Una sera si chiacchiera di TAV, e la vecchia signora interloquisce divertita. “Nelle mie storie di famiglia c’è anche quella di una bisnonna che, quando era bambina, andava a fare le manifestazioni contro la ferrovia Canavesana”. Colpito dall’idea di questi no-Tav ante litteram, mi sono adoperato un po’ per ricostruire i fatti, che sono interessanti, ma richiedono di riepilogare brevemente la storia della trazione a vapore.
Nei primi decenni dell’800, la carrozza che portava oltre alpe il giovane Cavour non era dissimile da quella che aveva trasportato Giulio Cesare, e anche la durata del viaggio era la stessa, dato che i cavalli non erano geneticamente modificati. Velocità media sugli 8 km/ora. Occorsero due millenni perché si realizzasse un cambiamento epocale con l’avvento della strada ferrata e della locomotiva. Nata in Inghilterra nel 1825, la trazione a vapore fin dall’inizio aveva incontrato non poche ostilità, e qui lascio la parola ad uno studioso di riconosciuta autorevolezza, Luigi Ballatore (“Storia delle Ferrovie in Piemonte”, ed. Piemonte in Bancarella, 1996).
Non mancarono terribili profezie. C’era chi prevedeva che un essere umano, trasportato alla folle velocità di 30 chilometri/ora, sarebbe soffocato non riuscendo a respirare. Si arrivò persino ad affermare che le vibrazioni dei carri, con carichi di uova e di latte, avrebbero trasformato le prime in omelette e le seconde in burro” mentre[omissis] “le pecore avrebbero perso il vello”. E ancora: nel 1834 il papa Gregorio XVI disse a Gladstone: “voi inglesi siete tutti soggetti alla tisi per il passaggio così rapido nell’aria che fate andando in ferrovia”.
In Italia il vapore incontrò esiti variabili. L’accoglienza migliore fu a Napoli (1839), dove l’inaugurazione della Napoli-Portici (prima linea ferroviaria italiana) si svolse tra l’entusiasmo popolare. La locomotiva “Vesuvio” viaggiava sui 40 km l’ora. D’altra parte, Ferdinando II di Borbone era un tipo pragmatico: secondo un aneddoto dell’epoca, a un ministro che gli vantava la qualità di una nuova strada rispose – prendi la carrozza e andiamo: le strade si giudicano col culo. Altrove, le cose andarono diversamente. Nello Stato Pontificio, ad esempio, Papa Gregorio XVI riteneva il “mostro d’acciaio” un’invenzione diabolica, ma non così il successore Pio IX che, negli anni ’40, diede avvio ad un progetto di strade ferrate.
Andarono diversamente anche in Piemonte, e in particolare in Canavese. L’idea di una strada ferrata che colleghi Settimo con Rivarolo e Cuorgné nasce nel 1854 (l’anno in cui si inaugura la Torino-Pinerolo, a vapore). Due anni dopo viene costituita la “Società Anonima della strada ferrata centrale del Canavese” e dopo altri due anni si raggiunge una decisione tecnica importante: la scelta della trazione a cavalli, meno dispendiosa di quella a vapore. Lo stile è molto sabaudo: non fare il passo più lungo della gamba. Nel 1863 iniziano i lavori e nel 1866 si inaugura il servizio Settimo-Rivarolo. Senza la “legge-obiettivo”, i soli dodici anni intercorsi tra la nascita dell’idea e la sua realizzazione sono un discreto exploit. Però, la trazione restava a cavalli….
Quando, nel 1874, fu presentato il progetto di ammodernamento con trazione a vapore, gli oppositori sostennero che i raccolti avrebbero sofferto per il fumo e per le scintille precursori ed equivalente antico dell’uranio di Venaus. Ecco, allora, la nonna con l’equivalente degli striscioni NO-TAV! Ma la modernità ebbe infine il suo trionfo, e il dicembre 1884 vide l’inaugurazione del segmento da Settimo a Pont Canavese. La bisnonna ripiegò gli striscioni. D’altronde, si sa che i reggitori dell’epoca avevano modi un po’ maneschi. Il generale Bava Beccaris era in carriera e stava per diventare “Direttore Generale di Artiglieria”.
Per inciso, la vita è dura per le innovazioni, sempre e comunque. Mezzo secolo prima era stata la volta della pubblica illuminazione a gas, considerata pericolosa dagli “antigasisti”. A Milano nel 1835 un Regolamento stilato a cura dell’Imperial Regia Delegazione dell’Istituto di Scienze e Lettere metteva in guardia “contro i pericoli terribili della fabbricazione e dell’uso del gas illuminante, nel caso che siffatto genere di notturna illuminazione avesse ad essere introdotta anche in questa provincia“. A Torino l’innovazione fu sperimentata in alcune strade del centro il 1° ottobre 1846 ed ebbe buona accoglienza secondo cronache d’epoca. Nelle strade delle grandi città italiane, l’illuminazione a gas durò solo un mezzo secolo, prima di venire soppiantata dalla elettrica. Non sarebbe – quindi – mai nata, se si fosse utilizzato il criterio di sicurezza della “prova del nonno” (tre generazioni): mezzo secolo non bastava. A meno che la elettrica non fosse, a sua volta, bloccata dalla prova del nonno ….
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Si vuole una storia più remota? Ce ne offre una la Rivista Mensile del Club Alpino Italiano (vol. IV, 1885), in un articolo a firma L.Vaccarone con titolo: “Un’ambasciata a traverso il Moncenisio nel Febbraio 1642”. L’occasione che origina quella traversata è un lutto: nel 1642 il Granduca di Toscana Ferdinando II vuole esprimere al re Luigi XIII di Francia le sue condoglianze per la morte della madre, la tostissima Maria de’Medici. A tal fine, manda a Parigi, un’ambasceria capeggiata da un monsignor Lorenzo Corsi e composta da 18 persone, tra le quali un abate Giovanni Francesco Rucellai, che lascia un accurato resoconto del viaggio (*): la fonte alla quale il Vaccarone attinse. La comitiva parte da Firenze la mattina del 18 gennaio, facendo rotta su Bologna, Milano e Torino. Qui “intorno alla corte di Madama Reale”, trova costumi che lasciano un po’ sconcertato il narratore moderno. Il quale infatti non si sofferma sui “curiosi particolari” narrati dall’abate, se non per ricordare che “le allegre dame torinesi”, come peraltro le parigine, usavano andare per la città mascherate e col seno scoperto, e ricevere le visite a letto. Era invece passato – spiega – il tempo in cui le dame e damigelle usavano baciare sulla bocca il forestiero per dargli il benvenuto, e le monache invitare nei loro chiostri “a mattinate danzanti i forestieri di alta condizione”. Dal quadro emerge, comunque, che la mitica tradizione di riservatezza delle madamin torinesi risale quantomeno ad un’età post-barocca.
Come si conviene alla rivista di un club alpino, l’autore si sofferma sulla traversata delle Alpi, della quale il diario dell’abate Rucellai ci dà una narrazione vivace. Il 15 febbraio il gruppo sostò alla Novalesa (quota c. 800 m, Val di Susa), e può sorprendere che non sia stato ospitato nella locale, famosa abbazia, allora gestita da monaci cistercensi. Pernottarono invece in un “miserabile tugurio” (d’ora in avanti tutti i virgolettati sono da Rucellai). Nella notte, mentre tutti riposavano “si sentì un gran romore e la padrona che gridava all’armi”. Fu un sottosopra per l’Osteria, Monsignore e gli abati e tutta la “famiglia” [nel senso antico, n.d.r.] si buttarono giù dai letti e, così come erano, “dato di piglio alle pistole che a capo di essi tenevano”, accorsero al rumore “credendosi assaliti dai terrazzani”. In realtà, un soldato ubriaco aveva sparato con la pistola al credenziere dell’ambasciatore. Si può ipotizzare che lo scontro fosse per una questione di vivande. Il credenziere comunque rispose con la carabina ma, per fortuna, al buio entrambi mancarono il bersaglio. Al mattino i viaggiatori, bloccati dalla tormenta, si trattennero a giocare al picchetto (un gioco di carte). Non mi è noto che cosa fosse un “terrazzano”: il vocabolario italiano del Sergent (1873) spiega con “abitator di castello, o di terra murata” (espressione essa stessa di significato oscuro).
Il giorno appresso, essendosi calmato il vento, partirono sulle sedie portate dai “marroni” (= portatori). Ce ne volevano da 4 a 8 per ogni passeggero, a seconda della sua “corpulenza e peso specifico” (sic). Il passeggero stava seduto su una sedia a braccioli. “Ciascun marrone costava 3 lire piemontesi. […] La marcia era spedita e assai piacevole” e dove la pista era sufficientemente larga, i viaggiatori potevano “conversar tra loro come in un salotto”. Più in alto, i marroni attrezzavano le scarpe con dei ramponi, mentre il sentiero passava lungo “gran precipizi” che incutevano “gran terrore”. Arrivarono infine alla piana sommitale dove poterono ripartire a cavallo; poi al Colle del Moncenisio dove trovarono pronti i “veicoli” per la discesa, veicoli che il buon abate descrive con cura. Si trattava di slitte, nelle quali il marrone si sedeva davanti al passeggero, così da moderare la velocità con i piedi quando necessario; talvolta “ne’luoghi di gran pendenza”, aumentava ulteriormente l’attrito col sottoporre ai due legni una catena o “ritortola” (sorta di fune di giunco), che rendeva “più aspro il cammino”. La discesa su Lanslebourg si percorse “con velocità indicibile”: un “cammino precipitoso” che i passeggeri trovavano “quasi spaventevole sul principio”, prima di essere rassicurati dalla manifesta perizia dei marroni. Dopo di che, i componenti dell’ambasceria trovarono la discesa molto divertente, tanto che, il giorno successivo, alcuni si fecero riportare al colle coi muli, e con le slitte portate a spalla dai marroni – una varietà arcaica di skilift – così da potere ripetere la “vertiginosa” performance.
La vicenda così vividamente narrata dal Rucellai alimenta, a suo modo, un rimpianto del modo antico di viaggiare. Nel 1642 il traforo del Frejus, una moderna degenerazione, era ancora da venire. Rispetto alla quota 1300 di Bardonecchia, i 2000 del Moncenisio aprono al viaggiatore panorami di grande bellezza che oggi compenserebbero ampiamente il leggero aumento dei tempi di viaggio. Le strade dovevano essere meglio delle attuali, in quanto i regnanti dell’epoca, prima di pagare i lavori, esigevano qualità, e i loro collaudi – si è già detto del Borbone Ferdinando II – avevano un’efficacia ignota ai carenti servizi “Controllo di qualità” delle moderne Amministrazioni.
Il vivace resoconto del tollerante abate è interessante per vari aspetti. Ne esce il quadro di una Torino dai costumi rilassati, nella quale la gente bene viveva bene. I ricchi potevano permettersi di salire al Moncenisio in portantina. Poi, quel tocco straordinario dello skylift umano. Nell’osteria alla Novalesa non mancava qualche problema di sicurezza: i gentiluomini dormirono ciascuno col suo revolver sul comodino, ma certamente non si annoiarono. Oggi un viaggio come quello descritto potrebbe forse essere messo in catalogo da un’agenzia, ma non senza difficoltà. I marroni chiederebbero l’assunzione in pianta stabile. La notte della Novalesa potrebbe essere proposta con l’uso di figuranti, ma chiaramente non sarebbe la stessa cosa. L’agenzia potrebbe giocare la carta ecologica, dato che a un gruppo come quello del Granduca va accreditato un danno ambientale minimo. Niente gas serra: le flatulenze di cavalli e muli sono “methane-free”.
Una riflessione per chiudere: le “disuguaglianze sociali” non le ha inventate il nostro secolo. Se ci fu un tempo che vide una qualche uguaglianza realizzata, ebbene, non fu il secolo del Re Sole.
(*) Il diario dell’abate fu pubblicato nel 1884 per i tipi di G. Barbera in Firenze, a cura di G. Temple Leader e G. Marcotti. Ringrazio l’amico Giannetto Massazza che mi ha segnalato l’articolo del Vaccarone