– (pp. 234)  – Editrice RUBBETTINO

        (Opera assolutamente meritoria questa di Pierluigi Barrotta)

Confronto e scontro che portarono a scissioni e a rientri e ricongiungimenti soprattutto nel primo decennio di vita del partito. E la storia del PLI viene pertanto descritta da Pierluigi Barrotta come storia dello sviluppo e del confronto e scontro tra queste diverse visioni del liberalismo e del loro declinarsi nella prassi politica italiana.

        In particolare, chiarisce Barrotta, si confrontarono con durezza due visioni estreme, una a sinistra e l’altra a destra, del liberalismo. L’una dal pensiero di Croce si estendeva a Keynes, a Beverage e a John Dewey, e l’altra dal pensiero di Einaudi, e meno da quello di Croce, si estendeva ai liberisti classici e dottrinari, da Say a von Mises e von Hayek e poi a Milton Friedman. Visioni e conseguenti posizioni politiche che nel primo decennio furono tenute e richiamate all’unità da un’area di centro che riusciva a tenere saldo il proprio orientamento secondo l’insegnamento unito crociano ed einaudiano.

Sostanzialmente, spiega Barrotta,  il contrasto fu sempre tra coloro, da destra, che ritenevano il Liberalismo indissolubilmente legato ed anzi sovrapponibile al Liberismo economico classico e al “Capitalismo Storico” e coloro che invece, da sinistra, ritenevano il Liberalismo (più crocianamente) doverosamente impegnato, empiricamente e pragmaticamente, a sperimentare di volta in volta, nella prassi politica e nel contesto economico sociale, le misure più adatte a promuovere la e le Libertà individuali e collettive in ogni campo e ambito della vita individuale, nell’ambito personale e in quello sociale e dei rapporti tra individui nel quadro delle regole dettate dallo Stato Liberale per promuovere e garantire la libertà di ciascuno e di tutti con la promozione dello sviluppo economico e delle pari opportunità e garanzie minime necessarie a tutti per l’esercizio dei diritti e delle libertà nell’ambito della cittadinanza. E a questo elemento di contrasto si accompagnava quello tra coloro, a destra, che ponevano come prioritari il pericolo Comunista e quindi l’anticomunismo e coloro che, invece a sinistra, ponevano come prioritari l’antifascismo e il pericolo di rigurgiti e di tendenze neofasciste o autoritarie reazionarie.

        Ma in estrema sintesi, due furono secondo Barrotta le principali cause che determinarono il paradosso di un Partito che sconfitto e rimasto sempre assai minoritario nel consenso popolare, poi invece  da un lato esprimeva e proponeva i grandi valori e le grandi idealità che promossero e guidarono il Risorgimento e la costruzione di una moderna democrazia liberale e che erano a base e guida delle grandi Democrazie Liberali dell’Occidente, e dall’altro lato insieme seppe esprimere e fu rappresentato in tutta la sua storia da grandi personalità. La prima causa, spiega Barrotta, fu la concezione che Croce ebbe del Partito Liberale che come “ Pre Partito” doveva essere ispirato e guidato unicamente dalla concezione etica della Libertà. Secondo Croce la libertà “non poteva essere racchiusa o definita da un insieme di Istituzioni”. Cioè era indipendente da qualsiasi Istituzione politica  e da qualsiasi ordinamento economico. Quindi, sempre secondo Croce, “il Partito Liberale non poteva pertanto legarsi ad alcun programma di natura economica o istituzionale che fosse”. Pertanto da qui la concezione del partito come “Pre Partito”. E, come ancora spiega Barrotta, anche il ceto sociale, a cui sempre Croce riteneva che il partito dovesse rivolgersi, era il “ceto medio”, che però, come da lui stesso inteso, “perdeva ogni connotazione sociologica per divenire esso stesso, come la concezione della Libertà, una mera categoria etica…”.

E la seconda causa, continua Barrotta, fu che “ai liberali italiani mancava un elettorato di riferimento naturalmente e profondamente liberale”…“Cioè in Italia non è mai esistito un diffuso sentimento liberale, come quello, ad esempio, che si ebbe in Inghilterra con il ‘liberalismo popolare’ ”. E per questo anche successivamente nel resto della loro storia non seppero trovare un loro blocco sociale da rappresentare e del quale ottenere il consenso elettorale. E in ogni caso, quel “ceto medio” al quale si riferiva Croce, pur solo come categoria etica, fin dalle elezioni del 1946 per la Costituente e ancor più dalle prime Politiche del 1948, in massima parte, quello moderato, si affidò alla protezione della Democrazia Cristiana in chiave anticomunista, e la parte restante, quella riformista e progressista ma non comunista, diede il suo consenso ai partiti della sinistra democratica (Azionisti, Repubblicani e poi Socialisti Democratici) soprattutto in chiave antifascista. Inoltre, come spiega bene Barrotta, la contrapposizione e competizione per la guida del Partito tra la Sinistra che con Pannunzio, Leone Cattani, Carandini e Libonati conciliava il Liberalismo etico di Croce e il “Liberalismo sociale” di Einaudi, vicino a Ropke e alla scuola di Friburgo dell’ “Ordo liberalismo”, con il  Liberalismo di Keynes, di Beverage e di Dewey, e la Destra che con Epicarmo Corbino coniugava Einaudi con Say e i Liberisti della scuola classica e che con Roberto Lucifero ed Enzo Selvaggi coniugava la fede monarchica con politiche conservatrici e di destra aperte alla collaborazione con il partito Monarchico, con l’Uomo Qualunque ed anche con il partito degli ex Fascisti del M.S.I. (con Manlio Lupinacci), questa durissima contrapposizione trovò una sua composizione all’interno del Partito solo nei primi anni, prima delle inaspettate debacle elettorali del ’46-’48 e fino a quando Croce ed Einaudi furono i leaders e i riferimenti di ogni liberale, nel partito e fuori dal partito. Infatti dopo che Croce nel ’47 si dimise da Presidente del Partito e dopo che Einaudi nel ’48 divenendo primo Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento si dimise dal Partito,  la contrapposizione degenerò in duro scontro che portò a due successive scissioni da parte della Sinistra guidata da Pannunzio, Carandini, Cattani, Libonati e Panfilo Gentile (uscì dal partito nel ’49 e vi rientrò nel ’51, e poi uscì definitivamente nel 1955).

        Giustamente Barrotta dedica oltre metà del suo libro agli avvenimenti di questi primi dieci anni della Storia del PLI, che vanno dal 1944-45 al 1954-55. Infatti in quegli anni iniziali, eroici e tormentati finirono per formarsi e per strutturarsi solidamente le basi culturali e politiche, e per delinearsi le linee e i confini lungo i quali si svilupperà poi la Storia del PLI nei successivi quaranta anni, fino al suo scioglimento nel febbraio 1994.

        Barrotta evidenzia in particolare che gli equilibri politici interni e la linea politica del Partito, anche dopo il distacco dall’impegno diretto di Croce ed Einaudi tra il ’47 e ’48, vennero garantiti fino al 1954 da una vasta area di esponenti di “centro” che, pur con differenti tendenze chi verso destra chi verso sinistra, in generale mantennero il loro pensiero e il loro liberalismo coerentemente ancorati alla conciliazione del pensiero e del Liberalismo di Croce con quello di Einaudi. (Tra gli altri, Cassandro, Villabruna, Guido Cortese, Francesco Cocco-Ortu, Raffaele De Caro, Gaetano Martino). Pensiero e assetto politico che, pur non riuscendo a portare il consenso del Partito oltre il 2-3%, tuttavia coincisero con la partecipazione e la significativa influenza liberale nei Governi di Centro, soprattutto a guida De Gasperi, che avviarono il “Miracolo Economico” del Paese.

        La traumatica rottura di questo assetto politico avviene, dunque, tra il 1954 e il 1955. Due avvenimenti si verificano in quegli anni, che Barrotta pone giustamente come spartiacque tra la fase storica del PLI, squisitamente Crociano-Einaudiano, collocato coerentemente al “Centro del centro” (come affermava Croce) anche se con difficoltà a trovare una base sociale di riferimento e quindi un conseguente sufficiente consenso, e la fase successiva “Malagodiana” nella quale il PLI si colloca nel Centro-Destra anche per conquistare uno spazio di maggiore consenso e di potenziale maggiore incidenza politica.

        Malagodi, entrato nel PLI nel 1953, di vasta e profonda cultura aveva soprattutto una formazione economico-finanziaria maturata nella precedente esperienza nella Banca Commerciale Italiana di cui fu dirigente di primissimo piano e stretto collaboratore di Raffaele Mattioli. E quando nell’aprile 1954 si tenne il Consiglio Nazionale per l’elezione del nuovo segretario dopo le dimissioni di Villabruna, entrato come Ministro di Industria e Commercio del governo Scelba, il gruppo di centro del Partito, più numeroso ma poco omogeneo, si divise. Una parte, in linea con la precedente maggioranza della segreteria Villabruna, propose Francesco Cocco-Ortu sostenuto anche dalla Sinistra e con l’appoggio dello stesso Villabruna, e l’altra parte invece propose Malagodi col sostegno della Destra, rinforzata dagli ex “Qualunquisti” ed ex esponenti del Partito Monarchico. Contro le previsioni, con una maggioranza esigua (per solo 10-11 voti) venne eletto Giovanni Malagodi. E fu l’inizio della traumatica rottura del precedente equilibrio, che si concretizzò tra l’ottobre dello stesso anno e il febbraio del 1955. Al Consiglio Nazionale del 30-31 ottobre 1954 gli esponenti della sinistra, Carandini, Libonati, Paggi e Mario Pannunzio, si dimisero dalla Direzione Centrale. E, annota ed evidenzia correttamente Barrotta, “con l’ormai solita durezza, Malagodi venne presentato (dalla Sinistra) come colui che ‘tende[va] a trasformare un Partito di illustre tradizione morale, il Partito di Cavour e di Croce, di Giolitti e di Einaudi, in un povero strumento di conservazione, a tutela delle classi privilegiate, se non addirittura di organismi economici reazionari’…”. Attacchi che, pure correttamente, Barrotta considera “poco accorti” perché “certamente, era difficile attribuire a Malagodi il progetto di costruire una ‘Grande destra’, alla quale infatti in tutta la sua vita egli sempre e coerentemente si sarebbe rifiutato di aderire”. Ed evidenzia che “al Consiglio Nazionale persino Cocco-Ortu si sentì in dovere di difendere il Segretario dagli attacchi della Sinistra”. …”Successivamente”, prosegue Barrotta, “gli esponenti della Sinistra liberale non riuscirono nel loro intento di cambiare un indirizzo che si sarebbe consolidato negli anni…”. La scissione fu radicale e vasta. Con Pannunzio uscirono dal Partito gli stessi della precedente scissione del 1948, con l’aggiunta di Villabruna e di altri che gli erano politicamente vicini. In ogni caso, chiarisce Barrotta, è un fatto pacifico che Malagodi collocò il PLI nel Centro-destra dello schieramento politico italiano. Ed evidenzia i tre fondamentali motivi che in un certo senso costrinsero Malagodi a fare ciò, pur non essendo lui un Liberale di destra. Tre motivi tra loro connessi, e l’uno a sostegno e rafforzamento degli altri.

1- Innanzi tutto il nuovo assetto interno del Partito. La nuova maggioranza di Destra-Centro più che di Centro-Destra, sulla quale Malagodi dovette basare la riorganizzazione e il rilancio politico del Partito, era ispirata e guidata in parte da idee del “liberismo classico” e del “capitalismo storico” e in parte da valori della tradizione conservatrice, espressa dai tanti ex Monarchici e Qualunquisti entrati nel PLI negli anni precedenti, valori distanti dal Liberalismo crociano ma anche da gran parte del Liberalismo Sociale di Einaudi. Tant’è che Cocco-Ortu, perso il sostegno della Sinistra, anche a costo di essere piccola minoranza, con pochi amici di Centro e Centro-Sinistra passò all’opposizione fondando la corrente di “Italia Liberale”.

2- Inoltre Malagodi, grazie alle sue relazioni col mondo finanziario e industriale, al fine di organizzare e rilanciare il Partito ottenne l’appoggio e il sostegno finanziario della Confindustria, soprattutto dell’Assolombarda.

3- Per ottenere il necessario consenso, Malagodi puntò ad erodere e conquistare quello moderato-conservatore, soprattutto della DC, che da fine anni ’50 in poi con sempre maggiore difficoltà votava per la DC, o non votava,  o finiva per dare il consenso ai partitini di Destra, ex Monarchici ed ex Fascisti.

Strategia, questa, che, perseguita da Malagodi in buona parte anche pragmaticamente, poi con la definitiva “apertura a Sinistra” della DC di Fanfani ai primi anni ’60, diede al PLI (politiche 1963) il più alto consenso ottenuto dal dopoguerra, oltre il 7% in campo nazionale ma addirittura tra il 10 e il 24% nei grandi centri urbani. Successo effimero però, che andò spegnendosi repentinamente dal 1965 al ’70-’72,  mentre intanto nel contempo il Partito pagava anche il prezzo di aver radicato nella comune opinione degli italiani che il PLI era un “Partito di Destra”, il “partito della Confindustria”, il “partito dei padroni”.Tuttavia ciò non tolse che anche allora il Partito esprimesse o continuasse ad esprimere a vario livello, in maggioranza o all’opposizione, grandi personalità, tra gli altri Albo Bozzi, Salvatore Valitutti, Francesco Cocco-Ortu, Guido Cortese, Luigi Barzini jr, Vittorio Marzotto, Badini Confalonieri, Vittorio Zincone, etc… .

Ma intanto, già dai primi anni ’60 cominciava a colmarsi il vuoto lasciato a sinistra dalla grave scissione del 1955. Dai primi anni ’60 si affermarono con posizioni di Sinistra Liberale, e con un certo seguito, Ennio Bonea e Pompeo Biondi. E contemporaneamente, provenienti dall’A.G.I. (l’associazione studentesca liberale democratica,  indipendente dal PLI) e dalla Gioventù Liberale, si affermarono dentro il PLI i giovani che (con leader Morelli)  in gran parte poi nel 1969 parteciparono con Ennio Bonea, in occasione del Congresso del 1969, alla formazione del gruppo “Presenza Liberale”. E successivamente, a fine anni ’60 – primi anni ’70, in particolare nel 1971 al XII Congresso, nasceva formalmente l’iniziativa “Rinnovamento Liberale” di Valerio Zanone e Renato Altissimo. In quegli anni queste nuove iniziative si opposero con sempre maggiore forza, da posizioni di sinistra liberale, alle posizioni e alla linea politica di centro-destra impresse al Partito da Malagodi e dalla sua maggioranza di Centro-Destra fin da dopo la vittoria al Consiglio nazionale del ’54 e la successiva scissione del ’55. Fatto importante questo, al quale giustamente Barrotta da rilievo, perché contemporaneamente in quegli stessi anni il PLI “malagodiano”, dopo aver perso il sostegno della Confindustria (che preferì appoggiare e ottenere protezione dalle forze politiche moderate dentro la ormai solida alleanza di governo di Centro-Sinistra) aveva perso anche il consenso di quella parte moderata di ceto medio che col voto al PLI nel 1963 aveva strumentalmente solo voluto evitare l’ingresso dei Socialisti al Governo. E in seguito a ciò si era incamminato lungo un impotente isolamento verso un inesorabile declino e un totale annullamento politico. E fu quindi grazie a queste nuove e fresche iniziative di Sinistra Liberale che il PLI di li a poco poté riprendere il percorso abbandonato nel 1954-55 dopo la sconfitta di Cocco-Ortu e del Centro-Sinistra e la successiva scissione.

Sia “Presenza” che “Rinnovamento” si richiamavano all’insegnamento e ai valori di fondo del Liberalismo Crociano-Einaudiano, in gran parte trascurati, se non dimenticati, non da Malagodi ma dal suo Partito e dalla sua maggioranza di Centro-Destra (o forse di Destra-Centro). E si rifacevano ai recenti sviluppi del pensiero liberale e delle politiche liberali seguiti con successo dai Liberali del nord Europa e del nord America, in particolare: al “Liberalismo sociale”,  già proposto da Wilm Ropke negli anni ’40-’50 (e al quale si riferì anche Einaudi) aggiornato poi nelle “Tesi di Friburgo” del 1971 dei Liberali tedeschi e nel pensiero , tra gli altri,  di Ralf Dahrendorf, e al pensiero e alle politiche dei liberali sociali e democratici inglesi eredi di Beverage-Keynes e Russel, nonché ai recenti documenti e manifesti dell’ Internazionale Liberale, tutti aperti alla collaborazione con il nuovo pensiero e le nuove politiche del nuovo Socialismo democratico liberale, tedesco e inglese.

La definitiva spinta al radicale cambiamento di riferimento ideale e di conseguente linea e strategia politica fu determinata, come evidenzia Barrotta, dalla pesante sconfitta di circa 2% di voti persi alle politiche del 1972 e poi dal disastro elettorale alle regionali del 1975 (il PLI dimezzò i voti rispetto alle precedenti elezioni amministrative). “E dopo queste disastrose elezioni”, scrive Barrotta, “… anche Malagodi cominciò a pensare che il PLI avesse bisogno di una nuova strategia e di nuove energie… e per questo motivo decise di iniziare un serrato confronto con Valerio Zanone, certamente  (prosegue Barrotta) il leader della corrente  (Rinnovamento Liberale) più dialogante verso la maggioranza malagodiana” . …”La decisione di Malagodi era certamente dettata dalla consapevolezza delle difficoltà del Partito, profondamente diviso al suo interno tra una destra e una sinistra le cui visioni politiche non avrebbero potuto in alcun modo esser conciliate. Era, pertanto, necessaria una scelta da parte di Malagodi, in uno sforzo di ampliamento del consenso interno al partito, reso peraltro inevitabile anche dal fatto che la corrente malagodiana, “Libertà Nuova”, probabilmente non rappresentava più la maggioranza del partito.”. E a ciò si aggiunse che, spiega ancora Barrotta, “coerentemente con una linea che egli aveva tenuto ferma in tutta la sua vita politica, Malagodi escluse alleanze interne che avrebbero potuto condurre il partito ad accettare la formazione di una “Grande Destra” con il Movimento Sociale. L’intesa con Zanone e la sinistra era dunque un passo obbligato, che Malagodi preparò con attenzione, dicendosi disposto a includere esponenti della sinistra negli organi direttivi. L’operazione si rivelò tuttavia di non facile attuazione”.  

E al Consiglio Nazionale del 30 gennaio – 1 febbraio 1976, pur contando Malagodi ancora sulla maggioranza dell’Assemblea, alla fine concordò con Zanone la mozione unitaria “Liberali Uniti”, primi firmatari Malagodi, Zanone e Bignardi, che, rimasta all’opposizione una minoranza di Destra guidata da Edgardo Sogno, Manlio Brosio e Giuseppe Alpino, venne approvata a vasta maggioranza dal Consiglio Nazionale, e Zanone venne eletto Segretario con Bignardi Presidente e Malagodi Presidente d’onore.

E “senza dubbio”, commenta ed evidenzia giustamente Barrotta, “il Consiglio Nazionale segnò una svolta importante nella storia del PLI. Per la prima volta dopo vent’anni (dalla fine della Segreteria Villabruna e dalla sconfitta di Cocco-Ortu, sostenuto  dal Centro-Sinistra, da parte di Malagodi, sostenuto dal Centro-Destra) il Partito aveva come segretario un esponente della sinistra” … “ e questo”, prosegue Barrotta, “…avrebbe avuto inevitabilmente conseguenze sulla sua collocazione politica, che infatti cambiò subito in modo sensibile”. Cambiamento che del resto era stato anticipato da Zanone nel suo intervento di esposizione di quell’accordo, ma soprattutto in modo dettagliato anche nel documento politico collegato alla mozione “Liberali Uniti”. In questo, insieme “alla netta chiusura verso il Movimento Sociale e il Partito Comunista e a una forte critica verso la Democrazia Cristiana”,  si riconosceva la “funzione che il Socialismo poteva svolgere per lo sviluppo dell’ordinamento democratico nel quadro di una Società e di uno Stato libero” … “e pertanto auspica l’evolversi del PSI verso la completa autonomia quale esponente democratico della Sinistra Italiana”.  E Zanone dichiarò, con molti malumori espressi dalla parte malagodiana, che il PLI da allora “si collocava alla sinistra della DC e a destra del PCI” nello schieramento politico italiano.

Il PLI stava così riprendendo il percorso politico avviato dal PLI di Croce ed Einaudi nei primi dieci anni della sua storia dopo la fine della II guerra mondiale, ispirato dalla conciliazione del liberalismo di Croce con il liberalismo di Einaudi. Percorso dal quale il PLI si era discostato nel lungo periodo malagodiano. E con il XV Congresso Nazionale (a Napoli 7-11/04/1976) ormai, con l’aumento di consenso ottenuto tra gli iscritti dalla mozione di “Democrazia Liberale” e anche con l’importante apporto dato dalla Gioventù Liberale (che con la vittoria e la guida di Antonio Patuelli aveva sconfitto la destra interna portando l’importante organizzazione giovanile a far parte di “Democrazia Liberale”), la maggioranza degli iscritti al Partito e del Congresso sostenevano Zanone, il suo pensiero e la sua strategia politica.

Intanto il “Liberalismo sociale” che già ispirava fino ad allora Zanone e i suoi amici, in Zanone si era aggiornato con il pensiero di John Rawls e il suo “neocontrattualismo” nella sua “Una teoria della Giustizia”, pubblicata nel 1971, e basata sui due principi, il primo: “ogni persona ha un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri”, eil secondo: “le ineguaglianze economiche e sociali sono ammissibili soltanto se sono per il beneficio dei meno avvantaggiati”. Teoria che di fatto cercava di conciliare i fondamenti del pensiero Liberale sociale con quelli del pensiero Socialista liberale. Ciò mentre intanto in quegli stessi anni nel PSI aveva prevalso l’ala autonomista che con Craxi, Amato e Martelli, allontanatasi definitivamente dal PCI e dal Comunismo si era avvicinata al Socialismo Liberale.

Ampio spazio Pierluigi Barrotta dedica, nella sua storia, a questi sviluppi del pensiero politico del nuovo PLI zanoniano e del nuovo PSI craxiano di quegli anni. Sviluppi che portarono in poco tempo all’incontro di questi due pensieri politici dando origine a quello che prese il nome di “Lib-Lab”. Da parte Liberale, con Zanone un grande contributo lo diedero particolarmente Antonio Baslini ed Enzo Bettiza. Quest’ultimo in particolare, che insieme al socialista liberale Ugo Intini scrisse il libro per l’appunto “Lib-Lab”.  Mentre da parte socialista, con Craxi il maggior contributo lo diedero, tra gli altri, Ugo Intini appunto, e poi Luciano Pellicani che scrisse con Craxi un importante saggio anti Comunista e filo Liberale “Il vangelo socialista”, e, non citati da Barrotta, anche Giuliano Amato e Claudio Martelli. Convergenza di pensiero e incontro che produssero in poco tempo importanti frutti politici. Infatti di fronte al pericolo di un Governo di “Unità Nazionale” DC-PCI, Zanone e il suo PLI di centro-sinistra poterono portare avanti la strategia di aggregare le forze Laiche, Liberali, Democratiche e Socialiste liberali in grado di scongiurare il pericolo per l’appunto del Governo di Unità Nazionale DC-PCI, proponendosi come gamba liberal-democratico-socialista di un alternativo governo con la DC.

Così tra il 1976 e il 1979 (anno questo in cui il Liberal-Repubblicano Spadolini divenne Segretario Nazionale del PRI) si avvia il processo politico che approderà alla realizzazione formale del “Pentapartito“ con il Governo Spadolini del 1981. Un progetto politico, quello di un’alleanza di Governo  dei Liberali con i Socialisti riformisti, che, ricorda giustamente Barrotta, nell’Italia prefascista ai Liberali riuscì solo in parte con l’appoggio esterno dei Socialisti al Governo Zanardelli-Giolitti del 1901-1903, e che invece dopo Giolitti tentò di realizzare senza successo. Progetto che poi, negli anni del secondo dopoguerra, non poté essere neanche più immaginabile da parte del PLI di Croce e di Einaudi di fronte al nuovo scenario politico post-bellico che vide i Socialisti legati saldamente sia ideologicamente al marxismo che politicamente e strategicamente, nel “Fronte Popolare” anti Democrazia Liberale ed “anti Atlantico”, al PCI di Togliatti, in più nell’orbita e sotto l’influenza Sovietica e di Stalin.

L’ispirazione al Liberalismo di “centro-centrosinistra”, e conseguentemente la nuova collocazione politica e la nuova strategia politica, riallacciandosi al Liberalismo del PLI crociano-einaudiano e aggiornandolo e riprendendo la direttrice segnata e seguita dal PLI dei primi dieci anni del dopoguerra, riportò il PLI e il Liberalismo al centro della politica italiana, gli fece conquistare discreto consenso e lo portò, alla fine degli anni ’70, a contribuire in modo significativo ad aprire un nuovo corso politico del Paese in senso liberale- democratico e sociale, partecipando alla costruzione di una nuova maggioranza e di governi retti su un accordo paritario tra la DC e i Partiti Laici-Liberali-Democratici e Socialisti.

Dunque, il nuovo percorso del PLI guidato da Zanone durò l’arco di dieci anni, dal 1975-1976 al 1985, quando Zanone si dimise dalla Segreteria dopo l’insuccesso elettorale del PLI (alle amministrative del 1985 il consenso scese al 2,2% dal 2,9% delle politiche del 1983).

In questi anni, intanto, dopo il cambio di maggioranza e di linea politica del Partito dal centro-destra al centro-sinistra, nasce e si compone una nuova Destra interna guidata da Egidio Sterpa (destra Liberale conservatrice) e Raffaele Costa (centro-destra Liberale cattolica-conservatrice). E in generale, in massima parte, nella nuova maggioranza del nuovo corso zanoniano, anche in questi anni il PLI esprime e viene rappresentato da personalità di altissimo livello: oltre a Malagodi e ad altri già noti del periodo precedente su posizioni di centro, come Aldo Bozzi, Salvatore Valitutti, Badini Confalonieri, Beatrice Rangoni Machiavelli e Alfredo Biondi, si aggiunsero insieme ai VV.SS. Renato Altissimo e Antonio Patuelli, tra gli altri: Federico Orlando, Enzo Bettizza, Cesare Zapulli, Antonio Baslini, Natalino Irti, Paolo Battistuzzi, Alessandro Ortis.

Anche nella fase ultima della sua Storia, pur avendo ripreso un ruolo attivo e centrale nella politica italiana dopo il recupero, in particolare nei dieci anni della Segreteria Zanone (1975-76/1985), della identità che esso assunse dopo il secondo dopoguerra soprattutto con le figure e il pensiero dei suoi due più grandi esponenti, Benedetto Croce e Luigi Einaudi, identità che seppe tenere pur con scarso consenso popolare fino al 1954, al PLI gli italiani hanno continuato a voltare le spalle pur avendo esso anche continuato ad esprimere una classe dirigente di altissimo livello. Ed oltre ad aver continuato a voltare le spalle al PLI essi hanno anche  persistito nel respingere i valori e le idee del Liberalismo. Valori e idee che guidarono il Risorgimento e poi,  unita l’Italia, in soli 40 anni ne fecero un Paese libero e democratico e, insieme, una grande potenza economica e socialmente avanzata, così come d’altro canto hanno ispirato e guidato e tutt’ora ispirano e guidano le grandi Democrazie liberali del mondo.

        E agli ultimi dieci anni della storia del PLI che, successivamente alle dimissioni di Zanone nel 1985, dopo anni di duri contrasti si concludono tristemente e anche traumaticamente con Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica con il suo ultimo Congresso del febbraio 1994 che ne stabilì lo scioglimento, Pierluigi Barrotta non a caso, un po’ perché trattasi di avvenimenti troppo recenti e un po’ perché lui stesso ne fu direttamente e intensamente un protagonista, è costretto a farne una ricostruzione appena un po’ più cronachistica dedicandogli appena 15 pagine delle 230 del libro.

        Barrotta si sofferma giustamente sulle cause che nel 1985 indussero Zanone a dimettersi. In sostanza Zanone con grande sensibilità politica e senso di responsabilità prese atto del fatto che il progetto di “Pentapartito”, basato su un rapporto alla pari tra i Lib-Lab e la DC, a seguito del rafforzamento politico ed elettorale dei Socialisti che squilibrava a loro favore il rapporto tra Liberali Democratici (PLI-PRI) e Socialisti (PSI-PSD) e col rafforzamento della leadership di Craxi, poneva i Liberali in una posizione subalterna e sempre più marginale nel Governo e nella sua politica che, di fatto, veniva sempre di più caratterizzata da un confronto e compromesso continuo tra il PSI di Craxi e la DC. In tale situazione in effetti, spiega Barrotta,  “ci voleva un PLI che esprimesse una ‘concezione liberale pura’ e ‘radicale’ che non si addiceva alla concezione ‘liberale ragionevole’ di Zanone”. E Barrotta riporta significativamentele stesse parole di Zanone nella sua Relazione al Consiglio Nazionale del luglio ’85. “Dahrendorf ha usato di recente la distinzione  tra concezione liberale ‘pura’ e concezione liberale ‘ragionevole’ ed è arrivato alla conclusione che quando la posizione ragionevole rappresenta la loro unica caratteristica, dei liberali come partito si può fare anche a meno […]. Non ho difficoltà a riconoscermi nella concezione più pragmatica che ideologica, più costruttiva che conflittuale […]; a constatarne i limiti soprattutto elettorali; e quindi ad aderire al cambiamento verso una linea liberale più nettamente marcata, più orgogliosa e combattiva […]. Nel prossimo futuro il PLI farà benissimo ad assumere toni meno ragionevoli e più competitivi, a mostrarsi più liberisti in economia e più libertario nella società”. Posizione di cui lo stesso Zanone ammette i limiti, quindi, e che coincise in quegli anni con l’appannamento della presenza del PLI nel Governo e con la perdita di consenso elettorale. Purtroppo quelle dimissioni avvenivano in un momento difficile per il partito che, emarginato dalla ingombrante PSI e dalla incontenibile leadership di Craxi, non riusciva a dare un chiaro contributo liberale alla politica del Governo e ad avere una distinta visibilità all’interno della maggioranza. E ciò determinò, pertanto, una spaccatura nella maggioranza che con Zanone aveva guidato e rilanciato il  PLI nei 10 anni precedenti. Spaccatura e contrasti interni alla vecchia maggioranza che si protrarranno per i successivi tre anni sino al Congresso del 1988. Il contrasto avvenne, spiega Barrotta, non tra Sinistra e Destra ma tra una componente di “Democrazia Liberale” guidata da Patuelli e Morelli e la componente storica di “Democrazia Liberale” guidata da Zanone e Altissimo. Spaccature e contrasti, continua Barrotta, che rimisero in gioco la Destra interna, residuale e ininfluente, guidata da Egidio Sterpa, la quale prima al Consiglio Nazionale del luglio 1985 contribuì ad eleggere Segretario Alfredo Biondi proposto da Patuelli e Morelli contro Altissimo proposto da Zanone e dal gruppo storico di “Democrazia Liberale”, e invece l’anno successivo al Congresso Nazionale di Genova del maggio 1986, in corso di Congresso, si alleò con Altissimo e Zanone per eleggere Segretario lo stesso Altissimo contro Biondi sempre sostenuto da Morelli e Patuelli.

Questa situazione politicamente non proprio chiara era giustificata, spiega ancora Barrotta, da una posizione più radicale e movimentista del gruppo di Patuelli e Morelli e dello stesso Biondi, rispetto a quella più moderata e pragmatica del gruppo storico di D.L. di Altissimo e Zanone.

Ad ogni modo, questo contrasto interno alla vecchia maggioranza verrà sanato e ricomposto da Altissimo, dopo tre anni, al Congresso del dicembre del 1988. Qui Altissimo, sostenuto e con i voti di “Democrazia Liberale” e di “Nuova Democrazia Liberale” di Patuelli e Morelli, venne riconfermato Segretario contro Antonio Martino sostenuto da tutta la Destra interna al Partito, guidata da Sterpa e da Costa, ed anche da Alfredo Biondi.

Con la conferma della sua Segreteria, rafforzata dal convergente sostegno di tutte le componenti di “Democrazia Liberale”, sia quella del suo gruppo storico che quella di “Nuova Democrazia Liberale”, Altissimo, per far uscire il Partito dalla marginalità nella maggioranza di pentapartito e per fargli superare la difficoltà di incidere nella politica e nell’azione del Governo determinata dalla forza elettorale crescente del PSI e dalla incontenibile leadership di Craxi che ormai limitava a se stesso e al suo PSI il ruolo di interlocutore della Democrazia Cristiana, finì (come scrive la storica Simona Colarizi a proposito qui citata da Barrotta) per “scegliere di mettersi sulla scia del PSI e raccogliere le briciole della torta del potere, per così dire, senza del resto trovare una consistente resistenza fino al 1990…”. E sebbene tra il 1990 e il 1992 la componente guidata da Patuelli-Morelli e Biondi autonomamente si fosse impegnata nel movimento referendario di Segni, antipartitocratico, consentendo un recupero di consensi alle politiche del ’92, ciò non impedì che anche il PLI di lì a poco fosse trascinato e travolto con alcuni suoi dirigenti con in testa Altissimo (tranne Zanone che si era dimesso da Presidente del Partito in posizione critica verso la Segreteria troppo schiacciata e incapace di distinguersi nei confronti del modo spregiudicato di esercitare l’azione di governo da parte di Craxi e del PSI e della DC) nella bufera di “Tangentopoli” e nell’inchiesta “Mani Pulite”, e infine nel crollo della prima Repubblica.

In questa drammatica situazione Altissimo nel maggio 1993, dopo i primi “avvisi di garanzia” diede le sue dimissioni irrevocabili  da Segretario. E il Partito, anche investito da pesanti problemi economici che non gli consentivano più neanche di mantenere la storica ma costosa sede centrale a Roma in via Frattina, entrò nella sua ultima e travagliata fase che lo portò di lì a poco al suo scioglimento a conclusione del suo ultimo Congresso nel febbraio del 1994.  Conclusione nella quale contestualmente, come evidenzia correttamente Barrotta, Raffaello Morelli “lanciò la Federazione dei Liberali, che subentrò al PLI come membro dell’ Internazionale Liberale. Nelle sue intenzioni la Federazione avrebbe dovuto raccogliere l’eredità del vecchio Partito…”. Ma, anche in considerazione del fatto che di lì a poco si sarebbero svolte le elezioni politiche con il nuovo sistema elettorale maggioritario, la maggior parte dei dirigenti liberali delle varie componenti,  di sinistra, di centro  e di destra, fu indotta invece ad aderire e a schierarsi in parte nella coalizione di Centro-Destra e in parte in quella di Centro-Sinistra. Raffaele Costa e Alfredo Biondi si candidarono con il Centro-Destra, Antonio Martino aderì direttamente a Forza Italia mentre Valerio Zanone con la suo “Unione Liberale Democratica”,  nata prima dello scioglimento del PLI, prima aderì al Patto Segni Liberaldemocratici e successivamente si riunì con la Federazione dei Liberali con la quale partecipò alla costituzione dell’ “Ulivo”.

        Questa vera e propria diaspora liberale non fu più ricomposta. Così si concluse in modo inglorioso la vita e la Storia del glorioso PLI di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi, di Enrico De Nicola, di Vincenzo Arangio Ruitz, di Vittorio Emanuele Orlando, di Epicarmo Corbino, di Giovanni Cassandro, di Manlio Brosio, Raffaele De Caro, di Mario Pannunzio, di Nicolò Carandini, di Leone Cattani, di Albo Bozzi, di Gaetano Martino, di Francesco Cocco-Ortu, di Guido Cortese, di Vittorio Zincone, di Luigi Barzini jr, di Vittorio Marzotto, di Giovanni Malagodi, di Badini Confalonieri, di Salvatore Valitutti, di Valerio Zanone, di Federico Orlando, di Enzo Bettizza, di Antonio Baslini, di Beatrice Rangoni Machiavelli, di Alfredo Biondi, di Raffaello Morelli, di Antonio Patuelli e di Renato Altissimo.

        La “Storia di una sconfitta” quindi, come l’ha definita nella sua introduzione Pierluigi Barrotta. Ma anche una fine ingloriosa che proprio non meritava tutta la sua lunga storia, soprattutto quella relativa ai precedenti quarant’anni dal 1945 al 1985.

        In ogni caso, come annota Barrotta nell’incipit della sua prefazione al libro, citando Paul Feyerabed, è utile “studiare gli sconfitti, perché da loro c’è molto da imparare!”. Ed è esemplare, in tal senso, appunto la Storia della sconfitta del PLI della Prima Repubblica, ben descritta e rievocata in questo importante libro.

        Enrico Lecis Cocco-Ortu

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– Pierluigi Barrotta è ordinario di Filosofia della scienza e direttore del Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa.         Ha studiato alla Scuola Normale, a Londra e a Cambridge; e ha proseguito i suoi studi presso i centri di ricerca in filosofia della scienza dell’Università di Pittsburgh e della London School of Economics. Dal 2004 al 2008 è stato direttore dell’Istituto italiano di cultura a Londra.

        Tra i suoi ultimi lavori ricordiamo “Scientists, Democracy and Society”. “A Community of Inquirers”, New York e Berlino 2018.

        Dal  1984 al 1987 è stato Segretario Nazionale della Gioventù Liberale Italiana.