Il grande maestro Giacomo Puccini, uno degli esponenti più rappresentati di quel canto lirico che oggi è patrimonio dell’umanità, nel 1919 aveva musicato l’Inno a Roma, su richiesta del sindaco, una delle canzoni predilette dal regime fascista. Parrebbe quindi simpatizzare con esso. Occorre però mettere qualche puntino sulle i ed analizzare con più lucidità la situazione.
Innanzitutto il Maestro morì nel 1924, ne ricorre il centenario il prossimo novembre, quando il regime non era ancora tale (lo diventerà con il Manifesto di Gentile e le leggi fascistissime l’anno successivo) ed era appena all’inizio della sua parabola. Quindi attenzione ad applicare una falsa proprietà transitiva del tipo: Puccini = fascista = sostenitore delle leggi razziali 1938 + della guerra 1940 + degli eccidi della Rsi nel 1944-45. Per la semplice ragione che tutto ciò non era accaduto quando il musicista era ancora in vita, quindi non può esserne responsabile né sostenitore.
A questo punto vale la pena di porsi la domanda: esiste nella musica del maestro qualche elemento che possa chiarire la sua posizione in merito?
Partecipando, anni orsono, ai concerti dell’Orchestra sinfonica della Rai, rimasi colpito da una approfondita e lucida interpretazione della Sinfonia n° 10 (1953) di Šostakovič. Il quale era stato il grande musicista di Stalin, il celebrante l’epopea bolscevica, l’aedo della resistenza sovietica contro l’invasione nazista esaltata nella Sinfonia n° 7 Leningrado, città che subì dal 1941 al 1944 l’assedio della wermacht, restando quasi completamente isolata dal resto dell’Urss. All’interno della partitura alcune note formano cripticamente le iniziali del compositore stesso, ad indicare la contrapposizione dell’autore e della sua geniale individualità, contro la violenza della tirannide. Una presa di posizione occulta, non certo eroica, cui si dovette adattare per non soccombere alla feroce dittatura staliniana, responsabile di purghe ed eccidi di ogni tipo.
L’unica opera di Puccini, successiva all’avvento del fascismo è Turandot, peraltro incompiuta nelle ultime scene. Quello che la rende molto distante dalle altre non è l’ambientazione orientaleggiante, già presente in Madama Butterfly e, a suo modo, in Fanciulla del West, bensì la presenza pervasiva del coro, quasi assente nelle opere precedenti. Se Boheme, Tosca, Butterfly, ma anche Manon Lescaut, sono drammi individuali, intimi, in omaggio alla corrente verista che Puccini ebbe in comune con i contemporanei Mascagni (Cavelleria Rusticana) e Leoncavallo (Pagliacci), in Turandot le scene principali si svolgono in pubblico; di fronte al giudizio della folla. Quasi un’anticipazione dei moderni social. Manon muore nel deserto, in fuga da tutti, con il solo compagno Des Grieux. Tosca uccide Scarpia Questo è il bacio di Tosca in un momento intimo, quindi è sola ad osservarlo pietosa Davanti a lui tremava tutta Roma, è ancora sola quando scopre l’inganno della fucilazione del Cavaradossi Oh Mario morto, tu morire così perché ed è appena inseguita dai suoi aguzzini quando si lancia dalla terrazza di Castel Sant’Angelo O Scarpia, dinanzi a Dio! Cio cio-san, sedotta e abbandonata da Pinkerton, ripudiata dalla famiglia è sola quando con la katana del padre si toglie la vita. La scena più struggente è comunque quella di Boheme, in cui Mimì che, sentendo arrivare la fine, si era sforzata di raggiungere gli amici C’è Mimì, c’è Mimì che mi segue e che sta male, nel far le scale più non si resse, spira comunque in solitudine (a differenza della verdiana Violetta Valery con Alfredo al capezzale, nonostante avesse lamentato di vivere in questo popoloso deserto che appellano Parigi), il momento esatto è sottolineato dalla partitura; solo poco dopo gli altri, che pure sono nella stessa stanza, se ne accorgono e non hanno il coraggio di dirlo a Rodolfo Che vuol dir quell’andare e venire? Quel guardami così? No! Mimì! Mimì!
Nella Turandot, invece, Liù che ne è l’autentica protagonista, si trova sempre in pubblico. Sin dall’inizio, mentre, novella Antigone, si prende cura del vecchio re detronizzato Il mio vecchio è caduto. Pietà. Quando tenta disperatamente di dissuadere il principe dal suo intento temerario Noi morrem sulla strada dell’esilio! Ei perderà suo figlio… io l’ombra d’un sorriso! Infine quando si toglie la vita per non rivelare il nome dell’amato Prima di questa aurora io chiudo stanca gli occhi, perché egli vinca ancora… Per non vederlo più!
A questo punto diventa interessante analizzare il ruolo che il coro ha nell’opera pucciniana. Nulla a che vedere con la funzione fondamentale che riveste nella tragedia greca. Il tutte le altre opere, quando presente, era solo uno sfondo, quasi un riempimento coreografico di drammi individuali. Nella Turandot determina l’azione influenzando i personaggi, ma il tratto fondamentale è la sua volubilità. La folla di Pechino che, nel primo atto, assiste con piacere sadico alle esecuzioni Gira la cote, gira la cote!, è terrorizzata all’idea che la persecuzione possa riversarsi su di lei Ad ogni porta, batte la morte e grida: il nome o sangue! e prontissima a sacrificare Liù pur di salvarsi. Salvo poi impietosirsi, davanti al sacrificio della martire. Una folla così volubile ed infantile, che gira come una banderuola e si lascia condizionare e trascinare dagli eventi, eventualmente determinando sanguinose conseguenze per altri, rivela un’accezione fortemente negativa, nell’idea dell’autore. È una sorta di popolo bue, facilmente manipolabile, l’esatto opposto dell’intellettuale che secondo Bobbio, semina dubbi, piuttosto che perorare certezze. In questo senso è indiretta, ma chiara, la critica al fascismo, che dalla folla traeva la linfa vitale del proprio potere, che quella folla seduceva ed aizzava, parlando dal noto balcone.