Quella sera, il vento spazzava via le foglie gialle di due piante preziose, acacie e noccioli, travagliati dalla recente grandinata. Dalla finestra del vecchio edificio, una modesta fabbrica fallita e rilevata dal Comune per farne una sede della U.S.S.L.,(Unità Socio Sanitaria Locale, così si chiamava in quegli anni) la giovane dottoressa, appena rientrata dalla prima visita serale, guardava fuori. Stava seduta su una poltroncina in legno munita di braccioli vicino ad un piccolo divano, all’occorrenza ottimo per un breve relax in attesa delle richieste di visite urgenti. Di fronte a lei, sull’ampia scrivania, la sua bella borsa medica nuova, un registro per annotare nomi, motivo della chiamata, orari e, oggetto primario di lavoro, il telefono con tanto di segreteria telefonica da inserire quando l’operatore era fuori. Una vetrinetta chiusa a chiave con farmaci di pronto soccorso posizionata contro la parete completava l’arredamento. Oltre il ponticello sul torrente impetuoso che attraversa il paese di Pontestazzemese, nell’entroterra montano della Versilia storica, era parcheggiata la piccola utilitaria bianca- una centoventisei- con la scritta sulla fiancata: “Guardia medica notturna e festiva”. Era il 1979, nel mese di novembre. Questo servizio pubblico aveva preso l’avvio in tutta Italia all’inizio di quell’anno. Non c’era alcun autista, alcun infermiere, il medico rispondeva di persona alle telefonate. Proprio di fronte all’edificio, un’altura dominava la piazza: lì si ergeva- e si erge tutt’ora- il Sacrario degli Alpini, in memoria dei caduti in guerra. I paesi come questo dell’entroterra vicino alla linea gotica sono ricchi di memorie e di animi orgogliosi. C’era stata una grande festa il giorno della sua inaugurazione. La giovane Valeria, allora solo all’inizio dei suoi studi universitari, era presente, attirata dal fascino dei racconti di suo padre, vecchio alpino tra i promotori dell’iniziativa. Ricordava la commozione dei reduci presenti con le decorazioni ben in vista sulle giacche. Il pomeriggio autunnale si era concluso con frittelle di castagne e un bicchiere di vino rosso che nessuno poteva rifiutare. Il servizio di guardia medica notturna e festiva era svolto da medici di buona volontà, animati da grandi ideali, ma di poca esperienza. Le chiamate, dapprima scarse ( i montanari, si sa, sono assai diffidenti nei riguardi delle novità), erano pian piano aumentate nel corso del tempo e la dottoressa Valeria ricopriva quell’incarico da un paio di mesi. La prima urgenza quella sera si era risolta in fretta, si trattava di un bambino del paese, a pochi passi dalla sede, con febbre alta. La serata e la notte sarebbero state ancora lunghe. “Drin, drin, drin” Erano le ventitré da poco passate quando il telefono squillò di nuovo.
“Guardia Medica.” Rispose lei pronta. Era rientrata da poco, il bambino stava meglio. Si era versata dal suo thermos personale un poco di caffè caldo, lo sorseggiava seduta alla sua postazione davanti alla scrivania. Indossava ancora il montgomery blu e la sciarpa, appena allentata: lo scarso riscaldamento non invogliava ad alleggerire il vestiario.
“ Telefono da Arni. Il mi’ marito da du’ ore è concio male, respira strano e suda tutto, un lo so che c’ha. Può venì il dottore a visitallo?”( Mio marito da due ore è ridotto male, respira a fatica e suda, non so cos’ha. Può venire il dottore a visitarlo?)
“ Ha qualche altro problema? La tosse ? La febbre?”
“Sisì, è tutto baboso e tosse tanto, è anco abbacchiato. La febbra un lo so, un ha volsuto fassela misurà. Mi par di no, un so che dagli, un semo avvezzi…”( Sì, sbava e tossisce tanto, è giù di morale. Non so se ha la febbre, non ha voluto misurarsela, mi sembra di no, non so cosa dargli, non siamo abituati… )
“ Non va tanto bene allora, Mi dia l’indirizzo.”
“ Eh, l’indirizzo! Un ci trova mica. Dovete fa’ la via di Arni, dopo il Cipollaio c’è uno spiazzo con un barre. Io telefono di qui che a casa un ce l’abbiamo. Il mi’ figliolo resta qui davanti anche se un ce l’ha in buzzo e dopo v’accompagna. Pe’ l’amo’ deddio, spicciatevi.”( Eh, l’indirizzo! Non è facile trovare la casa. Deve percorrere la strada per Arni. Dopo la Galleria del Cipollaio c’è uno spiazzo con un bar. Io telefono da qui, a casa non ce l’abbiamo. Mio figlio rimane ad aspettarvi anche se non ne ha voglia. Vi accompagnerà lui a casa. Per favore, fate presto.)
Appena riagganciata la linea, Valeria prese una decisione rapida : una chiamata alla Croce Verde di Pietrasanta per allertare un’ambulanza.
“ Io parto subito. Sono più vicina e arriverò prima, ma voi seguitemi.”
“ E’ sicura che serve? “
“ Non del tutto. Ma a sentire i sintomi non è curabile a casa. E poi il malato è in Arni. Se ha quel che credo non c’è tempo da perdere. Portate una bombola di ossigeno. Qui non ce l’ho.”
Arni è la frazione montana di Pontestazzemese più lontana e disagiata ma, attenta alla strada tutta curve e con poca illuminazione, lei arrivò più in fretta possibile davanti al bar dove aveva appuntamento, appena oltre l’ antica Galleria umida e buia. C’era un crocchio di gente ad aspettare: solo uomini. L’avevano guardata scendere dalla macchina, tutti con una coppola in testa e la sigaretta accesa.
Tra di loro, un ragazzotto grande e grosso un po’ bevuto o forse solo confuso si fece avanti:
“ E il dottore ‘un c’è?” ( Il dottore non c’è?)
“ Il dottore sono io.”
“Ora ci si mettono anco (anche) le donne.” Lui girava gli occhi incerto: dalla macchina, a lei, alla borsa medica.
“Stia tranquillo, mi accompagni dal malato.” Valeria, giovane e di piccola statura, assunse l’aria più energica possibile.
“ Boh, io ‘un ci capisco più nulla” ( Non ci capisco più niente). Mormorava tra sé e sé l’uomo, mentre la precedeva in un vicoletto lì dietro, mani in tasca e spalle incurvate in avanti. L’odore di orina si mischiava con quello delle galline che razzolavano fuori durante il giorno.
Dopo pochi passi raggiunsero la casa. Una donna di mezz’età vestita di nero e con un fazzoletto in testa legato sulla nuca, aprì la porta . Nella stufa, crepitava un ciocco di legna; emanava calore e un buon odore di caldarroste .
“ E il dottore ‘uv’é?” ( E il dottore dov’é?) Ripetè lei, con lo stesso tono del figlio.
“Il dottore sono io, stia tranquilla, so quel che faccio.”
Lei scosse la testa , ma non replicò, rassegnata e con gli occhi bassi la precedette in camera.
L’uomo respirava a fatica, con rantoli e sibili. Stese la mano verso di lei, con gli occhi appannati :
“ Mi par di soffocà.” ( Mi sembra di soffocare). La visita fu veloce e confermò la diagnosi sospettata.
“ Non soffocherà, ma ha un edema polmonare, è una cosa grave e non può curarsi qui a casa.” La dottoressa Valeria tirò fuori dalla borsa il laccio emostatico per una prima terapia d’urgenza.
“ Ha bisogno di essere ricoverato subito in ospedale.” Spiegò al malato e poi, rivolto ai parenti: “State tranquilli, ho già chiamato io.”
La sirena dell’ambulanza che si udiva in lontananza si avvicinò fino a spegnersi, lì vicino.
Sulla porta, mentre i barellieri portavano via l’uomo, lui sussurrò piano tra un colpo di tosse e l’altro: “ Mari’, ‘un ti preoccupa’ che rivengo. Dagli l’ove e le castagne al dottore.” ( Maria, non ti preoccupare, ritorno. Dai al dottore uova e castagne).
Nota dell’ autrice: alcune frasi del dialogo tra i protagonisti sono scritte in dialetto versiliese storico (Quello che si parlava nei quattro comuni dell’antico capitanato di Pietrasanta e ormai quasi in disuso. Nell’uso corrente ne sono rimaste poche locuzioni). Anche se di facile comprensione, riporto tra parentesi la traduzione in lingua italiana.