A margine di un’estate che va a morire tra polemiche degne della Costantinopoli assediata dai Turchi Ottomani, alcune questioni meritano invece l’attenzione degli specialisti e forse anche dell’opinione pubblica. La più emergenziale è la norma sulle ristrutturazioni edilizie con detraibilità al 110%, che pur corretta sta creando sempre più problemi alla gestione del bilancio pubblico. Ora ci si chiede davvero come si possa, seppur in uscita dalla crisi pandemica, aver proposto e adottato un provvedimento tanto sballato. Come un Governo possa aver detto ai suoi cittadini ‘ristrutturatevi serenamente la casa, che le spese sono a carico di Pantalone, cioè delle casse dello Stato, e anzi sarete premiati ancora con un 10% di mancia’, come possa averlo detto senza prevedere le conseguenze che tale norma avrebbe generato, in termini di truffe allo Stato, di voragine nel bilancio pubblico per anni a venire, e in definitiva anche di iniquità fiscale, politicamente di stampo conservatore, ai danni della collettività. Sia concesso, si tratta di una decisione talmente sventata e insensata da andare oltre la responsabilità puramente politica. Altra questione, questa di più lunga data, ma oggi fatta attuale dall’accelerazione inflattiva dei prezzi. Si allude alle cosiddette ‘gabbie salariali’, sempre rifiutate dal mondo sindacale (che infatti ha perso completamente la presa sui lavoratori del Nord e la loro fiducia), cioè la retribuzione differenziata per aree del Paese in funzione del livello dei prezzi. Pur accettando la presunzione di una uguale produttività dei lavoratori nelle diverse regioni e di conseguenza riconoscendo uguale retribuzione, questa dovrebbe essere valutata in termini di parità di potere d’acquisto, non in termini nominali. Quello che deve essere uguale è il potere di acquisto dello stipendio, cioè la quantità di beni e servizi che quella retribuzione consente di acquistare nell’area di residenza. E’ evidente l’iniquità dell’attuale sistema di egualitarismo nominale delle retribuzioni in presenza di prezzi sensibilmente diversi nelle macroregioni del Paese, con conseguenze negative e distorsioni di mercato sia al Nord che al Sud. A fronte di differenze nei prezzi dei beni e dei servizi, anche le retribuzioni devono essere diverse. Altra questione di sostanza apparentemente dimenticata: la ‘scala mobile’, cioè l’adeguamento automatico degli stipendi all’inflazione. In altri Paesi esiste. In Italia esisteva. In assenza di un meccanismo di adeguamento questo tipo, tutto l’impoverimento determinato dall’inflazione si scarica sul lavoro dipendente. E’ giusto? No. E infine una eterna ricorrente polemica strumentalizzata politicamente, quella sulle retribuzioni delle donne, che si lamentano inferiori a quelle degli uomini. Domanda: ma è verità o è fake news? Per quanto risulta a chi scrive in tutto il settore pubblico (statale, parastatale, regioni, province, comuni, Asl, Ferrovie, Poste, Inps, ecc. ecc.), che è il più grande datore di lavoro del Paese, non ci sono differenze di retribuzione tra uomini e donne. Nelle grandi aziende poi (banche, trasporti, industria metalmeccanica, tessile, chimica, ecc.) sono vigenti i contratti nazionali collettivi di lavoro, che non fanno certo discriminazioni uomo-donna. Rimangono il lavoro autonomo e quello imprenditoriale (in quest’ultimo peraltro esistono incentivi a favore dell’imprenditoria femminile), ma qui ovviamente valgono le leggi del mercato, domanda e offerta. Almeno così pare che sia nei sistemi capitalistici, o meglio ‘di mercato’. Un imprenditore (uomo o donna) sta sul mercato se fa profitti. Un lavoratore autonomo se trova clienti. Le strumentalizzazioni politiche dei diritti e delle questioni di genere non possono andare oltre certi limiti.
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