Nota: dedico questo scritto a tutti coloro che scrivono per Pannunzio Magazine, una rivista on-line che amo particolarmente anche perché vi leggo con viva soddisfazione opinioni diverse dalle mie, segno che Pannunzio Magazine non ha, non vuole avere, una linea di pensiero, come è del resto nei suoi statuti. E questo mi piace da matti, tanto che continuo a mandare alla redazione articoli su articoli, ben sapendo che non tutti i lettori condividono quanto scrivo. Viva la faccia!  Io sono per il pluralismo delle idee.

Sicché il primo nome al quale va questa mia breve dedicatoria è senz’altro quello di Livio Ghersi, grazie al quale mi sono avventurato nella lettura dei ricchi e vari contributi da tanti dati a PannunzioMagazine. Livio, consapevole di dover lasciare questo mondo nel quale – secondo un monsignore di quelli che vivevano a Versailles all’epoca di Re Sole, si piange da secoli tanto bene – aveva scelto vie brevi e vibranti per far arrivare il suo messaggio. Io, che come altri lo sapevo, lo leggevo passando sopra a una tensione che scopriva nervi vivi, tipici di chi ama la vita. Ammetterò che la vita la amo anch’io, fatto che a Livio mi accomuna.

Detto questo, visto e considerato che non si legge un articolo tanto per leggerlo, ma anche per riflettervi sopra, devo ammettere che il “pezzo” da me scritto è stato in parte suggerito da considerazioni di due autori che non conosco personalmente ma ai quali va il mio saluto tinto d’allegria e di gratitudine. Si tratta di Maurizio Merlo, autore di Se l’Italia fallisce sul lavoro intellettuale e di Luisa Piarulli autrice di Il potere dell’educazione: l’unico che abbia un senso.         A loro chiedo scusa se ho frainteso certi loro intendimenti, timore per il quale ho evitato di citarli in questo mio scritto per non cadere nella trappola di attribuire loro pensieri che non gli appartenessero. Ma a loro esprimo comunque la mia gratitudine. Mi hanno dato di che pensare.

1. lavoro e creatività

“L’italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”

Recita così l’articolo 1 della Costituzione italiana.

Si vuole, per tradizione interpretativa consolidata nel tempo, che la “formula” mettesse d’accordo comunisti da una parte e cattolici dall’altra. Ipotesi che credo comunque ragionevole. Il fatto però che su questa formula accettassero di convenire cattolici e comunisti non vuol dire ai miei occhi che essa nascesse dall’incontro di due culture che, sul piano degli studi giuridici, non avevano una tradizione paragonabile a quella liberale. Credo perciò che il fatto significhi semplicemente che quella formula poteva adattarsi alle esigenze e dell’una e dell’altra parte. Resta mia convinzione che, a ben guardare, la “formula” sarebbe piaciuta a Giuseppe Mazzini. In essa infatti si celebra l’operosità, la laboriosità del popolo italiano, ivi compresa quella creatività di cui si parla tanto, a volte esagerando i meriti del made in Italy. Creatività che, per essere autentica non nasce da estro, da fantasia e da insofferenza delle regole, ma da studio, applicazione, conoscenza di antiche tecniche di esecuzione del vecchio artigianato. Quanto alla laboriosità essa è patrimonio di quello stesso popolo al quale, non a caso, appartiene, di conseguenza, la sovranità, che, sempre di conseguenza “è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione”, come è scritto nell’art.1.

Siamo a un nodo del pensiero liberale che, promuovendo la modernità, si sforza d’essere lungimirante riuscendo a mettere da parte i pregiudizi di classe.

Tutto questo mi pare abbia un solo significato, che, stando alla Costituzione, l’Italia è una Repubblica dove tutti tendenzialmente si danno da fare e questo darsi da fare si chiama lavoro.

2. datore di lavoro o “padrone”?

Domanda: è il datore di lavoro, lavoratore a sua volta? La risposta non è tanto facile, anche perché nel linguaggio corrente si intende per “lavoratore” il lavoratore dipendente, sia che svolga la sua attività nel settore pubblico, sia che la svolga nel settore privato. A completare il quadro c’è anche il lavoratore in proprio che ormai si confonde con il libero professionista. C’è inoltre il fatto che, a fronte di tanti imprenditori che si curano dell’azienda a cui hanno dato vita, ce ne sono di quelli che, affidando ad altri le responsabilità della direzione, finiscono con l’occuparsi di qualcos’altro. Si dedicano agli affari, prendendosi cura del patrimonio familiare; investono in generi di lusso; si danno alla politica, nel senso che tentano anche le strade utili a condizionarla. Tutte cose in via di principio lecite ma il fatto comporta altre considerazioni.

Il potere ama l’ombra e che la “sovranità” del popolo laborioso sia ridimensionata da un padronato che di fatto si ispira al vecchio signoraggio feudale certamente dispiace per la sostanziale antimodernità di tale ispirazione.

3. La giusta mercede, ovvero il salario minimo

Torniamo indietro, al tempo in cui in un’Italia non ancora repubbblicana si ragionò di “giusta mercede” da corrispondersi a chi lavora. L’espressione evangelica fu, non a caso, riproposta da papa Leone XIII con l’enciclica Rerum novarum del 1891.In uno spirito caritatevole s’intende che il datore di lavoro faccia bene a corrispondere all’operaio un giusto compenso. Siamo tuttavia su un terreno che riguarda la morale personale col buon cristiano che, volendo essere perfetto (o quasi), accoglie l’invito a praticare una virtù senz’altro lodevole ma che, non traendo ispirazione da una  legge, non viene messa in atto da tutti o da quasi tutti. Sicché, sentito il padre spirtuale, al cui consiglio l’imprenditore animato da salda fede cattolica voglia ispirarsi, può succedere che questi convenga circa il fatto che i suoi sforzi debbano andare verso la corresponsione di una “giusta mercede”. A qesto punto però gli piovono addosso le critiche che provengono da altri imprenditori del settore che ritengono che la paga corrisposta agli operai sia comunque “giusta”. In fondo, se non ricevesse quella paga, l’operaio sarebbe costretto a vivere di elemosina. E qualcuno potrebbe maliziosamente far presente che lo stesso Marx preferì non condannare sul piano morale lo sfruttamento della mano d’opera (fenomeno per lui prettamente economico), consapevole del fatto che l’imprenditore potrebbe sostenere d’aver tolto l’operario dalla strada, garantendogli la sopravvivenza.

C’era, come ancora oggi c’è, un mercato del lavoro e, per salvaguardare la pace sociale ed evitare proteste di piazza, dapprima occasionalmente quindi, nel corso del secondo Novecento, periodicamente, si adeguò il salario degli operai, e dei lavoratori in genere, tenendo conto del potere d’acquisto del salario loro corrisposto.

Intanto, già in età giolittiana si legittimarono le Camere del Lavoro, si crearono fondi per l’assistenza sanitaria e la pensione da corrispondere ai lavoratori riconoscendone alcuni diritti.

4. Povertà e imperi economici

Quando però il mercato tende ad essere libero, la domanda diventa legittimamente: “quale necessità c’è di tenere alto il divario tra i due rebbi estremi della forchetta, vale a dire il compenso che spetta all’operaio e l’utile che ne ha l’imprenditore?”.

Nel corso del Novecento il mondo occidentale ha conosciuto la formazione di grandi imperi economici e ha visto crescere negli ultimi cinquant’anni situazioni di povertà e di impoverimento.

Nessuno fa i conti in tasca al datore di lavoro, neanche l’Agenzia delle Entrate, che si limita a constatare se il contribuente corrisponda il dovuto secondo l’aliquota fiscale fissata e nel rispetto della legge. Posso, da imprenditore, guadagnare miliardi e sul mio guadagno nessuno ha a che ridire, purché la denuncia dei redditi sia fatta secondo le normative vigenti. Nel caso che non lo fosse, potrei avere qualche fastidio ma non nell’immediato, almeno in Italia. Spesso, patteggiando, si esce fuori da qualsiasi problema.

5. E se si ponessero dei limiti agli utili delle imprese?

E vengo al punto che riguarda quello che ho chiamato, con espressione evidentemente impropria, “il salario massimo”.

Se si assume però che anche l’imprenditore sia un lavoratore prima d’essere un “padrone”, allora l’espressione comincia ad avere senso, infatti in questo caso può parlarsi – se non di un salario, che è ben altra cosa – di una “retribuzione” che spetta all’imprenditore, come figura che agisce nell’azienza, con un suo ruolo ben preciso. Si tratterebbe di riconoscere qualcosa come una funzione pubblica che l’imprenditore ha proprio in quanto datore di lavoro, distinguendo anche sul piano della legge i due profili quello pubblico e quello privato.

Un tale ridimensionamento del “capo” legittima la domanda se esistanono dei danni che alla società provengono dalla grande, grandissima differenza tra quel che guadagna l’operaio e quel che, in alcuni casi almeno, guadagna l’imprenditore. Precisazione questa doverosa, nel senso che ci sono imprenditori in Italia che guadagnano a conti fatti, poco più dei loro dipendenti, tra i quali ci sono i loro familiari. Molte aziende in Italia sono a conduzione familiare e a dare una mano alla conduzione, per esempio di un negozio, possono esserci anche degli studenti che, specie quando le scuole sono chiuse, vanno a bottega a volte improvvisandosi nel ruolo di commessi.

La risposta alla domanda che ci siamo posti è purtroppo: “Sì. Ci sono dei danni sociali dovuti agli esagerati guadagni di alcuni imprenditori”.

In tempi di consumismo fare un acquisto che sia un investimento è veramente difficile ma quando diventa addirittura impossibile per il nutrito esercito degli acquirenti è il mercato a soffrirne. Voglio dire che “investire” rende l’acquisto opportuno, non spiegandosi un acquisto che non abbia alcun utile. Propongo di usare il termine “investimento” nell’accezione più larga possibile, per cui è un investimento anche il mangiar bene, cioè sano, e procurarsi quanto sia necessario a vivere tranquilli. Poi c’è anche il conto in banca che cresce, con tutte le conseguenze positive che da una tale situazione derivano. Ma col conto in banca che cresce siamo già a una situazione totalmente diversa, che tanti italiani oggi rimpiangono come un fatto del passato. Lasciando perciò perdere il “poi”, se mangio male; se non vado dal medico perché non me lo posso permettere; se compro, per risparmiare, scarpe inadatte alle mie necessità, rinunciando ad altri acquisti, arrivo all’unica logica conclusione: mi sto impoverendo. Se poi tanti si trovano nella mia situazione, il mercato languisce. Nei negozi si praticano sconti, cresce il mercato dell’usato e l’economia va male.

In questo quadro il piccolo imprenditore, a cominciare da quello che in Italia abbia tipicamente  messo su un’azienda a conduzione familiare, rischia il fallimento.   

6. Il lavoro crea ricchezza

Che il lavoro crei ricchezza lo dicono i capiscuola dell’economia classica come Smith e Ricardo. Dove però si lavora e ci si impoverisce c’è qualcosa che non va bene.

Torniamo all’inizio, cioè all’articolo 1 della Costituzione, per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, con la conseguenza che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Il dettato è chiarissimo: non si dice nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Legge, ma nelle forme e nei limiti della Costituzione. I padri costituenti non hanno con ciò demandato questa delicata materia al Legislatore. Perciò, come tutti sappiamo o dovremmo sapere, a cominciare dal diritto – dovere del voto, la delicata materia della rappresentanza del volere popolare è descritta dalla Costituzione.

In particolare l’articolo 49 stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Mi pare che questo sia oggi il punto dolente, sembrandomi che il partito si possa ai nostri giorni identificare in un gruppo di potere che conviene circa le strategie utili alla sua sopravvivenza, non essendo a nessuno chiaro dove e come operi quella che dovrebbe essere la sua “base”.

Voglio dire che quel metodo democratico invocato dalla Costituzione è stato nei fatti messo in parentesi da tutti i partiti nei quali sembra prevalere una logica “stalinista” nel senso che la cosiddetta disciplina di partito annulla, non si capisce bene perché, la volontà del singolo parlamentare che a quel partito sia iscritto. Il dissenso, se c’è, non è pubblico e la dialettica interna al partito non è detto che rispecchi quella che invece anima le discussioni politiche che in casa, al caffè, con i colleghi di lavoro, impegnano gli onesti cittadini.

Io considero questo fatto grave e lo collego, forse sbagliando, al fatto che il lavoro come prodotto di risorse umane che non siano risparmiate ma tutte felicemente impegnate, sia qualcosa di invocato nell’articolo 1 della Costituzione ma non realizzato.

Esistono “lavori” per i quali non si esige da parte della coscienza collettiva una deontologia professionale, cioè un impegno serio volto a fare coscienziosamente quel che si è chiamati a fare. Lo dico con dolore ma certamente quello dell’intellettuale, specie dell’intellettuale votato alla politica, è un lavoro più da predicatore di verità posticce che non di attento e scrupoloso osservatore dei fatti. È accaduto così che gli italiani siano stati spinti a vivere la politica quale professione di fede, senza domandarsi se la bandiera da fare sventolare fosse quella giusta, per tale intendendosi un programma politico da potersi mettere effettivamente in atto e non un’ideologia propagata per “captatio benevolentiae” con cui raccogliere voti. Fatto lecito, finché sia trasparente, cioè finché i cittadini siano in condizione di intendere da sé che le promesse son promesse e i fatti son fatti.

Questa forma di “parassitismo” – nella quale son finiti, talvolta loro malgrado, “opinionisti” di varia formazione che sempre più spesso i media laureano lì per lì come fonti attendibili per la discussione di temi politici, e che in certi casi si rivelano a un occhio più attento persone a cui difetta tuttavia una qualche competenza in materia – è moneta falsa, utile a tenere in piedi un’economia che non regge.

L’anti – politica, a cui ha tenuto dietro una sorta di im – politica per cui si propongono soluzioni posticce a problemi inesistenti, servono a tenere in piedi un teatrino che, come tutti i teatrini, non funziona nel senso che funziona male e a tratti malissimo.

Conclusione

Concludendo questo ragionamento, quel che implicitamente è richiesto dall’articolo 1 della Costituzione è che tutti i cittadini italiani abbiano, e si sforzino d’avere, una deontologia professionale. Il crearsi degli strumenti adatti a far bene il proprio lavoro, qualunque esso sia, è premessa all’essere cittadini.

A dispetto di quanto la Costituzione richiede su questo punto, accade che quando un giovane di belle speranze parli con un adulto del proprio futuro lavorativo, tenga a precisare, per apparire un ragazzo con la testa sulle spalle, di mirare a un lavoro ben retribuito. A questa battuta l’adulto, che ha esperienza delle cose del mondo, più spesso di quanto s’immagini, gli sorride compiaciuto, complimentandosi con lui che è un giovane maturo.

Io non so chi dei due sia più bambino. Quello del lavoro è un problema esistenziale prima che economico. Torniamo alla creatività sulla quale si spendono paroloni a volte vuoti. Tutti i lavori sono creativi, che siano manuali o intellettuali, non fa differenza. Il Rinascimento, periodo d’oro dell’economia italiana, rivela che certi merletti e certi gioielli che allora si producevano erano frutto di un’ intelligenza educata al fare, all’essere presenti nel mondo. Cosa che dava dignità al lavoro.

Quello che la precarietà, l’instabilità, la misera retribuzione comportano è proprio il misconocimento del talento personale, risorsa preziosa da impiegare e da individuare. Se questo non avviene, il “padrone”, che sia un editore, che sia una multinazionale, che sia perfino un ministero, contravviene al dettato costituzionale che è disatteso anche lì dove la Costituzione si fa, per deliberata volontà dei padri costituenti, quello che infine è, cioè Legge che contiene prescrizioni chiare, esplicite e perciò vincolanti per qualsiasi cittadino che sappia leggere e si sforzi di comprendere.

Voglio in sintesi sostenere che ci sono abusi che portano a ignorare la possibile incostituzionalità di certe misure prese anche da chi fa politica. Di più. Non in tutte le sue parti la Costituzione demanda alla legge ordinaria e, per esempio, sebbene il nostro ordinamento abbia per lungo tempo mancato nel configurare il reato di tortura, l’articolo 13 della Costituzione asserisce fra l’altro che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”.               Ciò credo bastasse a destituire immediatamente il funzionario pubblico che avesse mancato all’obbligo di rispettare quanto esplicitamente prescritto dalla Costituzione, sulla quale, al momento dell’assunzione in servizio aveva giurato.

Il fatto che il mai abrogato codice Rocco non contemplasse il reato, non toglie che la Costituzione, che è il fondamento sia teorico, sia pratico dell’ordinamento giuridico vigente in Italia, sancisce una punizione per chi abbia abusato del proprio ruolo per far valere su un povero disgraziato il suo “potere”.

Tutto questo è vergognoso per un popolo di gente che lavora.