Mancano tre giorni a Natale. Torino è ammantata di neve. I palazzi albertini sembrano avere perso il loro rigore. Lunghe ghirlande candide ingentiliscono i cornicioni, le sporgenze e i contorni esterni delle finestre. E’ una festa del bianco. In piazza Castello da via Dora Grossa un tram a cavalli avanza lento, il calpestio degli zoccoli attutito dalla neve. Poco distante, all’angolo con via Pietro Micca, tre monelli con i calzoni alla zuava, i calzettoni a rombi su scarponcini pesanti e una coppola in testa, sono intenti a far rotolare una specie di valanga, Questa almeno è la loro intenzione. Le sentinelle del Palazzo Reale li osservano con benevolenza. I tre sono partiti con una specie di fagotto di neve dal poco: ora faticano a completare l’ultima rotazione al grosso e candido blocco. La neve è perfetta per impastare palle e farsi una guerra. All’improvviso sbuca dall’angolo un bersaglio più attraente. La signorina Bice, impiegata alla borsa merci, è uscita di casa “ comme il faut”. Stivali di vacchetta marrone stringati fino a sotto il ginocchio, gonna a tre quarti di buona vigogna, una mantella di lapin e l’ombrellino rosso. Un amore di ombrellino. Inadatto per un temporale estivo, elegante per proteggersi dalla fiocca, un po’ meno dalle bianche palle scagliate dai monelli con le guance rosse. La signorina presa di mira dai ragazzi un po’ grida, un po’ scappa, un po’ minaccia con l’ombrello, un po’ ride. Ha una bella dentatura, due labbra gonfie da un piccolo broncio, due gote che il freddo fa rosee. L’ombrellino è un riparo scarso. Per fortuna Torino si apre con grandi porticati. I negozianti che liberano gli accessi alle loro botteghe danno la voce ai tre ribaldi. Se le palle di neve si stampano sulle vetrine c’è del lavoro in più da fare. E’ la mattina del 22 dicembre 1870. I vetturini tengono alla briglia i loro cavalli con le ruote appena frenate. Ogni volta che le porte dei caffè si aprono, escono delle zaffate calde con aroma di cioccolato. Le scarpe cominciano a cedere un po’ di fanghiglia sul lastricato. Il pavimento, anche sotto i porticati, diventa scivoloso. Il commendator Olivero, come tutte le mattine, va al suo ufficio. E’ un avvocato. Di corporatura più portata a privilegiare i paralleli piuttosto che i meridiani, gli è inibito l’uso della cintura; nascosti sotto il gilè si incrociano due bretelle adeguate a sorreggere un paio di calzoni di dimensioni congrue alla pezzatura. Una catena passa da un occhiello al taschino di sinistra dove si nasconde l’orologio a cipolla. Tutta la gran massa si muove sotto la supervisione di un Borsalino grigio. Uno scarto della suola di una scarpa e si trova con il culo per terra. I monelli ridono. La signorina Bice si avvicina premurosa. I bottegai, in tre, raddrizzano il monumento. Il retro dei pantaloni è occupato da una larga chiazza umida. Il decoro dell’illustre professionista potrebbe averne un certo disdoro! Sotto i portici di piazza Castello si apre la bottega Carpano. Dicono che vi si serva uno dei migliori vermouth di Torino. Ci si crede con facilità, da una parte con l’esperienza, da una parte con la storia. Il vermouth è nato lì, alla fine ‘700, dalla intuizione di uno che si chiamava come si chiama ora la bottega: Carpano. Era sceso da una vallata del biellese a cercare fortuna a Torino. Vino bianco moscato, aromi, ma soprattutto un’erba che cresce sulle montagne: l’artemisia, un’erba amara di cui i liquoristi fanno uso fin dal medioevo per preparare l’assenzio. Oreste Pautasso fa l’agente di borsa in un palazzo non lontano. Ha sessantacinque anni e da due una prostata poco giudiziosa per cui è costretto alla ricerca di quelli che nel 1870 erano chiamati locali di decenza fra le persone un po’ su e latrine da tutti. Le minzioni sono diventate frequenti ed impellenti. Ormai Oreste Pautasso ha nel cervello una mappa precisa di questi siti in Torino. Questa mattina è contento, in una compra vendita ha spuntato una supervalenza di un punto e mezzo. Non chiedetemi cosa significhi. State contenti nel sapere che ci ha fatto un po’ di palanche. La bottega di Carpano è il suo punto di repere quando si trova in borsa: soddisfa ad entrambe le esigenze, quella di stampo idraulico e quella di bagnare la bocca in modo piacevole. Arriva a passo svelto. Passa davanti al bancone dove stanno sorseggiando un vermouth la signorina Bice ed il commendator Olivero, lei ride ad una battuta sussuratagli all’orecchio dall’uomo. Oreste Pautasso, passa veloce, diretto alla latrina e non si accorge di fare una inedita ordinazione: l’idea fissa mentale era coagulata su quel punto e mezzo di guadagno, per cui chiede un “ punt e mes”. Quando finalmente ritorna con un sorriso di soddisfazione per godersi il meritato vermouth, il suo bicchiere non è pronto.
“ Come mai?” Chiede.
“ Non ho capito bene cosa lei abbia ordinato.” Farfuglia il cameriere. “ Non conosco questo… punt e mes…”
Oreste Pautasso non si scompone e improvvisa: “ Un punto di vermouth e mezzo punto di china!”
Il cameriere esegue.
“ Non male” Apprezza Oreste.
La curiosità nasce ed il cameriere incrementa l’idea con altri avventori:
“Chi vuole provare un punt e mes?”
La signorina Bice ed il commendator Olivero che nel frattempo continuano la loro conoscenza ad un tavolo sono i primi ad accettare la prova. Non molto tempo dopo non si ordina più a voce; si entra, si va al bancone, si alza il pollice diritto e si traccia una linea orizzontale con l’indice. Un punto e mezzo, un punt e mes.