Lei slanciata e flessuosa, ombrosa e affascinante, i tratti un po’ maschili illuminati dai profondi occhi neri, vestita alla moda parigina che esaltava la linea a “S” tanto cara al gusto Liberty; lui elegante, poco incline al sorriso, lo sguardo glauco dietro ai pince-nez, così distinto che- parola di Carola Prosperi, sua grande amica-, “sulle sue labbra perfino il dialetto aveva un suono aristocratico”: Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano, giovani e ammirati protagonisti della Torino letteraria di inizio Novecento, avrebbero davvero potuto comporre una coppia straordinaria, se il loro amore, come si evince dal loro epistolario, non fosse stato più letterario che vissuto; così impari e contraddittorio da subire numerosi screzi e interruzioni. II terreno sul quale i due si muovevano era friabile. Amalia, emancipata e vitale, si poneva al centro del rapporto come parte attiva, desiderosa com’era di un amore appassionato; lui, prima attratto e poi riluttante, invocava invece un rapporto spirituale e intellettuale per scongiurare le miserie dei “piccoli amanti”, e si trincerava dietro una cortina di dilazioni e fughe, trattenuto com’era dalla barriera della malattia, ma anche dall’ambizione a salvaguardia della vocazione letteraria. L’ultimo libro di Marina Rota, giornalista e scrittrice, appassionata studiosa dei due poeti- Amalia Guglielminetti- L’amore in versi con Guido Gozzano, ed. Pedrini- si ispira proprio alle Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, pubblicate nel 1951 da Garzanti con prefazione e note di Spartaco Asciamprener: un epistolario prolungatosi dal 1907 al 1912, che rappresenta non solo la preziosa testimonianza di tutte le sfumature della liaison fra i due poeti, ma anche un affresco affascinante di una Torino Liberty in pieno fermento culturale, percorsa dalle carrozze a cavallo e dai tramway, ancora immalinconita da certe nostalgie (ah, l’occasione perduta di essere capitale….) e sedotta dalle prime innovazioni industriali. Con un’operazione raffinata, quanto rigorosa, Marina Rota ha tramutato i dodici snodi fondamentali della storia d’amore in altrettanti sonetti, non solo con rigoroso rispetto della metrica dei sonetti gozzaniani, ma anche con una profonda immedesimazione nelle anime tormentate di Guido e Amalia: un vero e proprio transfert da ‘medium’ in grado di richiamarli in vita e di ridare loro voce, come sottolinea Vittorio Sgarbi nella sua folgorante prefazione che merita di essere citata:
Questo romanzo ‘lirico’, introdotto da un approfondito saggio dell’autrice sulla figura della Guglielminetti, dal titolo emblematico Mi foggiò la natura in una creta indocile, prende le mosse dal primo incontro fra i due poeti alla Società di Cultura, meritoria istituzione fondata a fine Ottocento da noti intellettuali, quali Cesare Lombroso, Zino Zini, Francesco Pastonchi, Gustavo Balsamo Crivelli, l’illustratore ‘Golia’, Enrico Thovez, Massimo Bontempelli: due stanze colme di libri e di riviste, anche straniere, frequentate dalla migliore intellighenzia dell’epoca. Fra “la bella donna, occhi grandi e neri e una grande bocca; tipo sensualissimo, tipo anche di donna molto intelligente” (secondo la testimonianza di Salvator Gotta) e il biondo poeta delle rose non colte, che si sentiva già vecchio a venticinque anni e considerava con orrore la vaga possibilità di raggiungere la quarantina, “l’età cupa dei vinti”, scoccò la scintilla. Era il 1907: Guido aveva appena pubblicato La via del rifugio da Streglio, a spese della madre, mentre la poetessa si affacciava sulla scena letteraria, trionfante, audace e irridente, all’ombra di un immenso cappello piumato, orgogliosa del successo conseguito con la pubblicazione della sua seconda raccolta poetica, Le vergini folli, e dell’ammirazione dei recensori più severi, quali Borgese e Mantovani, che, in un mondo letterario avido i paragoni, l’avevano avvicinata a Saffo e a Gaspara Stampa.
Per scalfire con la scrittura l’egemonia maschile dei tempi, che si difendeva compatta dalla concorrenza del ‘gaietto sciame’ femminile con l’ironia, spesso denigratoria, alla quale ricorse anche “ la banda Gozzano” nei confronti della Guglielminetti (“Detestabili le donne che scrivono: se scrivono male ci irritano, se scrivono bene ci umiliano…”), non occorreva solo uno straordinario talento, ma anche una forte personalità, della quale, come si legge nel saggio introduttivo del libro, Amalia aveva dato ampia prova fin dai tempi dell’infanzia: una tempra che le aveva permesso di contravvenire all’alfabeto sociale dei suoi tempi ignorando i forti condizionamenti che assoggettavano inevitabilmente le giovani al buon matrimonio, principale oggetto di preoccupazione nelle famiglie borghesi; di portare a termine con successo gli studi classici cui l’aveva avviata il nonno industriale, terribile patriarca, consentendole così di entrare nella ristretta schiera di donne che potevano dedicare il loro tempo alla lettura e alla scrittura; di rendersi indipendente economicamente già a vent’anni con i suoi articoli sulla Gazzetta del Popolo (ammirazione suscitò la sua ode Al giglio sabaudo, dedicato alla nascita della principessa Jolanda di Savoia) e di conquistare infine un suo spazio ben definito nelle belle lettere italiane. Il 1907 fu anche l’anno in cui venne diagnosticata a Gozzano la malattia polmonare che lo costrinse per tutta la sua breve vita a ricercare ‘cieli più tersi’; sulla Riviera Ligure, ad Albaro, ricevette la copia delle Vergini folli inviatagli dalla poetessa. Nella sua prima lettera, di otto pagine, ad Amalia, Guido esaltava i suoi versi, ma le rivolgeva anche complimenti sensuali sulla sua bellezza, che lo aveva tanto colpito alla Società di Cultura: la bocca fresca, i capelli corvini, gli occhi di dolcezza servile; la nuca delicata ( “il morso- le confessa- è il mio vizio preferito”), definendo poi “allontananti”, proprio queste sue qualità attrattive. Un ossimoro emblematico, profondamente analizzato nel libro, destinato a caratterizzare tutta la loro relazione: più il poeta era affascinato dalla sensualità di Amalia, più se ne allontanava; più lei si accostava all’abisso della passione in cui avrebbe voluto tuffarsi, più Guido se ne ritraeva intimorito. Fino ad arrivare all’addio: nel marzo del 1908 le scriveva, dopo un incontro passionale: “Perdonami! Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai” .
Nelle pagine di questo libro, illustrato dalle bellissime tavole di Fulvio Leoncini, scorrono i tormenti dei due poeti, le fughe di Guido alternate alle sue fiammate di desiderio; il dolore per le occasioni perdute; l’amarezza di essere relegata, lei, così vitale e appassionata, nel vasto terreno delle rose non colte, con le sorelle letterarie Felicita, Carlotta, Cocotte; la disperazione per la morte del “buon compagno” che la madre di lui le impedì di salutare per l’ultima volta… E pare di entrare nel salotto di Amalia, dove la poetessa accoglieva gli ospiti sprofondata nei cuscini di velluto, per poi ergersi, fra mobili scuri, paralumi di pizzo e splendide orchidee, avvolta in lunghe tuniche avvolgenti, alta e ieratica.
Amalia Guglielminetti non riuscì, se non negli anni della giovinezza, a fare della sua vita un’opera d’arte, come riuscì a d’Annunzio, suo modello esistenziale e poetico, e suo prestigioso estimatore (“l‘unica vera poetessa che abbia oggi l’Italia”, la definì il Vate). Dopo la morte di Guido Gozzano non scriverà neppure più un verso, dedicandosi invece, con minor successo, ai romanzi in odore di scandalo, alle novelle, alle fiabe, e, prima donna in Italia, alla direzione di una rivista. La relazione burrascosa con Pitigrilli la condurrà in un’aula di Tribunale, e quindi alle case di cura, in una triste decadenza umana e letteraria. Meglio conservare di lei, poetessa avvolta nell’oblio da troppi anni, l’immagine che emerge dalle pagine di questo bel libro: immaginarla entrare, con la sua figura da Boldini e la sua scia di ammiratori, nella Tipografia Argentografica o da “Baratti e Milano”, ipnotizzando tutti i presenti con la sua comparsa da “dea” naturalmente elegante e eccentrica, o ammirarla nello splendido ritratto dedicatole da Mario Reviglione nel 1912, come protagonista coraggiosa e anticonvenzionale della scena poetica e di ‘un bel romanzo che non fu vissuto’.
Dal bel libro di Marina Rota emerge un fatto importante :a 140 anni dalla nascita la figura di Gozzano appare in tutta la sua importanza poetica che già Montale aveva visto e compreso e che va oltre il Crepuscolarismo.. E appare come figura secondaria l’ammaliante Amalia, destinata al declino e all’obblio. Vale più che mai il giudizio di un gozzaniano elegante come Franco Antonicelli che definì Guido “un piccolo classico”.