Il 10 giugno di ottanta anni fa Mussolini, con un celebre discorso dichiarò guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, trascinando l’Italia in un conflitto che sconvolgerà il Paese, ne comprometterà la sovranità e determinerà la fine del fascismo e della sua stessa vita.
Aver dichiarato una guerra fa di lui un guerrafondaio? Il dizionario Treccani definisce guerrafondaio colui che è «accanito fautore della guerra ad ogni costo». Non è un caso che la Costituzione all’articolo 11 dice che «l’Italia ripudia la Guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». La Costituzione venne scritta a posteriori proprio per evitare il ripetersi di situazioni di questo tipo.
Guerrafondaio è quindi qualcuno che utilizza lo strumento militare per raggiungere risultati prestabiliti, in genere di espansione territoriale. Per farlo deve essere ragionevolmente sicuro di vincere, quindi si prepara adeguatamente. Possiamo paragonarlo a chi, premeditando un omicidio, lo prepara nei minimi dettagli, si costruisce un alibi, fa sparire il corpo e l’arma, magari costruisce un depistaggio per incastrare un altro. Per contro, molti diventano assassini per un gesto impulsivo o di rabbia, la differenza con chi premedita si evince dalla preparazione.
Analizziamo quindi come Mussolini è arrivato a questa decisione, come ha preparato l’esercito a questo appuntamento. Dopo oltre quindici anni di fascismo e di ininterrotta retorica militarista, ben poco era stato portato avanti in termini di investimenti militari e nulla in quanto ad aggressioni verso paesi terzi. Tant’è che la diplomazia inglese, in un primo tempo turbata dalla potenzialità destabilizzante di un regime aggressivo nel Mediterraneo, si era ben presto tranquillizzata ed aveva accolto l’Italia fascista nel novero delle potenze con cui dialogare. Anzi è proprio Mussolini ad indossare la veste del pacificatore europeo che tiene a bada l’insorgenza della Germania nazista. Non dobbiamo dimenticare la difesa dell’Austria contro il primo tentativo di Anschluss da parte tedesca, sventato con l’invio di divisioni italiane al Brennero o la conferenza di Stresa nell’aprile del 1935. Questa situazione si compromette con la campagna di Etiopia; è ancora oggetto di interpretazione se gli inglesi siano solo gelidi o apertamente ostili all’Italia. Vero è che impongono sanzioni, ma sono tutto sommato blande ed inefficaci, è più un salvare la faccia di fronte ad un’espansione africana che non hanno saputo impedire che non una rottura con l’Italia. L’effetto sarà però avvicinare il dittatore ad Hitler. Mussolini veste ancora la parte del pacificatore alla conferenza di Monaco nel settembre 1938, ma la sua presenza è di facciata, non determinante. Le decisioni le prende Hitler a proprio vantaggio, i plenipotenziari fanno ritorno in patria accolti da folle esultanti per la guerra scongiurata, ma si rivela ben presto che sono solo comprimari. All’annessione dei Sudeti segue quella dell’intera Cecoslovacchia marzo 1939. A maggio Mussolini accetta di firmare il Patto d’Acciaio, con la prospettiva di una guerra non prima di quattro o cinque anni, tempo in cui dovrebbe avvenire il riarmo e la preparazione italiana. È ormai chiaro a tutti, invece, che la Germania sta accelerando la propria politica aggressiva e che il prossimo obiettivo sarà la Polonia.
Nell’estate del 1939 si moltiplicano le iniziative diplomatiche: Parigi e Londra si alleano con Varsavia e corteggiano Mosca. Se Hitler ha avuto Vienna e Praga senza combattere, adesso dovrà farlo. Stalin però sa di non essere pronto ad una guerra di cui avrebbe l’onere maggiore, né è disposto a farsene carico per salvare l’Occidente democratico. Il patto Ribbentrop-Molotov è siglato il 23 agosto 1939, siamo all’ultima ora. A questo punto Mussolini e Ciano capiscono che la guerra è imminente, che i tedeschi non li avvertiranno e che l’Italia non è pronta. Sono passati quattro mesi, non quattro anni. Devono trovare un modo di sfilarsi e non è semplice: combattere è escluso, ma è esclusa anche la neutralità, perché violerebbe il Patto d’Acciaio, rompendo l’alleanza. L’uovo di Colombo è trovato nella formula della «non belligeranza». L’Italia è alleata di una parte in guerra, ma non combattente. Novità giuridica che sancisce l’ipocrisia assoluta dello «armiamoci e partite». Agli Alleati sta bene perché è un problema in meno, anche se considerato un problema di poco conto. Per convincere I tedeschi, Mussolini e Ciano lamentano l’impreparazione, i tempi troppo stretti e stilano una «lista della spesa». L’Italia può partecipare alla guerra, se l’alleato è disposto a fornire ingenti quantità di materie prime, attrezzature industriali, batterie contraeree, etc. La lista è volutamente esorbitante, se anche i tedeschi avessero elargito queste risorse, privandosene, non ci sarebbero stati abbastanza treni per portarle o fabbriche per lavorarle. Alla richiesta sui termini di consegna, viene risposto «ci serve tutto subito», al che non resta che accettare la non partecipazione dell’Italia al conflitto; ma è qui che nascono i sospetti di tradimento come nel 1914 e, quando il distacco di concretizzerà nel 1943, la reazione sarà spietata.
La guerra inizia e Mussolini riesce a sfilarsene, stando alla finestra a guardare. In settembre cade la Polonia, spartita con l’URSS, poi la Danimarca 9 aprile, quindi è invasa la Norvegia che cade il 10 giugno. A maggio inizia il Fall Gelb, la Wehrmacht entra in Francia a Sedan il 13, l’Olanda si arrende il 17, i tedeschi raggiungono la Manica il 20, il Belgio cade il 28, il 4 giugno è terminata l’evacuazione del corpo di spedizione inglese a Dunkerque, la Wehrmacht entrerà a Parigi il 14 giugno. Mussolini si sente come chi osserva un’azione in borsa ma è timoroso ad acquistarla, poi ne vede salire la quotazione e freme per il mancato guadagno che gli scivola, come sabbia, tra le dita. Siamo agli sgoccioli, la Francia sta cadendo, lui ha «bisogno di un certo numero di morti per sedersi al tavolo della pace». Date l’impreparazione e l’improvvisazione, sulle alpi di morti ce ne sono anche troppi, si conquista Mentone e si iniziano le trattative. In genere, i trattati di pace sanciscono, in termini territoriali, la situazione sul campo. Mussolini ha richieste esorbitanti, vuole l’occupazione della valle del Rodano, incluse Tolone e Marsiglia, disarmo di Corsica Tunisia e Gibuti, trattando il tutto allo stesso tavolo di Hitler. I francesi chiedono di arrendersi ai tedeschi, ma di continuare la guerra contro l’Italia. Sarà Hitler a mediare: I tavoli rimangono separati, ma la resa a lui è subordinata all’accordo con l’Italia, Mussolini però dovrà accontentarsi di Mentone e di una zona smilitarizzata di cinquanta miglia. La marina sarà attaccata dagli inglesi ad Mers el Kebir. La tardiva scommessa non ha quindi pagato, ma il vero azzardo è considerare conclusa la guerra con gli inglesi: mai essi avrebbero accettato uno stato unitario sul continente che ne avrebbe minato il predominio globale. Lo avrebbero combattuto fino alla morte, come gli Asburgo, i Borbone, Napoleone o Guglielmo II.
Se la verità era un mosaico raffigurante l’arcobaleno, caduto al suolo in mille frammenti, sarebbe un grave errore per lo storico considerare solo quelli rossi, trascurando gli altri, per giungere alla conclusione che la parete era tutta rossa.
La pagina della non belligeranza, per quanto superata da decisioni successive, non può essere trascurata ed è la chiave di lettura dell’atteggiamento di Mussolini. Non fu un guerrafondaio come Hitler che la guerra la preparò meticolosamente, ma un mero opportunista. Il che non vuol essere un complimento e men che meno una giustificazione. Possiamo al massimo concedergli un’attenuante perché non fu il primo a dichiarare una guerra non voluta dagli italiani, per sedersi al tavolo della pace, lo fece Cavour nel 1853, mandando La Marmora in Crimea, fra le ire di Mazzini. La scommessa di Cavour fu però limitata al solo corpo di spedizione, lontano dal territorio nazionale, a contrastare l’espansionismo russo per l’indipendenza europea, in nome delle libertà occidentali. Soprattutto fu una scommessa vinta ed il premio fu portare le istanze italiane a Plombieres e da lì costruire l’unità d’Italia. Non soddisfare voraci, quanto indebiti, appetiti territoriali.