La notte fra il 3 e il 4 agosto 1849, Anita Garibaldi muore nella fattoria Guiccioli nella pineta di Ravenna. Era di sabato la sera quando Anita arrivò alla fattoria, reduce da una fuga devastante, già ammalata a fine luglio a San Marino, eppure decisa a seguire il compagno di avventura e di gloria, incontrato e sposato nelle lontane Americhe. La vicenda di Anita Garibaldi è entrata fin da quelle ore nella leggenda della nazione. Con la compagna di Giuseppe Garibaldi il ruolo della donna tradizionalmente concepito si è rovesciato, anzi si è esaltato. L’amore appassionato per il marito, spinto sino all’estremo sacrificio, l’ha indotta a lasciare le sicure e amiche mura domestiche per svolgere nelle condizioni più impossibili il ruolo di moglie, di madre, di compagna devota e fedele nella vita e nella morte. “Non appena ella fu tra le braccia del suo eroe”, scriverà Giuseppe Guerzoni, “s’incarnò con esso e, come Giovanna d’Arco, da fanciulla casalinga e romita, si trasformò per lui in ammirazione ed eroina. “Per trovarsi costantemente al suo fianco”, continua Guerzoni, qualunque fosse la circostanza e il pericolo, pronta a fare scudo con il suo corpo nelle battaglie, a medicarlo nelle ferite, a premiarlo del suo amore nelle vittorie. Per amore del suo uomo Anita imparò a trattare il moschetto come un cacciatore, a manipolare una vela e a sfidare un fortunale come un marinaio, a cavalcare nelle marce, a caricare nelle mischie come un cavaliere, a durare nelle vigilie come un veterano, a dissimulare le necessità, a domare talvolta il tormento del suo corpo di donna e del suo seno di madre per tornare più utile e più cara all’uomo che adorava. È l’immagine della donna intrepida che ha alimentato in Italia, in Brasile e nel mondo, storie e leggende. Dieci anni nella leggenda. A cominciare dal primo incontro, dall’amore immediato e irresistibile che li travolse. Un incontro avvenuto nel 1839, nell’isola di santa Catharina, alta, un po’ dura, con seni forti e turgidi, con faccia ovale coperta da efelidi, grandi occhi a mandorla, una folta chioma nera e fluente, Anita non esitò un solo istante a lasciare il marito calzolaio, Manuel Duarte, per seguire il suo eroe. Quando l’eroe prende la via dell’Italia, Anita lo segue con i piccoli, Menotti, Ricciotti e Teresita. Invano il generale tenta di tenerla lontana dai pericoli della mischia, inducendola a vivere con la madre, nella sua Nizza. Alla serenità e alla quiete domestica Anita preferisce il ruolo di Amazzone o Valchiria. Si batte a San Pancrazio, partecipa in prima linea all’eroica difesa della città della Repubblica fino a l’ultima avventura, quella della ritirata a partire dal 2 luglio, alla volta di Venezia.

“Io offro a chi

mi vuol seguire fame sete fatiche

combattimenti e morte”.

Anita muore verso le quattro di sera del 4 agosto del 1849.

“Io la seguia — non conscio della vita –

Lei sorreggendo all’ospitai dimora.

Corcata — il pugno mi stringea… di ghiaccio

Se fé la man della mia donna! – e l’alma

S’involava all’Eterno!”.

Così Garibaldi evoca con questi versi ingenui e toccanti gli ultimi momenti della vita di Anita. Si concludeva così l’esistenza di Anita Ribeiro Garibaldi che sicuramente può essere considerata la figura femminile più drammatica e più poetica del Risorgimento italiano.