In Cile l’amministrazione statunitense giocò un ruolo sostanziale. Non solo nel triennio ma, ancor prima, si adoperò per impedire che Allende potesse vincere le elezioni. Andiamo in ordine cronologico. Dapprima con il progetto Track I (ossia al livello della diplomazia ufficiale) si cercò di fare leva sul presidente uscente Eduardo Frei Montalva (Dc) a che impedisse l’elezione. Fallito questo tentativo, si intraprese il Track II o Progetto Fubelt.

Il primo ostacolo da rimuovere era il comandante in capo dell’Esercito, generale René Schneider, il quale contrariamente alle preoccupazioni della classe militare, aveva dichiarato che non avrebbe interferito sull’elezione di Allende. Il piano prevedeva a) rapimento del generale, b) trasporto segreto in Argentina, c) incolpando dell’accaduto ambienti vicini ad Allende; d) sua sostituzione con un sostenitore del colpo di Stato, e) imposizione della legge marziale in tutto il Paese, f) controlli a tappeto e arresti nei quartieri delle periferie, g) dichiarazione di nullità delle elezioni.

Il piano fallì: quando il 22 ottobre 1970 attuarono il tentativo di sequestro bloccando l’auto in una via di Santiago, ci fu una sparatoria e il generale, gravemente ferito, morì pochi giorni dopo in un ospedale militare. Ne seguì un’indignazione generale che aumentò viepiù le simpatie per la sinistra e contribuì a determinare il Congresso (che ricordiamo doveva scegliere fra i due candidati più eletti, nessuno avendo riscosso la maggioranza assoluta) a eleggere Allende (3 novembre). Si adottò allora il Memorandum 93, che sostituì Fubelt. Era il “Programma di operazioni segrete per il Cile”: una serie di tattiche di guerra politica e psicologica volte a promuovere opposizione nei confronti di Allende.

Possiamo riassumere il “Programma” in cinque punti: 1) azione politica per dividere e indebolire la coalizione di Allende; 2) mantenere e ampliare i contatti con le forze armate cilene; 3) fornire sostegno a gruppi e partiti politici non marxisti di opposizione; 4) assistenza ai mezzi di comunicazione critici verso il governo Allende, anche con sostegno economico; 5) attraverso tali media mettere in risalto gli elementi eversivi e totalitari di Unidad Popular e il coinvolgimento di Cuba e dell’Unione Sovietica in Cile. Inoltre fu intrapresa un’azione diplomatica Usa in prima persona per l’espulsione del Cile dall’Organizzazione degli Stati Americani.

Siccome questo nostro appuntamento mensile con il Cile è all’insegna degli anniversari, rendiamo omaggio ad un altro anniversario. Nel 2020, cinquantesimo anniversario della salita al potere di Salvador Allende, l’amministrazione degli Stati Uniti ha desecretato verbali di delicatissime riunioni e informali dialoghi; sul Cile già erano emersi elementi con le declassificazioni del 1975, 1998, 2008. Da tutti questi documenti emerge il dibattito all’interno dell’Amministrazione.

Il Dipartimento di Stato, con al vertice il Segretario di Stato William Rogers propendeva per la “Strategia del modus vivendi”, ossia appoggio ai partiti dell’Opposizione, in vista delle elezioni che si sarebbero tenute nel 1976. Di parere opposto era Henry Kissinger (allora consigliere per la Sicurezza nazionale) e con lui il direttore della C.i.a. Richard Helms. Dalle conversazioni di ottobre: Rogers a Kissinger «Sono d’ accordo con il presidente, dobbiamo cercare di fare pressioni per un risultato diverso [che la Dc votasse Alessandri e non Allende] ma dobbiamo farlo con molta discrezione, evitare che si trasformi in un boomerang». Kissinger: «L’ unico dubbio è l’ esatta definizione di boomerang».

In mezzo c’è il presidente, inizialmente incerto: «Evitiamo che venga pubblicato quel grosso articolo sul fatto che stiamo cercando di abbattere il governo. Cerchiamo di capire prima quante possibilità ci sono di fermare l’ elezione di Allende». Nessuno dell’Amministrazione a Washington D.C. si fida dell’ambasciatore a Santiago Korry, un democratico, l’ha messo Kennedy.

Kissinger giunge a posticipare la riunione del National Security Council per potersi meglio “lavorare” il presidente. E gli parla a quattrocchi: «Il Cile finirà per essere il peggior disastro della nostra amministrazione, sarà la nostra Cuba del 1972. (…) Nell’arco di sei mesi – un anno gli effetti di questa svolta marxista andranno oltre le relazioni tra Usa e Cile. (…) l’impatto che avrà in altre parti del mondo, specialmente in Italia. La propagazione emulativa di fenomeni simili in altri luoghi a sua volta colpirà in modo significativo l’equilibrio mondiale e la nostra stessa sfera di influenza».

La fatidica riunione si svolse il sei novembre. Segretario di Stato William Rogers «Possiamo debilitarlo, in caso, senza essere controproducenti». Segretario alla Difesa Melvin Laird, meno moderato: «Dobbiamo fare di tutto per danneggiarlo e poi farlo crollare». Il direttore della Cia, Richard Helms, per suffragare una condotta più aggressiva mostra un documento in cui si vede che Allende ha vinto di stretta misura e che il suo gabinetto è formato da “militanti della linea dura”, dove emergerebbe «la determinazione dei socialisti di affermare sin dal principio la loro politica più radicale ».

Alla fine il presidente decise con la seguente frase: «Se c’è un modo di rovesciare Allende, è meglio farlo». La C.i.a. agì.

Il grado di intervento degli Usa in Cile è espresso nella lucida (fino al cinismo) sintesi di Kissinger, cinque giorni dopo il golpe: il 16 settembre 1973, Nixon chiede a Kissinger: «La nostra mano è rimasta nascosta?». Kissinger: «Non abbiamo fatto noi il golpe. Li abbiamo aiutati. Abbiamo creato le migliori condizioni possibili. Fossimo ancora ai tempi di Eisenhower saremmo considerati due eroi».

Questi sono i fatti. Poi ognuno può trarre riflessioni diverse: chi trova la conferma di una inescusabile ingerenza nordamericana; chi, consapevole del disegno di esportazione delle rivoluzioni marxiste (conferenza di Algeri 1965, conferenza Tricontinentale de l’Avana 1966 e fondazione della OSPAAAL), disegno finanziato da Urss e agito da Cuba, vede l’intromissione Usa come seconda. Non c’è spazio qui, il discorso dovrà essere ripreso.

Da Washington D.C. ora scendiamo nuovamente a Santiago.

Immaginiamo la visita di un capo di Stato estero, immaginiamo che Xi Jin Ping venga in Italia. Riceve onori e insperati segni di interesse: il presidente della Conferenza episcopale lo va ad accogliere all’aeroporto. La visita si prolunga: Xi, che doveva rimanere dieci giorni (soggiorno invero già lungo) si ferma in Italia per quasi un mese. E non è visita privata ai lampadari di Murano o agli scavi di Pompei: accompagnato da 45 persone incontra gruppi e partiti politici. Il nostro presidente della Repubblica, quando lo accompagna quasi è figura seconda, rispetto alla popolarità e simpatia che avvolge il leader ospite: ruba tutta la scena.

Questa è stata la venuta di Fidel Castro in Cile: dal 10 novembre al 4 dicembre 1971; percorrendo il lungo paese da punta a punta, nove città, visite, ispezioni, venti riunioni politiche con “incendiarie esortazioni” fra le quali, il 30 novembre, quella ai 140 preti dei Cristiani per il socialismo. Scrive padre Bartolomeo Sorge sj nella sua puntuale, disincantata critica Le scelte e le tesi dei “Cristiani per il Socialismo”(1974): «Da un punto di vista psicologico nella storia del Movimento fu importante l’incontro che il Segretariato organizzò [per] Fidel Castro. Questo incontro memorabile ebbe pure un seguito concreto: il leader cubano invitò 12 sacerdoti cileni a Cuba (…)

Al termine della loro esperienza cubana i preti rilasciarono una dichiarazione largamente diffusa che suscitò un certo scalpore. In essa già prendono corpo le tesi fondamentali del Movimento: la denuncia del capitalismo come fonte di tutti i mali dell’America Latina; la necessità storica del socialismo; l’obbligo morale per i cristiani di lottare insieme con i marxisti per la liberazione dalla violenza istituzionalizzata».

Insomma, il Comandante en Jefe venne ad instaurare col popolo cileno un rapporto diretto e di lunga durata. E di Allende, quando era presente, si coglieva la difficoltà a controllare la situazione, a comunicare d’esser veramente lui il capo dello Stato.

Tre mesi dopo da Cuba giungono 28 casse, su un aereo (Cubana de Aviaciòn), dove viaggiava anche il direttore dei Servizi di Intelligence cileni Eduardo Paredes. Nonostante le dimensioni e il peso considerevole non passano per i controlli di dogana e vanno direttamente a una delle residenze del presidente, via Tommaso Moro. Per diversi mesi si vocifera, perché non è dato sapere con certezza. Sono regali di Fidel Castro. Membri del governo parlano di bevande. Un giornale governativo scrive che siano liquori, generi alimentari, sigari e oggetti di artigianato popolare. Un giornale del P.c. parla di camicette e sigari, mentre quello del P. s. dice essere quadri per una esposizione di pittura cubana. Fintanto che in una conferenza stampa (9 giugno 1972) la presidenza comunica che si tratta di «corpi umani montabili e smontabili, in materiale plastico, per studenti di medicina».

A prescindere che successivamente emerse (trovando il materiale e pure la lista dell’inventario) che trattavasi di armi e neppure troppo leggere (mitragliatrici, lanciarazzi, granate …), è l’opaco e insano rapporto di una parte dello Stato con un paese estero, l’elemento di preoccupazione.

Il Parlamento, critico verso tale operazione, nell’ottobre successivo fece una legge dove si proibiva di «importare, trasportare, introdurre armi nel Paese (art.4)». Di più: la nuova legge (art.8) sanzionava coloro che «organizzano, finanziano, introducono o incitano la creazione o il funzionamento di milizie private, gruppi di combattimento o partiti politici organizzati militarmente». Era il formale riconoscimento della esistenza nel paese di gruppi guerriglieri che operavano al di fuori della legge. (E in un articolo dei mesi prossimi dovremo parlare anche delle formazioni paramilitari e estrema destra).

Caratterizzato da opacità era pure il GAP, Gruppo degli Amici Personali (del presidente). Esautorando completamente la Guardia preposta dallo Stato era stato implementato un corpo di duecento quadri armati. Non solo era illegale la cosa in sé, ma è la composizione di esso a suscitare legittimi dubbi sulla effettiva indipendenza e libertà d’azione del presidente del Cile e sulla effettiva sovranità nazionale del paese. Ci dice Dariel Alarcòn, Benigno (uno dei cinque compagni del Che sopravissuti nell’impresa boliviana) nelle sue Memorias de un soldado cubano che «parte di questo GAP era composto di cubani (…) come anche in altri apparati (…) in Cile chi comandava erano praticamente i cubani».

Esagera Benigno? Il ruolo della NKVD sovietica nel governo della Repubblica spagnola almeno dal 1936 al ‘39 o la presenza di cubani nei ministeri strategici della odierna Repubblica Bolivariana di Venezuela (ma anche il rapporto di quasi vassallaggio dei partigiani albanesi o di quelli italiani in Friuli verso la Resistenza jugoslava) ci danno conferma di come questa cessione di sovranità non sia contingente o transitoria ma sistematica e coerente con una certa concezione dell’internazionalismo. Questo a prescindere dagli equilibri interni cileni dove, si sa, la leadership di Allende era molto insidiata – soprattutto nell’ultimo periodo – dalla dirigenza del Partito socialista stesso.

(3 – continua. I precedenti pubblicati il 28/2 e il 22/3)