della limitazione del potere sovrano, chiunque sia il sovrano“. Si tratta di una questione particolarmente delicata soprattutto se la affrontiamo in un momento come quello che stiamo vivendo: esigenze superiori ci chiamano a sacrificare, per il cosiddetto bene comune, libertà che consideravamo ormai acquisite. Torna di attualità quella “Tirannia della Maggioranza” che due grandi pensatori liberali come Alexis De Toqueville e John Stuart Mill seppero rappresentare già nel diciannovesimo secolo: per un liberale l’individuo non deve dismettere la libertà del giudizio della sua mente individuale nei confronti di qualsiasi comunità. Certo: esistono delle regole di convivenza (la mia libertà finisce dove inizia la tua), e interpretazioni del concetto che rappresentano un liberalismo compassionevole necessario alla gestione del potere pubblico: l’uguaglianza dei punti di partenza -cioè la necessità di mettere tutti in condizione di partire nel minimo sufficiente stato di benessere fisico e culturale, affinché poi ci si possa distinguere nel percorso della vita secondo i propri meriti e capacità – è concetto ineludibile per una politica liberale, proprio perché mette l’individuo al centro dei propri obiettivi. Di conseguenza: fino a che punto può spingersi lo Stato con le limitazioni alla libertà al fine di garantire armonia nella comunità che deve amministrare? Secondo Norberto Bobbio “La storia della libertà procede di pari passo con la storia delle limitazioni della libertà: se non ci fosse stata la seconda non ci sarebbe stata neppure la prima“… Questo per sottolineare come il liberalismo non sia una dottrina autoreferenziale quanto possono essere il comunismo o il fascismo, ma è una forma di pensiero in continua evoluzione: la privazione o il condizionamento di certe libertà neanche era immaginabile nel recente passato. Si pensi all’esponenziale sviluppo nel settore della comunicazione: chi poteva -anche solo trent’anni fa- concepire una potenziale tirannia mediatica come quella prospettabile con il mondo internettiano del web? Andiamoci cauti, allora con collocare i liberali in qualche altra famiglia politica… Guy Sorman, un giornalista e scrittore francese di idee liberali, intraprese -negli anni ottanta del ventesimo secolo- un viaggio tra quei paesi che secondo lui sarebbero stati toccati da quella che definiva la nuova rivoluzione liberale contemporanea. Visitò e studiò 12 stati occidentali tra Europa e America. Riteneva che questa “rivoluzione” avesse persino sedotto la sua Francia, nazione democratica, ma statalista per antonomasia: questo liberalismo è, in un certo senso, “conservatore”. Affonda infatti le proprie origini nelle tradizioni, nella storia collettiva, nelle esperienze culturali. Conservatorismo e liberalismo sono diventati spesso complementari, ma non lo sono stati sempre e non lo saranno sempre: nel XIX secolo erano addirittura contrapposti. La differenza tra i due, spiega Sorman, è che il conservatorismo è un atteggiamento, mentre il liberalismo è un progetto. Essere conservatore significa iscriversi nella continuità sociale, storica e morale della propria comunità, significa ammettere che vi è qualche saggezza nel passato, qualche assennatezza nell’ordine; significa al tempo stesso riconoscere la diversità delle situazioni culturali, religiose e nazionali, accettare che non vi è un unico modello di civilizzazione, un’unica spiegazione della Storia. Il conservatore crede inoltre a un ordine morale trascendente, che tuttavia non è necessariamente di natura religiosa. Diffida delle riforme e, in ogni caso, non ritiene che ogni riforma sia buona in quanto tale; al limite preferirà un male che conosce a un altro che non gli è ancora noto. L’ordine, la giustizia e la libertà gli sembreranno la conclusione di una lunga esperienza storica, non il risultato di un decreto o di un sovvertimento politico. Tale conservatorismo, osserva Sorman, non è però in grado di opporre una seria alternativa allo statalismo e a soddisfare l’autentica fame di ideologia del nostro tempo. Da ciò nasce la necessità di essere liberale, ossia di aggiungere alla filosofia conservatrice quanto oggi viene chiamato un “progetto di società”, un modello utopistico al quale la politica possa far riferimento. Il liberalismo si fonda infatti su un chiaro principio: privilegiare sempre, ovunque e in ogni circostanza, la persona umana a scapito dello Stato. Sono questi i principi che ispirarono gli estensori del “Manifesto di Oxford” del 1947. Esponenti dei partiti liberali di 19 nazioni codificarono in qualche modo quelle che sarebbero dovute essere imprescindibili fondamenta dei propri statuti. Sostanzialmente: la libertà di culto e la libertà di coscienza; la libertà di parola e di stampa; la libertà di associarsi e di non associarsi; la libera scelta dell’occupazione; la possibilità, di una piena e varia educazione, secondo la capacità di ognuno e indipendentemente dalla nascita o dai mezzi; il diritto di proprietà privata e il diritto di iniziativa individuale; la libera scelta del consumatore e la possibilità di godere pienamente dei frutti della produttività del suolo e dell’industria dell’uomo; la sicurezza dai rischi di malattia, disoccupazione, incapacità e vecchiaia; l’eguaglianza di diritti tra uomini e donne. Cinquant’anni dopo -nel 1997- si ritrovarono sempre ad Oxford i rappresentanti di ancor più numerose nazioni per aggiornare il manifesto alla luce delle contingenze storiche in continuo movimento: “Durante questi 50 anni, sono stati compiuti progressi sostanziali –leggiamo– nell’affermazione di società aperte basate sulle libertà politica ed economica. Tuttavia c’è ancora tanta strada da fare. Le nuove generazioni devono ridefinire le priorità liberali di fronte alle nuove opportunità e ai nuovi pericoli.”. Ora sappiamo quanto sempre più pressanti si facciano le esigenze di aggiornamento di questo storico manifesto. I documenti stilati a Oxford sono facilmente recuperabili con una ricerca sul web. Possono certamente costituire una cartina di tornasole per riconoscere il tasso di liberalismo di quel politico o quel movimento che ne usano il termine spesso solo per riempirsi la bocca. Ma… c’è un “ma”: prima di giudicare gli altri abbiamo fatto un esame del livello di liberalismo che scorre nelle nostre vene? Sappiamo riconoscere quanto liberisti, libertari e magari anche libertini siano i nostri comportamenti? Quanto siamo in grado di resistere al richiamo di un comodo guanciale statalista che ci invita a delegare al potere sovrano porzioni della nostra libertà in cambio di una minima assistenza dalla culla alla tomba? Il nome Rousseau evoca alla maggioranza degli italiani quella piattaforma che regola le decisioni del Movimento 5 Stelle. Essa prende il nome da quel Jean-Jacques Rousseau che teorizzava una repubblica in cui il potere sovrano, una volta costituito per concorde volontà della maggioranza, diventa infallibile “e non ha bisogno di dare garanzia ai sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri“. Se Rousseau è da annoverare tra i più grandi nemici del liberalismo, uno dei riferimenti a cui un liberale deve puntare è il suo quasi contemporaneo Benjamin Constant, il quale sosteneva che la partecipazione diretta alle decisioni collettive finisce per assoggettare l’individuo all’autorità dell’intero e a renderlo non libero come privato; mentre è la libertà del privato che il cittadino chiede al potere pubblico. Constant concludeva: “Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che era costituita dalla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve essere invece costituita dal godimento pacifico dell’indipendenza privata“. Ecco: se nel nostro animo riusciamo a cogliere la differenza tra queste due correnti di pensiero, che in comune hanno la basilare condizione di un regime democratico, allora sapremo se possiamo davvero dirci liberali.
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