La recente presentazione ad Albenga della ricerca storica di Bruna Bertolo raccolta nel volume Donne nella Shoà edito da Susa libri ripropone, nell’approssimarsi del giorno del ricordo, una serie di riflessioni. L’incontro organizzato dal Dopolavoro Ferroviario di Albenga in collaborazione con il Centro Pannunzio e patrocinato dal Comune e dalla Fondazione Oddo, grazie alle letture, ai video, alle musiche e alla documentata e appassionata guida dell’autrice, ha condotto i partecipanti a ripercorre quei tragici eventi in un’atmosfera di grande emozione, inevitabile allorché empaticamente prendiamo atto e visione di tante atroci, indescrivibili, criminali sofferenze patite da milioni di nostri simili, in particolare esercitate con tanta e maggiore forza contro la donna e tutto ciò che rappresenta la sua femminilità e perseguite in molti casi proprio da altre donne. Il volume propone un’accurata indagine storica e documentale dei diari di alcune donne sopravvissute allo sterminio, le loro tragiche esperienze, e accoglie le voci delle poche superstiti che ormai possono testimoniare lo strazio del loro patimento, come Edith Bruck, come Liliana Segre che ha voluto, in occasione della prima edizione del volume, rivolgere all’autrice parole di ringraziamento per aver portato testimonianza rispetto ad un evento che rischia, quando le voci dirette degli ultimi testimoni dell’olocausto si saranno spente, di divenire un evento storico tra i tanti, perso tra pochi cenni nei libri di testo. E proprio il rischio della dimenticanza, e di un colpevole oblio, è stato sottolineato nell’intervento dello storico prof. Quaglieni, direttore del Centro Pannunzio: per diversi anni i reduci dello sterminio non trovarono voce nel nostro Paese, non si voleva sapere, il libro di Primo Levi fu rifiutato dall’Einaudi e pubblicato nel 1947 da un piccolo editore, De Silva, vendendo poche copie, altrettanto limitata la diffusione dei diari di quelle donne che apparvero in quegli stessi anni, tra il ‘45 e il ’47. Le distruzioni della guerra erano ferite troppo recenti, l’importanza e il valore della testimonianza fu affidata alle gesta dei partigiani, obliando sia l’eroismo dell’oltre mezzo milione di militari che rifiutarono di prestare giuramento alla Repubblica Sociale preferendo conservare le loro dignità di soldati e respingere il fascismo, patendo nella dei lager nazisti inenarrabili sofferenze, sia, e ancor più, la memoria della Shoah. Il timore della dispersione della memoria si affaccia potente ogni anno in occasione proprio del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, poiché, come sottolinea Liliana Segre, costretta oggi a vivere sotto scorta, in concomitanza con le celebrazioni si percepisce ogni anno di più un senso di fastidio per la ricorrenza, il rinascere di una insofferenza nei confronti del popolo ebraico, il perdurare dell’ignoranza del significato profondo, ineludibile, di ciò che rappresentò per l’umanità intera quell’evento. E proprio qui sta il punto che mi ha suggerito la riflessione: come una comunità può tramandare il ricordo di una tale catastrofe senza cadere nella consuetudine del ricordo, resa blanda e superficiale dal fatto che sia appunto cerimonia, rituale incontro, e non sia in realtà ansia viva, timore autentico che tutto quanto possa accadere nuovamente? La storica Anna Foa si è recentemente interrogata su questo aspetto: il rischio di fare “ricordo” della Shoah colloca l’esperienza atroce appunto nel ricordo, in una lontananza storica e quindi non più vitale, mentre tutto ciò che ha mosso quell’odio, dal razzismo alla complessità dell’ideologia nazifascista, si annida nel contemporaneo, certo con dinamiche e proporzioni diverse, ma il nucleo devastante è lo stesso e proprio per questo può riproporsi e di fatto si è riproposto e si ripropone: così è accaduto in Ruanda, così a Srebrenica, così oggi in Ucraina, dove con un’aggressiva azione di sistematica distruzione del vivere civile di un intero popolo, si vuole “estirpare” il nazismo. La dimostrazione estrema è che in Israele oggi sono attive componenti politiche di estrema destra che agitano idee di razzismo, di suprematismo, di limitazione dei tradizionali principi democratici. Come allora estrarre da quei tragici avvenimenti la loro valenza attuale e far si che il 27 gennaio non sia il simbolo di un prevedibile rimosso ma quotidiana azione di consapevolezza? Cosa mosse allora un odio così sistematicamente applicato? Quali spinte profonde possono annidarsi nell’animo umano tanto da coagularsi in azioni distruttive sia per coloro che le subirono che per quanti le misero in atto? Quali furono le condizioni politiche, economiche, sociali, che, variamente combinate, produssero una simile devastazione? Ritengo che fare storia, a tutti i livelli di elaborazione, dalle scuole primarie all’Università, non sia tanto recuperare in un magazzino dati, eventi, personaggi da collocare nel loro tempo, quanto rappresentare una descrizione critica che si adatti al presente con le sue contraddizioni, dove sia possibile reperire analogie, tensioni, spinte sotterranee e renderle appariscenti e attuali. Domandarsi: ritroviamo nella nostra rappresentazione del mondo quel tessuto sotterraneo che si identificò allora nella figura di dittatori sanguinari e che oggi agita, certo in modo disorganico, spesso solo individualistico, ma in ogni caso diffuso, condiviso, correnti di odio, insofferenza, verso ipotetici nemici ? Si tratta di magmatiche, primitive pulsioni frutto di dilacerata frustrazione dell’animo o di sistematica, seppur deviata, elaborazione teoretica? E può la conoscenza, la consapevolezza di quegli orrori, placarne la diffusione? Sono immani le responsabilità educative della nostra società nei confronti della riflessione storica, delle sue degenerazioni, ma anche delle sue conquiste, e fondamentali i temi che, certo, saranno da diverse autorevoli voci dibattuti prossimamente in occasione delle celebrazioni e che l’incontro da cui abbiamo preso spunto ha coerentemente anticipato.
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