La buona comunicazione per diffondere la cultura della sicurezza nelle imprese. Intervista ad Andrea Maffei

La legislazione italiana in materia antinfortunistica é molto avanzata, ma sono ancora troppi gli infortuni sul lavoro dovuti a violazioni di regole e buone pratiche di sicurezza.  In base ai dati INAIL nel 2022 sono stati denunciati 697.773 infortuni: il l’8% in più rispetto al 2019. Non è sufficiente avere buone leggi, se poi i risultati sono sconfortanti.

Ne parliamo con Andrea Maffei, che dirige l’azienda THARSOS, specializzata nella formazione aziendale, nella tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro e dell’ambiente.

Dal 2011, l’accordo Stato-Regioni, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ha reso obbligatorio un percorso formativo per tutti coloro che operano nel mondo del lavoro. Si tratta di un’iniziativa storica della Repubblica Italiana, che ha lo scopo di diffondere e consolidare la cultura della sicurezza su tutto il territorio nazionale. La portata di questa rivoluzione, per il mondo imprenditoriale, è paragonabile a ciò che fu l’introduzione della scuola dell’obbligo nel secolo scorso.

Cosa si intende per “cultura della sicurezza” nelle imprese? Il buon imprenditore deve avere un’ampia e consapevole conoscenza dei pericoli che i lavoratori potrebbero correre nello svolgimento delle loro attività professionali per poterli prevedere, prevenire e, quindi, evitare.   

Parliamo sia dei rischi tipici delle varie attività lavorative, sia di quelli rari? Sì, anche di rischi scarsamente probabili ma astrattamente prevedibili, che occorre sempre tener presenti per evitare incidenti sul lavoro. Ovviamente al di là del corretto e saggio comportamento del lavoratore. A questo, dunque, serve la doverosa formazione alla cultura antinfortunistica: a scongiurare conseguenze invalidanti o nefaste ai lavoratori e, al contempo, a garantire alla stessa impresa la migliore serenità nell’operare nel rispetto della sicurezza.  

Questo atteggiamento imprenditoriale è molto “esigente” e non ammette alternative né compromessi al ribasso. Salvi casi talmente eccezionali da essere imprevedibili, nel mondo del lavoro il ricorso al concetto di “fatalità” non deve esistere. Né deve trovare spazio la discrezionalità, ovviamente in buonafede, nell’attuare condotte potenzialmente pericolose. Non si deve far affidamento sull’esperienza tranquillizzante del passato: il “si è fatto sempre così ed è sempre andata bene” è un modo di pensare pericoloso. Chiaramente queste buone pratiche devono essere costantemente controllate ed aggiornate rispetto all’ evolversi della tecnologia nelle imprese ed al costante ampliamento delle normative. Certamente tutto ciò comporta costi, talvolta anche significativi, ma si tratta di investimenti imprescindibili. Del resto: o si fa impresa “bene” o non si fa. L’obiettivo è costruire e consolidare una vera e propria “cultura” della salute e della sicurezza sul posto di lavoro. Cioè una mentalità, un modo di pensare che sia il patrimonio di base che deve accomunare tutti i datori di lavoro e tutti i lavoratori. Significa occuparsi della sicurezza dei lavoratori, ma anche della sostenibilità ambientale della realtà economica che si va a costruire. Occorre fondamentalmente convincere tutti dell’indispensabilità della cultura della sicurezza, quale presupposto e garanzia di ogni attività lavorativa.

Stiamo parlando di un progetto che si snoda in un percorso? Sì, esattamente: “percorso” è la parola giusta. Trasmettiamo non soltanto un bagaglio di conoscenze di tipo astratto e, per così dire “statico” – come potrebbe essere, faccio l’esempio–   una biblioteca di volumi che illustrino la normativa da conoscere e da applicare.  Ma, piuttosto, intraprendiamo assieme un “viaggio di istruzione”, un procedere dinamico. Che, come ogni viaggio, comporta cambiamenti, si apre a innovazioni e a possibili evoluzioni.

Quali sono le caratteristiche di questo percorso? Non è preconfezionato e applicabile indistintamente ad ogni situazione. Parte da un progetto all’origine condiviso per linee e obiettivi, che poi si evolve e si adegua costantemente, tenendo conto dell’ambiente lavorativo ed al contempo dei destinatari della formazione: qual è la loro età media? Quali sono le loro attitudini e preferenze? Che estrazione sociale e culturale hanno? Quale è il modo migliore di interagire con loro? Attraverso queste analisi scegliamo gli strumenti comunicativi più adeguati a “far passare” i concetti che vogliamo trasmettere. Inoltre, il mondo del lavoro cambia ed evolve continuamente. Di conseguenza   gli strumenti della formazione devono stare al passo coi tempi, cercando di essere sempre più “seducenti” a livello di comunicazione e sempre più funzionali al raggiungimento dello scopo.

Immagino quindi che non siano più sufficienti le sole lezioni tradizionali in aula. Occorre tener conto della disponibilità e delle preferenze dei lavoratori per certi metodi di insegnamento. Nelle prime fasi della formazione lezioni frontali possono rivelarsi molto utili, ma è bene sempre arricchire il percorso formativo con metodologie più coinvolgenti, cercando di trasmettere informazioni anche attraverso le emozioni. La memoria, si sa, si fissa meglio e diventa ricordo che permane più a lungo quando l’insegnamento “passa” attraverso le emozioni. Chi di noi non ricorda qualcosa che ci venne insegnato a scuola, da bambini, attraverso piccoli esperimenti od eventi o rappresentazioni collettive che allora ci avevano appassionato, meravigliato o sorpreso? Per questo utilizziamo tecniche narrative dalle quali i discenti si sentiranno coinvolti, o utilizziamo, come strumenti didattici, anche giochi e performances. Gli “allievi” devono essere coprotagonisti attivi del processo di formazione. Così da portarlo avanti insieme, noi con loro, adattandolo in corso d’opera, ottimizzandolo attraverso le loro proposte e la loro collaborazione costruttiva.

Anche ai formatori è via via richiesto un costante aggiornamento delle competenze e dell’organizzazione del lavoro. Certo: tanto che la formazione viene messa a punto, procede e si perfeziona attraverso competenze sempre più variegate e trasversali. Un tempo, la formazione era prevalentemente affidata all’ingegnere, al tecnico specializzato, all’espertospecificamente preparato in determinati ambiti. Oggi invece si procede attraverso team di professionisti, esperti in campi diversi, dalla solida esperienza, impegnati nell’ aggiornamento continuo. Non è sufficiente sapere bene “cosa” comunicare, ma occorre anche lavorare sul “come” far passare il messaggio dell’indispensabilità della buona e costante attenzione alle problematiche della sicurezza. È importante strutturare metodologie capaci di sollecitare una vera e propria mentalità della sicurezza, che non dovrà mai mancare. Gli stimoli che avremo seminato diventeranno fruttiferi se avremo fatto una buona semina.

Come si passa, poi, dalla teoria alla pratica?  Attraverso percorsi esperienziali. Proponiamo dapprima immagini mentali su ciò che succederebbe se, ad esempio, viene messa in atto una certa cautela, e quello che invece succederebbe se non venisse attuata.Richiediamo ai lavoratori di confrontare paradigmi comportamentali corretti e modelli errati e ne evidenziamo le conseguenze. Lavoriamo, cioè, sullo svolgimento di fatti e sulla successiva analisi controfattuale, sempre stimolando la collaborazione attiva dei partecipanti.Che consigli dare ai datori di lavoro? Certamente quello di motivare costantemente i collaboratori a prestare sempre massima attenzione alla propria sicurezza, senza mai “abbassare la guardia”, adottando una mentalità esigente verso se stessi e verso gli altri. È molto importante anche confrontarsi con i collaboratori, ascoltarli e chiedere loro di segnalare eventuali pericoli. È fondamentale poi creare un forte coesione emotiva fra tutti i lavoratori dell’azienda, creando motivazioni comuni e abitudini virtuose che coinvolgano tutti. Del resto, trascorriamo con i collaboratori più tempo rispetto a quanto stiamo con i familiari: rendiamolo bello, questo tempo così prezios