C’è un sondaggio realizzato negli USA su ciò che potremmo chiamare la spinta (o la reticenza) della gente ad esprimere le proprie opinioni politiche. Ne riferisce (Corriere della Sera, 13 agosto) Danilo Taino, il competentissimo “Statistics Editor” del suo giornale. Tirando le somme con le parole di Taino, “il 62% dei cittadini USA si autocensura spesso quando parla di politica. Teme di offendere ma ha anche paura delle conseguenze sul lavoro delle proprie idee”. Per me è in sintonia con una percezione natami da molti indizi: penso infatti che qualcosa del genere abbia preso piede anche in Italia. Sembra che la fine della guerra fredda abbia “spostato” certe polemiche e nello stesso tempo le abbia inasprite. Ma il sondaggio dice di più. Quella necessità di autocensura è sentita dal 52% dei “liberal” (termine che in USA, come si sa, vale pressappoco come “progressista”) e dal 77% dei conservatori. Una bella differenza, e penso che da noi quella differenza (77 a 52) sarebbe ancora maggiore. Questo dato (tutto tranne che inatteso) mi ha risvegliato una riflessione che coltivo da tempo e che può esprimersi con una domanda: come e quando è nato il principio, molto affermato popolarmente a livello sia conscio, sia inconscio, che “sinistra è buono” e “destra è cattivo”? Da noi non esisteva al tempo di Minghetti, e nemmeno a quello di Giolitti (a parte il dannunziano “vado verso la vita”). La mia impressione – ma non sono uno storico! – è che sia nato, anni 30, nella Francia del Fronte Popolare, quando gli intellettuali andavano in pellegrinaggio a Mosca, e che sia stato da noi tardivamente importato nell’Italia post-fascista per poi approdare al successo mediatico. In fondo, ad importare dalla Francia, siamo avvezzi: penso al pensiero illuministico! Al “Maggio Francese”! Va detto che in Francia le cose si sono evolute: dopo Léon Blum hanno avuto, tra l’altro, De Gaulle, che dire conservatore è dire poco (gli dava del “Voi” persino suo moglie), e che agli studenti del 1968 seppe dire “basta chienlit” (espressione militare rozza, ma efficace, di solito resa con “basta pagliacciate”). Questo Zeitgeist ha impreviste ricadute, una delle quali cito con riluttanza, in quanto (amici, non sparate sul pianista) riguarda proprio Pannunzio magazine. Voilà: il periodico è ricco di stimolanti contenuti che si presterebbero ad animare una discussione, ma al piede del titolo sempre la scritta compare implacabile: “zero commenti”. Spiegazione? C’è quella inverosimile: che i contributori siano così solipsisti da ignorare gli scritti altrui, e che i lettori non-contributori non abbiano nulla da dire. Ma vengo a quella più convincente: si entra malvolentieri in una discussione, col rischio di toccare qualche tabù, in un paese del quale il declino ha avvelenato l’atmosfera. Un declino che non data certo dall’avvento del covid-19. E un paese “di cattivo umore”. Sarà così?
Ultima spiegazione: la tradizionale riservatezza sabauda….