E’ il tempo del “ribollir dei tini” e dell”aspro odor dei vini” di carducciana memoria. La vendemmia è in corso, in alcuni zone vinicole già conclusa, come in Franciacorta, per i vini a base spumante, per le uve aromatiche come il Moscato e i bianchi che devono conservare la giusta acidità; per i grandi rossi occorre ancora tempo, si devono attendere le calde settimane di ottobre con le forti escursioni termiche notturne, al Nord sovente si giunge a novembre con  le prime nebbie, come esige il nostro principe Nebbiolo.

 Non tutte le civiltà hanno avuto il privilegio di essere sorte nella fascia continentale tipica e adatta alla produzione di uva e di vino e di aver saputo su questa produzione innestare una straordinaria costellazione di aspetti materiali e culturali, individuali e collettivi. Una attività così antica, che affonda nella memoria di almeno otto millenni, è indiscutibilmente ricca di significati, ha radicato gesti, conservato tradizioni, elaborato consuetudini che vanno dalla festosa ricorrenza  dei riti in onore delle antiche divinità portatrici del dono inestimabile agli uomini, Osiride, Dioniso,Bacco, alle descrizioni orali e scritte, sovrabbondanti in ogni regione vinicola, alle raffigurazioni pittoriche e scultoree, alle riflessioni sui suoi significati traslati, metaforici, spirituali, archetipici. E’ il momento festoso e collettivo che corona l’operoso rapporto dell’uomo contadino con la terra e la natura, l’ultima delle operazioni che conclude il ciclo della raccolta dei prodotti, dopo il grano e gli altri cereali, prima del riposo della terra, e poi il silenzio per lunghi mesi perché la natura sgravata dei suoi frutti riposa il giusto riposo nel freddo dell’inverno  incipiente, nel silenzio della stagione  che tutto fa tacere. Proserpina è sotto terra, sei mesi senza frutti.

Vendemmia: al solo pronunziarne il nome alla mente si affastellano immagini che ci appartengono: letture, proverbi , echi di canti e di profumi: il dolce appiccicoso sulle dita nel cogliere il grappolo, il profumo zuccherino del succo raccolto nelle ceste da acini perfetti, turgidi, che al loro contatto si spaccano i e fanno fuoriuscire un po’ di nettare, l’intenso, stordente profumo del mostro in cantina, l’appagante assaggio del torbido vino che si sta facendo nel tini e i colori scintillanti del vino nuovo che inonda le narici e sparge i suoi sentori dal bordo del calice.

Una festa, un rito, un’abbondanza, una gioia, fatica che si stempera nel piacere della socialità di un rito collettivo, almeno così un tempo, più asettico e impersonale oggi, dove tutto è disciplinato da norme che tutelano la sicurezza, ma ostacolano quel piacere del fare insieme una cosa naturale, di ricevere insieme un dono della natura, che non offre solo alimento e bevanda ma euforia, bellezza, gusto della condivisione.

Più ancora della trebbiatura, della raccolta estiva delle messi,la vendemmia è stata infatti ancestralmente  festa corale di un’intera comunità, propizia occasione stagionale che ha dato spunto a poeti e narratori per trasfigurare questo appuntamento annuale secondo sensibilità e approcci diversi. Cosi particolarmente efficace appare l’interrogativo che si pone in proposito la scrittrice Dacia Maraini quando  considera che si vendemmiano grappoli così come si vendemmiano parole “Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. E’ questa la divina vendemmia della letteratura?” Nelle intense pagine di tanti autori la risposta è certamente affermativa: Cesare Pavese ben conosceva il prezioso succo di ogni parola quando descriveva quei giorni autunnali con il suo stile scabro, essenziale, ne La luna e i falò: “Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.” Per Pavese la vigna, il paesaggio delle sue colline langarole, ha sempre come sfondo la sensualità della terra, che è femmina, curva e dolce come quelle  colline, aspra e sfuggente come i sapori del vino acerbo, quel vino che nasce in vigna con i piedi nella terra e la propensione verso il cielo ”,,vennero come negli anni passati sia lei che Irene nella vigna bianca, e io la guardavo accovacciata sotto le viti, le guardavo le mani che cercavano i grappoli, le guardavo la piega dei fianchi, la vita, i capelli negli occhi, e quando scendeva il sentiero guardavo il passo, il sobbalzo, lo scatto della testa…”

Davide Lajolo è figlio della generosa terra monferrina:“D’inverno il mio paese è il paese del fango, come in primavera è il paese dei peschi e dei ciliegi in fiore, d’estate è il paese delle lucertole e delle lepri e d’autunno è il paese dell’uva, delle vendemmie nere della Barbera.” Della vendemmia l’autore ha sperimentato il lento farsi nel duro lavoro in vigna, “Tra quelle vigne ad altezza d’uomo, su ogni tralcio, su ogni zolla di terra su cui sorgono i filari sta segnata la secolare fatica contadina. Il vignaiolo comincia a potare la vite quando le sue scarpe si immergono ancora nel fango dell’inverno.” Sono pertanto la fatica, il sudore, le incertezze che accompagnano l’uomo sino al giorno fissato a predominare nella sua poetica, perché bastano nuvoloni lividi e un cielo biancastro a far tremare il contadino per il rischio di una grandinata imprevista, sorte malevola e temuta. tempo sospeso degli eventi atmosferici che si implora clemente per non distruggere con la vigna grappoli e il frutto di un anno di lavoro
Ogni vigna distrutta è simbolo di devastazione esterna ed interiore,come appare nella impietosa e amara descrizione di Alessandro Manzoni „”Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.“

Nelle pagine dei grandi scrittori le immagini scorrono come filmati che colgono i minimi dettagli di una scena rurale, restituendoci il sapore dei gesti e regalandoci similitudini inconsuete:così Corrado Alvaro in Gente di Aspromonte : “Nelle vigne popolate di vespe e calabroni i grappoli appena punti si disfacevano. Un  odore denso era dappertutto e i pampini erano gelosi come vesti o i grappoli appiattati nell’ombra divenivano misteriosi come tutti gli esseri umani che si affacciano alla vita” e i colori dei grappoli offrono altri invitanti accostamenti:  “ i bianchi parevano di cera e carnali, come le forme delle dita o i capezzoli delle capre, i neri serrati e ricciuti come la testa di qualche ragazza.” E ancora ecco  serpeggiare l’aura misteriosa di questo rito antico dove “..le donne si sparsero pel campo … e si adagiavano sotto le viti , come in una stanza segreta, piena d’inquiete suggestioni” e la sensualità del tatto si esalta “ le dita si appiccicavano legate dai succhi e dalle ragnatele.”
A queste immagini fanno eco quelle descritte da Italo Calvino -Il barone rampante- dove la raccolta in vigna ci viene consegnata come una folata di canti che si rincorrono tra le viti e i filari, dapprima discordanti,  poi finalmente all’unisono in una corsa veloce che fa incontrare le voci e l’uva  pare “vendemmiarsi da sé, gettarsi entro i tini e pigiarsi, e l’aria le nuvole il sole diventare tutto mosto.”

E gioia dei sensi, euforia e bellezza è in Scipio Slataper ne Il mio Carso: “Bella è la vendemmia. Oltre i vignaioli vanno grida e risate; i cani sbalzano, accucciandosi sulle zampe anteriori davanti, da questo a quel gruppo di vendemmiatori, e i passeri  frullano sbandati.
Le labbra e il mento sono appiccicose di miele stillato, e le mani, la maglia, il manico della roncola, i pampini, le brente i carri. Tutto è una gomma rossastra
” e prosegue, quasi ad invitarci all’assaggio,
Buona è l’uva, addentata a grani dal tralcio, mentre dagli occhi sgocciola il sudore e la palma della mano è stanca della roncola. Ma ancora questo filare, ancora questa vite, ancora questo grappolo! Qua con una brenta!“

Alle descrizioni festose, vocianti, ai bozzetti rapidi e succosi, si affiancano le riflessioni pensose: la vendemmia e il suo tempo autunnale diventano la dimensione interiore più confacente allo stato d’animo del poeta: Vincenzo Cardarelli, nella poesia Ottobre, ci regala  intime atmosfere  di sfolgorante efficacia.

“…amo la stanca stagione/ che ha già vendemmiato/ Niente più mi somiglia/ nulla più mi consola, /di quest’aria che odora/ di mosto e di vino,/ di questo vecchio sole ottobrino/ che splende sulle vigne saccheggiate/.”

E analoghe considerazioni sul significato della propria esistenza echeggiano nei Brani di vita di Olindo Guerrini “Tornando, m’indugiavo pei campi, lungo i filari delle viti, dove già qualche foglia, rossa come il sangue, pareva una ferita aperta, una piaga di malaugurio. Finita la vendemmia, cadon le foglie; finita la gioventù, cade l’amore. Rimane il vino, ricordo dei grappoli; rimangono le opere, ricordo della vita; ma se i tralci rimettono le foglie a primavera, l’uomo di primavera ne ha una sola e non rimette mai più le prime illusioni e le speranze! Tristi pensieri che allora non avevamo nè io, nè le vendemmiatrici. Le quali cantavano i loro stornelli recando in capo i canestri pieni di grappoli dorati e reggendoli colle braccia nude, come canefore greche.”
Per ciascuno la vendemmia è il momento della raccolta, il frutto maturo, talora amaro, pessimistico  approdo che completa un percorso di vita, come in Baudelaire “Quando il nostro cuore ha fatto la sua vendemmia, vivere non è che male.“ Un fiore del male.

Al  contrario vigna, vendemmia, vino divengono simboli evocativi di sensualità,ebbrezza, amore nel Cantico dei Cantici,che si apre con il bacio inebriante che suggella l’incontro degli amanti nella cella del vino, la cantina dove conservare il succo prezioso ma anche complice  capanno ombroso tra le vigne nell’epoca della vendemmia” Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo   vessillo   su   di   me   è   amore. Sostenetemi   con   focacce   d’uva   passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d’amore”.

Analoga atmosfera di sensualità e amore per la vita nelle prose e nei versi del poeta e filosofo libanese Khalil Gibran nel Canto della notte “Quando, in autunno, raccoglierete l’uva dalle vigne per il torchio, dite in cuor vostro: Anch’io sono una vigna, e i miei frutti saranno raccolti per il torchio, e come vino nuovo sarò tenuto in botti eterne. E in inverno, quando spillerete il vino, fate che vi sia in voi un canto per ogni coppa; e nel canto vi sia memoria dei giorni d’autunno, della vigna e del torchio

Essere una vigna carica di frutti, spillare da se stessi il vino della propria esistenza, dedicare tempo per  accogliere l’amore, così prosegue l’autore:
Vieni, figlia dei campi, / e insieme andremo / tra i vigneti, / dove gli amanti s’incontrano. / Giacché può darsi / che lì anche noi calmeremo / con la buona vendemmia d’amore / la sete del nostro desiderio
Sono proprio le immagini dei mistici, degli animi più spirituali che riterremmo le più distaccate dai moti della vita terrena che descrivono sinesteticamente un  profluvio di sensazioni: tutti i sensi coinvolti.

Vendemmia infine come sazietà, pienezza, successo, accrescimento materiale, come fase dell’anima che si gratifica in sé dopo un lavoro ben fatto, come giusto riconoscimento, raccolta delle esperienze della propria vita: vendemmiare giorni e stagioni come frutti quotidiani da gustare e spolpare, finchè si potrà, ricordando che non si vendemmia da soli.

Maria Luisa Alberico