La associazione fra concetti e parole è complessa e le modalità secondo le quali avviene influiscono sulla struttura del lessico e le differenze fra le strutture dei lessici di lingue diverse. Un elemento sul piano del contenuto corrisponde a un elemento sul piano della forma e viceversa. Nella maggior parte dei casi le lessicalizzazioni delle lingue sono di tipo diverso. Un primo caso è quello per cui una combinazione di concetti è espressa da una singola parola, questo è il caso dei verbi di moto o di stato. Vengono chiamate lessicalizzazioni sintetiche per sottolineare come l’associazione forma contenuto è attuata secondo un procedimento di sintesi, cioè di comprensione di più elementi di contenuto in uno stesso elemento lessicale. Un secondo caso è quello per cui un concetto globalmente unitario viene espresso da più parole, il caso di molte sequenze di parole che esprimono un’attività come ad esempio “avere paura” al quale non corrisponde “paurare”. Chiamiamo questi casi lessicalizzazioni analitiche per sottolineare come l’associazione forma contenuto è attuata in questo caso attraverso l’analisi cioè la distribuzione del contenuto su più forme lessicali. È difficile stabilire se un concetto è semplice o complesso. I concetti espressi dalle parole non sono mai scomponibili in unità più elementari cioè sono atomici. Una distinzione rilevante è quella fra lessicalizzazioni descrittive e quelle etichettanti: i due tipi di lessicalizzazioni si distinguono in base alla diversa relazione semantica esistente fra il designato e la parola. In quelle descrittive il designato è associato alla parola attraverso una descrizione, in quelle etichettanti invece è associato alla parola attraverso un’etichetta. Il confronto inter -linguistico mostra che alcune lingue non lessicalizzano determinati concetti cioè non li associano a una parola, non hanno una parola isolata per esprimerli. Questo è possibile perché i concetti costituiscono qualcosa di esterno al linguaggio e in quanto oggetti mentali esistono anche senza la lingua. Il confronto fra lingue mostra come attraverso il lessico le lingue ritagliano in modo diverso gli stessi concetti ad esempio la parola italiana orologio copre il segmento concettuale espresso in francese e inglese da due elementi distinti. La teoria innatista del linguaggio afferma che gli esseri umani possiedono le stesse categorie concettuali per classificare le cose ai fatti del mondo a causa della similarità della struttura biologica della mente. Questo costituisce anche il motivo per cui nonostante le differenze tutte le lingue condividono un nocciolo comune nella loro organizzazione più profonda, che è la grammatica universale. La teoria innatista non nega l’esistenza di un’influenza culturale sul nostro modo di categorizzare il mondo ma ritiene che questa è tale da intaccare solo gli strati superficiali della lingua. A questa posizione si oppone l’ipotesi relativista secondo la quale le categorie concettuali sono profondamente determinate dalla cultura e anche dalla lingua e in quanto strumento consente di esprimerle dà loro forma. Il termine parola inteso in senso tradizionale non cattura tutti i fenomeni presenti nel lessico. Una teoria del significato deve perseguire due scopi principali: stabilire qual è il significato delle parole e spiegare come si forma il significato delle frasi a partire dal significato che viene attribuito alle parole. Si usa riferirsi a questa questione come al problema del calcolo del significato. Per quanto riguarda il calcolo del significato, ci sono due problemi principali: il problema della contestualità del significato e quello della polisemia delle parole, cioè il fatto che la maggior parte delle parole di un lessico è in grado di significare in contesti diversi cose diverse. Il principio di composizione è il principio fondamentale utilizzato per spiegare come a partire dalle parole si forma il significato delle frasi. Secondo questo principio, il significato di un enunciato dipende dal significato dei singoli elementi lessicali che lo compongono cioè delle sue parti a condizione che siano rispettate le regole di restrizione imposte dagli elementi lessicali stessi. Quindi dato un enunciato E formato dalle parole X-Y-Z il significato SE è la composizione di SX + SY + SZ. Il principio costituisce un modo di spiegare come gli enunciati acquistino significato a partire dalle parole. Ci sono però nella lingua una serie di evidenze che mostrano come questo principio da solo non è sufficiente per rendere conto di vari modi di significare che le parole mostrano di avere nel contesto. Infatti il principio di composizione vale in senso stretto solo per le parole monosemiche. Dal punto di vista teorico questi problemi possono essere affrontati in due modi: abbiamo la teoria basata sulle numerazioni dei sensi e la teoria basata su una concezione dinamica del significato lessicale. La teoria basata sulle numerazioni dei sensi risolve il problema della composizionalità sostenendo che i diversi significati di una parola polisemica siano tutte elencati nella parola e quindi nella sua semantica lessicale. Ogni singola parola se polisemica contiene secondo questa interpretazione un elenco di significati ed è un elenco di restrizioni lessicali che specificano i contesti in cui i diversi significati possono attivarsi la selezione del significato pertinente ha luogo a livello sintomatico in accordo con queste restrizioni. Invece la teoria lessicale basata su una concezione dinamica del significato lessicale ritiene che un lessico sia antieconomico incompleto e inadeguato e la soluzione è che è necessario concepire le parole come entità permeabili. Il significato di ogni parola interagisce con il significato delle parole che sono adiacenti nella frase e il risultato di questa interazione genera il significato della frase. Questa teoria sostiene quindi il primato della dimensione sintagmatica nella definizione del significato lessicale non in quanto livello al quale sono selezionati i sensi ma il quanto è il livello al quale i sensi sono stati generati. Il passo successivo è quello di descrivere i principi che consentono di illustrare diversi tipi di interazione semantica. La proposta dello studioso Posteiosky: egli ritiene che accanto al principio di composizionalità è necessario postulare altri tre principi:
- CO-composizione
- quello di forzatura del tipo semantico
- quello del legamento selettivo.
Questi principi sono dei meccanismi che si applicano alle parole quando si combinano fra loro e danno vita al significato specifico che queste assumono nel contesto. Il principio di CO-composizione può essere illustrato prendendo come esempio una combinazione verbo nominale: in base a questo principio il significato di un verbo è definito da quello dei suoi argomenti (complementi). Il verbo “io faccio” cambia significato nelle frasi “io faccio il giro” e “io faccio lo stupido”. Ogni verbo ha un significato di base cioè una parte non variabile di significato. A questo significato si integrano nel contesto i componenti semantici portati dai complementi che fanno sì che il verbo sviluppi nuovi significati. Si tratta quindi di significati costruiti in modo incrementale attraverso la combinazione di parole. Questo procedimento è però diverso al procedimento classico di composizione perché non si tratta di una semplice somma di significati poiché il significato del verbo e ridefinito dal complemento con cui si combina. Anche il principio della forzatura di tipo può essere spiegato prendendo in considerazione le combinazioni verbo nominali: nei casi in cui il principio si applica vi è un verbo in combinazione con un nome specifico. Il principio spinge questo nome a significare quello che è richiesto dalla semantica verbale. Il fenomeno della forzatura di tipo non ha luogo solo con le combinazioni verbo nominali ma può essere indotto anche dalle preposizioni con significato temporale. Anche nel caso della forzatura di tipo come in quello di co composizione possiamo vedere come significati delle parole che si combinano non sono sommati ma sono costruiti nel contesto. Un altro principio è quello del legamento selettivo. Questo principio può essere spiegato ricorrendo ad esempi di combinazioni aggettivo nome. La sua interpretazione nel contesto è determinata dal significato del nome con cui si combina: nei casi in cui si applica il principio del legamento selettivo fra l’aggettivo e il nome si crea un legame per cui l’aggettivo seleziona una specifica porzione del significato del nome e modifica solo quella porzione. Sul rapporto tra parole e concetti è fondamentale il contributo di Vygotskij. L’assunto di base del pensiero di Vygotskij è che lo sviluppo psichico del bambino è guidato e influenzato dal contesto sociale e quindi dalle particolari condizioni culturali che caratterizzano il periodo storico in cui l’individuo vive. Il contesto storico culturale in cui Vygotskij vive e sviluppa le sue teorie è quello della rivoluzione russa (1917) e il suo riferimento teorico e punto di partenza è il marxismo. Nell’Unione Sovietica di quegli anni, in cui tutto il sapere doveva essere reinterpretato attenendosi rigidamente ai principi del materialismo storico, le teorie di Vygotskij, che miravano a comprendere lo sviluppo individuale nel contesto sociale, venivano messe in relazione alle odiate logiche borghesi e perciò gli scritti di Vygotskij furono messi al bando e lui venne isolato come un traditore. Vygotskij, nonostante la sua formazione giuridica e letteraria, si occupò molto di psicologia e soprattutto di psicologia dell’arte e dell’educazione confrontandosi con i maggiori scienziati del suo tempo. Nella prima metà del XX secolo l’attenzione in campo psicologico era rivolta soprattutto all’opera di Jean Piaget, nei confronti del quale Vygotskij portò avanti una polemica indiretta basata soprattutto sul diverso modo di intendere il rapporto tra pensiero e linguaggio nello sviluppo cognitivo. Il contributo di Vygotskij rimase in ombra almeno fino agli anni ’60, quando fu pubblicata la prima traduzione inglese di Pensiero e Linguaggio, la sua opera più importante che negli anni successivi venne tradotta più volte, ma in edizioni ridotte, solo intorno agli anni ’90 vennero pubblicate edizioni complete e fedeli al testo. Il metodo scientifico di Vygotskij e il concetto di strumento Il metodo scientifico di Vygotskij consiste nel procedere per unità relazionalmente semplici, ovvero nel trovare un livello che non sia né troppo sintetico né troppo analitico. Tale elemento di analisi viene individuato dall’autore nel significato, unità che consente di comprendere pensiero e linguaggio.Uno dei concetti cardine della teoria di Vygotskij è quello di strumento inteso come ciò che media il rapporto tra individuo e realtà esterna. Il rapporto tra l’uomo e lo strumento è bidirezionale: l’uomo modifica l’ambiente esterno tramite gli strumenti, ma si modifica egli stesso attraverso l’uso che ne fa. Alcuni strumenti sono creati dall’uomo e sono quindi legati al progresso tecnologico, economico ed ai bisogni di una società, altri sono strumenti simbolici, il più importante tra questi è il linguaggio. Attraverso il linguaggio possiamo pensare ad oggetti materiali senza bisogno di averli davanti, il linguaggio è lo strumento tramite il quale gli uomini si rappresentano la realtà e quindi possono manipolarla ed inoltre permette all’uomo di controllare il pensiero ed il comportamento. Il linguaggio è quindi lo strumento usato dagli uomini per riflettere sulla realtà, essendo uno strumento culturalmente determinato ne consegue che anche la visione del mondo di ogni individuo è determinata dalle particolari condizioni storico culturali in cui egli si trova a vivere. Passiamo ala polemica tra Vygotskij e Piaget è questa. Vygotskij approfondisce e critica l’interpretazione del concetto di egocentrismo di Piaget. Per intendersi sul significato di questo termine è utile darne una definizione che prenda in considerazione i diversi aspetti dell’egocentrismo, possiamo dunque definirlo come un’incapacità di prendere in considerazione simultaneamente più di un punto di vista nell’analizzare la realtà. Bisogna premettere che i due autori partono da presupposti diversi, in quanto Piaget sopravvaluta il ruolo del pensiero rispetto al linguaggio e ciò lo porta a credere che, se il pensiero del bambino è egocentrico, anche il suo linguaggio rifletterà tale caratteristica e considera questa fase solo negativamente, invece Vygotskij considerando il linguaggio non solo in quanto mezzo di comunicazione, ma anche come strumento per riflettere sulla realtà, crede che il linguaggio egocentrico abbia anche la funzione positiva di comprensione delle proprie attività mentali e costituisca un modo di accostarsi a sé stessi. Per Piaget dunque, il linguaggio egocentrico è una conseguenza dell’egocentrismo cognitivo, dovuto all’immaturità del bambino, per Vygotskij invece, è un importante momento del processo di interiorizzazione del linguaggio, oltre che una modalità funzionale che permane per tutta la vita. Secondo Vygotskij, pensiero e linguaggio hanno due diverse origini. Il pensiero ha un’origine interna e l’autore su questo punto, concorda con Piaget nel ritenere che il pensiero nasca tramite l’azione senso motoria sulla realtà. Il linguaggio ha un’origine esterna, viene cioè appreso dal bambino tramite l’ambiente fatto da persone che usano il linguaggio. Il linguaggio esprime sin dall’inizio la sua natura sociale, Il bambino inizia a parlare per mettersi in rapporto con l’altro, per richiedere attenzione e risposte ai suoi bisogni, con modalità sempre più comunicative, progressivamente il linguaggio tende all’interiorizzazione, cioè serve sempre di più da ausilio alla riflessione. Successivamente subentra la fase del linguaggio egocentrico ed è qui che pensiero e linguaggio che finora avevano seguito traiettorie separate, anche se parallele, si uniscono. Durante questa fase il pensiero acquisisce un nuovo strumento che potenzia le sue capacità: il simbolo. Nel percorso di pensiero e linguaggio dunque il pensiero tende progressivamente ad esteriorizzarsi, mentre il linguaggio tende sempre di più all’interiorizzazione, attraverso forma di pensiero silenzioso. Per introdurre la teoria di Vygotskij sullo sviluppo concettuale è utile far riferimento ad uno dei suoi esperimenti più importanti in proposito. Lo sperimentatore mette davanti al bambino dei blocchi di legno diversi fra loro per forma e colore. Sotto ogni blocco c’è scritta una parola priva di significato. Alcuni blocchi hanno lo stesso nome, perché hanno alcune caratteristiche in comune le quali sono state decise dallo sperimentatore con criteri che il bambino non conosce. A questo punto lo sperimentatore mostra al bambino un blocco dicendogli, ad esempio “Guarda questo è uno zig, puoi trovarmi gli altri?” Il bambino non conosce la parola, ma capisce che deve trovare qualcosa di simile. L’esperimento va avanti finché il bambino non capisce la regola che è stata usata dallo sperimentatore. Questo esperimento ci consente di fare alcune osservazioni. In primo luogo, lo sviluppo concettuale avviene tramite le parole che ci permettono di nominare le cose, ma sono del tutto arbitrarie. Inoltre, in questo modo possiamo esplorare le strategie di classificazione del bambino, ovvero possiamo chiederci dato il primo oggetto, con quale criterio il bambino sceglie il secondo. All’inizio il bambino, secondo Vygotskij, procede per mucchi, cioè tende a fare delle scelte quasi casuali o comunque incoerenti tra loro, cambiando più volte il criterio che guida le sue azioni. In seguito, inizia a ragionare per complessi, ovvero mette insieme degli oggetti che stanno bene tra loro perché formano qualcosa insieme (ad esempio un blocco triangolare e uno quadrato perché insieme formano una casa). Quindi i complessi possono essere definiti come raggruppamenti funzionali. L’ulteriore progresso cognitivo consiste nella capacità di usare i concetti, qui siamo nell’ambito delle tassonomie, ovvero classifichiamo degli oggetti in base a delle caratteristiche comuni. Il bambino che ha raggiunto questa fase di sviluppo nella formazione del concetto è in grado di completare il compito dei blocchi di legno, comprendendo la regola che ha guidato la classificazione fatta dallo sperimentatore. È importante concludere sottolineando che la forma di pensiero più evoluta consiste nell’usare sia i complessi che i concetti, entrambi indispensabili per comprendere la realtà. L’affermazione di Werner può stare a significare che lo sviluppo dell’individuo riassume e ricapitola lo sviluppo della specie umana, cioè che la successione degli stadi di sviluppo ontogenetico di un individuo ripete la sequenza di quelli che hanno caratterizzato la filogenesi. L’antropologia dà un contributo importante a questa teoria, grazie alle osservazioni e agli studi condotti negli habitat naturali di quei popoli considerati ancora primitivi. Si è assunto che una popolazione primitiva, anche se vive nella nostra epoca, può essere assimilabile alle popolazioni primitive vissute in epoca preistorica. Si possono fare anche ulteriori paragoni, per esempio tra l’uomo primitivo ed il bambino piccolo sia per quanto riguarda lo sviluppo motorio sia per quanto riguarda quello del pensiero. Per quanto riguarda lo sviluppo motorio possiamo dire che come l’Uomo, inteso come specie, impiega del tempo per acquisire la postura eretta e la motricità fine, testimoniata dalla costruzione degli utensili prima molto rudimentali e poi sempre più raffinati, così anche il bambino ha bisogno di tempo per acquisire la deambulazione autonoma e la motricità fine della mano. Per quanto riguarda lo sviluppo del pensiero notiamo che quello del bambino, di tipo magico, è assimilabile a quello dell’uomo primitivo, riconducibile all’animismo; e, come quello del bambino che da magico si evolve in logico, così quello del primitivo si sviluppa fino a raggiungere una certa logicità. Rifacendoci a questa teoria potremmo fare anche un altro paragone: malato mentale che regredito intellettivamente diventa simile al bambino piccolo o all’uomo primitivo. La posizione di Vygotskij circa la teoria di Werner non è assolutamente affine ad essa. Infatti Vygotskij ritiene che non esista soltanto lo sviluppo dell’organismo o quello della specie di appartenenza, ma che sia in atto anche uno sviluppo di tipo storico. Allora lo sviluppo ontogenetico e filogenetico sono immersi in quello storico ed infatti ogni individuo non potrà mai essere assimilabile né ad un suo parente di diversa generazione (genitori, nonni etc..) né tantomeno ad un suo antenato. Questo perché ogni individuo cresce e si sviluppa all’interno di un contesto storico diverso. I processi di sviluppo si articolano secondo 4 livelli: il primo livello è lo sviluppo della parte, cioè di una singola funzione, di un apprendimento come ad es. lo sviluppo della capacità di leggere. Il secondo livello è lo sviluppo ontogenetico, cioè dell’essere umano, che deve essere considerato come un livello di passaggio e compreso all’interno dello sviluppo storico, terzo livello, e in quello filogenetico, quarto livello. Vygotskij sviluppa la sua idea dopo aver conosciuto gli studi del fisiologo russo Pavlov, autore della teoria del condizionamento classico. Si deve a Pavlov la creazione di un ponte tra natura e cultura poiché da un riflesso incondizionato, la salivazione del cane alla vista del cibo, si poteva creare un riflesso condizionato, salivazione del cane in risposta ad uno stimolo condizionato. Ciò che permette questo passaggio è un segnale culturale come ad esempio il suono di un campanello o l’accensione di una lampadina. A questo punto possiamo affermare che risposte biologiche possono obbedire a stimoli culturali. Da questo Vygotskij deduce che anche l’uomo risponde a due sistemi di segnalazione: uno biologico, fisiologico, interno (es. salivazione del cane alla vista del cibo) e uno costituito dai segni che sono socialmente prodotti (es. salivazione del cane dopo il suono del campanello). Con Pavlov abbiamo il passaggio da un livello fisiologico ad un livello culturale. Questo apre la strada all’idea di un doppio sistema di segnalazione. Per Vigotskij il linguaggio è un insieme di segni, come un segno era il campanello per il cane di Pavlov, ma non possiamo dire che il linguaggio, per Vygotskij, si apprende secondo le leggi del condizionamento classico. Per l’uomo l’utilizzo del segnale è indispensabile. Vigotskij fa un esperimento, utilizza due tazzine identiche rovesciate; sotto ad una delle due nasconde un piccolo oggetto, le scambia di posizione e poi chiede ad un bambino di scegliere la tazzina contenente l’oggetto. Dopo che il bambino ritrova l’oggetto si ripete l’esperimento mettendo, adesso, un segno su una delle due tazzine e mostrando al bambino il suo contenuto. A questo punto il segno è diventato un segnale che dovrebbe orientare al bambino la scelta della tazzina contenente l’oggetto. Come prima le scambiamo di posto e gli chiediamo, nuovamente, di mostrarci dov’ è nascosto l’oggetto. Notiamo che i bambini fino a sei anni di età non cambiano modalità di risolvere il compito, utilizzando sempre quella che procede per prove ed errori. Non si avvalgono del segno facilitatore poiché fino a suddetta età non sono in grado di leggere il segnale. Ciò è possibile solo dopo tale età. L’essere umano assume certi dati fisici come dei segnali, ad esempio il segno sulla tazzina. Con il tempo impara ad utilizzare un gran numero di segnali provenienti dall’ ambiente, senza i quali non potrebbe sopravvivere. Possiamo trovare un altro punto di contrasto tra Vygotskij e Piaget per quanto riguarda il ruolo della scuola nell’apprendimento individuale. Piaget ritiene che il ruolo della scuola, nella costruzione di nuovi concetti da parte del bambino, sia marginale e funga soltanto da accompagnatrice di quello sviluppo che è già geneticamente determinato. Il linguaggio è considerato da Piaget come un alimento per il pensiero, per questo anche l’intelligenza, per svilupparsi totalmente, ha bisogno delle relazioni sociali ma il processo sottostante è già predeterminato. Vygotskij, al contrario, attribuisce alla scuola una grandissima importanza. Questa, secondo Vygotskij, permette alle persone, tramite l’istruzione, di capire e rendersi maggiormente consapevoli della situazione in cui vivono. Sviluppa questa opinione dall’osservazione della classe proletaria, che essendo analfabeta, risultava più succube del regime zarista. Vygotskij parla dello sviluppo di due tipi di concetti: spontanei e scientifici. I concetti spontanei sono quelli che il bambino si costruisce autonomamente ad esempio acqua calda, acqua fredda, acqua che si trasforma in ghiaccio ecc. e sono quelli che gli provengono dall’interno. Vi sono, poi, una serie di concetti che vengono portati al bambino dall’esterno tramite l’istituzionalizzazione dalla società, ad esempio spiegandogli e insegnandoli che cos’è l’acqua. Si porta il bambino, così, a ragionare in modo sistematico. Questi sono quelli che Vygotskij chiama concetti scientifici. Vediamo adesso le caratteristiche di entrambi i tipi di concetti. Quelli spontanei tendono a muoversi secondo un processo che va dal basso (conoscenza empirica) verso l’alto (statuto concettuale). Si tende ad una generalizzazione e si passa da proprietà elementari a più complesse. Il bambino si costruisce questi concetti spontaneamente, tramite prove ed errori e attraverso l’esperienza. I concetti scientifici, al contrario, si muovono seguendo un processo che va dall’alto verso il basso, passando da proprietà più complesse a più elementari. Vengono appresi in maniera sistematica, intenzionale e cosciente (consapevole) e tramite due situazioni che la società appronta: la scuola e la famiglia. Vengono insegnati intenzionalmente secondo i principi generali applicati della realtà; hanno un carattere gerarchico e sistematico, sono patrimonio di una cultura e servono per organizzare il mondo. I concetti vengono insegnati a scuola ma possono essere appresi anche in famiglia attraverso un apprendimento autonomo, molte volte i concetti che vengono appresi in tale modalità sono i concetti scientifici come ed esempio la madre che mette l’acqua per la pasta, la quale bolle ed evapora. È importante il modo con cui i concetti vengono spiegati più che la cosa in sé. Un quesito molto importante riguarda quando i concetti scientifici devono essere proposti: in prima elementare ad esempio viene insegnata la lettura per poi arrivare alle medie all’uso dei simbolismi e così via, possiamo vedere quindi attraverso queste tappe come il concetto di temporalizzazione dell’insegnamento sia una tappa importante per lo sviluppo e tale concetto risente anche di una qualche idea di sviluppo; questa idea, tornando a Vygotskij, è legata a come e quando il bambino sviluppa i concetti spontanei. Possiamo quindi dire che i concetti spontanei e scientifici sono come due persone che si incontrano ma la domanda centrale è: dobbiamo aspettare oppure i concetti scientifici possono essere introdotti ai bambini fin da piccoli? Alcuni autori ad esempio hanno fatto iniziare a leggere bambini di due anni ma per Piaget il concetto scientifico deve essere ”insegnato” quando il bambino ha già maturato i concetti spontanei altrimenti è inutile far apprendere al bambino la moltiplicazione e sottrazione quando non è in grado di avere una forma additoria; la posizione di Vygotskij riguarda tutti e due i punti analizzati in precedenza in quanto bisogna sfuggire a tutti e due i rischi:
- se si insegnano al bambino i concetti scientifici troppo presto il bambino non c’è la fa;
- se al contrario i concetti scientifici vengono insegnati troppo tardi il bambino si stufa.
Ed è proprio da queste considerazioni che Vygotskij inserisce la zona di sviluppo prossima, questa teoria differenzia l’area che viene occupata facendo il bambino le cose da solo e l’area occupata dal bambino facendo le cose con l’aiuto di un adulto, una conseguenza di questa teoria è anche la differenziazione della performance in quanto ciò che il bambino sa fare da solo è un processo maturativo mentre ciò che il bambino fa con l’adulto è un processo potenziale; la teoria della zona di sviluppo prossima la ritroviamo anche nel pensiero e nel linguaggio in quanto è il linguaggio che permette al pensiero di svilupparsi e questo processo avviene anche nei processi scientifici i quali si sviluppano grazie ai processi semplici. Vygotskij afferma che i concetti scientifici devono essere presentati quando il bambino ha ancora qualcosa dei processi spontanei, quando cioè ha ancora una parziale immaturità; è importante inoltre sottolineare come i processi scientifici sono radicati alla nostra esperienza. È importante sottolineare come i processi scientifici non possono avvenire se non ci sono i concetti spontanei ed in particolare V. afferma che c’è una componente personale che entra in gioco e questo concetto è stato ripreso da Piaget. Un testo è sempre scritto per comunicare qualcosa, solo che il rapporto contenuto (carico informativo concettuale) / espressione (dimensione formale) può variare privilegiando uno dei due. Il traduttore dovrà mantenere quel rapporto per riprodurre un messaggio analogo, che rispetti la funzione testuale prevalente. L’importanza data alla forma che caratterizza il testo sposta la nostra attenzione dal tipo al genere. Se la tipologia testuale dipende dalla funzione retorica o comunicativo-pragmatica (chi vuole comunicare una informazione sceglie un testo informativo e non per esempio narrativo o poetico), la forma che il testo assume viene adottata tra varie possibilità (sceglie cioè di scrivere un articolo di giornale e non una poesia). I generi combinano più tipi nell’intento di perseguire una determinata finalità: nel testo pubblicitario lo scopo viene di solito perseguito combinando l’argomentazione con la descrizione del prodotto e senza rinunciare ad una componente espressiva. Partendo dall’analisi del testo letterario, l’attenzione al genere testuale è divenuta una modalità di analisi comune ai testi appartenenti a tutte le aree del sapere; per genere si intende, in questo caso, una particolare configurazione dell’atto linguistico “conventionally used for a particular purpose rather than as a particular type of subject matter as in literary studies” (Shaw). Quindi, i generi testuali non sono altro che delle modalità espressive, la forma che i parlanti danno ai loro testi scritti e orali, ovvero agli eventi comunicativi. Di fatto, lo scopo di un evento comunicativo determina il tipo di testo e questo si concretizza di volta in volta in un genere più o meno standardizzato, ovvero riconoscibile all’interno di una comunità. È bene specificare che le denominazioni “tipo” e “genere” testuale sono talvolta utilizzate indifferentemente e a volte confuse. Ciò è dovuto ai diversi approcci al testo possibili e alle diverse scuole di pensiero. Dunque, i tipi si concretizzano in forme testuali diverse a seconda del contesto d’uso, ovvero in base a variabili di ordine linguistico, culturale, sociale, pragmatico. Ma mentre la rispondenza ad un tipo testuale dipende dalla natura del testo stesso (da criteri interni), il genere nel quale un testo si concretizza dipende da variabili “esterne”, ossia da criteri riconducibili a distinzioni e classificazioni insite nella cultura della quale il testo è espressione (Biber): si tratta di “strutture profonde universali” (ovvero tipologie testuali) che si realizzano per mezzo di “strutture di superficie” (ovvero generi testuali). Per Balboni il genere che un testo assume è determinato da variazioni legate al contesto; è influenzato, cioè, da una serie di fattori che danno luogo a combinazioni più o meno standardizzate. Secondo Halliday abbiamo:
- Genere: la tipologia testuale convenzionale che è associata ad una funzione comunicativa specifica, es.: lettera commerciale
- Registro: variazione funzionale della lingua per l’uso in relazione ad un contesto sociale ed è definito sulla base di tre variabili: campo, tenore e modo
- Campo (field)= ciò di cui si scrive
- Tenore (tenor)= chi sta comunicando e con chi, riguarda il rapporto tra mittente e destinatario
- Modo (mode)= la forma della comunicazione.
Per esempio, il genere lettera commerciale ha un registro formale, il campo è la richiesta di merci, il tenore è un acquirente, il modo è la forma scritta. Shaw diceva che è bene distinguere tra lo “scopo del testo”, che è “variabile e privato”, e lo “scopo del genere”, che è ciò che determina la forma del testo. Per Snell-Hornby: i testi sono forme ibride, strutture multidimensionali, risultato di una combinazione di caratteristiche che possono talvolta sembrare in conflitto tra loro e, quindi, qualsiasi categorizzazione in tipologie testuali funziona come indicazione prototipica rispetto alla quale osservare eventuali sovrapposizioni e mescolanze. Secondo Mauranen, un’eccessiva standardizzazione impedisce la creatività e l’innovazione. In conclusione, le categorizzazioni sono utili in quanto guida di analisi testuale, ma il traduttore deve utilizzarle con flessibilità cercando di scoprire le caratteristiche specifiche del testo che ha davanti per analogia o differenza rispetto a un determinato canone corrente. Per esempio, il romanzo è un genere che assomma diverse funzioni: dal raccontare una storia all’esprimere un messaggio esteticamente bello. Anche la tragedia esplicita diverse funzioni: informativa, mitica, celebrativa, agonale, e così via. Nella tragedia i vari fruitori hanno visto rappresentati per secoli nei teatri gli eventi di un lontano passato. La tragedia è un tipico genere della memoria, oltre che della trasfigurazione mitica. Si tratta di un’opera artistica diffusa soltanto in Occidente perché, secondo la tesi di Steiner, solo qui vi è la concezione del fato che dirige tutti gli avvenimenti nonostante il volere delle persone. La tragedia implica un protagonista che viene travolto dagli eventi negativi senza un rivolgimento positivo. In questo modo la tragedia, che nasce nel mondo greco, dimostra di essere profondamente diversa dal pensiero ebraico, il quale presuppone che l’uomo passi una via crucis per opera di un Dio buono e giusto, la quale quindi ha uno scopo, un senso ed è volta alla fine al bene del protagonista, come il Giobbe biblico. Anche l’insistenza marxista sulla giustizia e sulla ragione è tipicamente di stampo ebraico. Per esempio, nella caduta di Gerusalemme o di Gerico abbiamo in atto la volontà del Dio giusto, che trasforma queste vicissitudini umane secondo un piano di riscatto. Invece con la caduta di Troia, che brucia per l’odio irrazionale dell’uomo, schiavo delle sue passioni, abbiamo per la prima volta nella storia una tragedia: è una catastrofe totale, cioè senza che sia stata decisa dal Dio giusto per i suoi piani altrettanto giusti. Per esaltare quel lontano passato trasfigurato secondo le categorie del mito, la tragedia è in versi. La tragedia in prosa è una idea moderna e per molti poeti e critici sembra ancora un paradosso. La tragedia deriva da antiche cerimonie festive o funebri, quindi è inseparabile geneticamente da un linguaggio intensamente lirico e solenne, che ha lo scopo di celebrare in chiave drammatica gli eventi che furono. La prosa invece sottopone le proprie affermazioni a criteri di verifica estranei o inapplicabili alla realtà del mito. Ed è sul mito che si basa la tragedia, il cui verso è la principale barriera che divide il mondo della solennità da quello dell’esistenza comune. Re, profeti e eroi parlano in versi dimostrando così che i personaggi rappresentativi di una comunità usano un linguaggio più nobile e antico di quello riservato ai comuni mortali. In sé stessa, strutturalmente, la lingua serve a tramandare la memoria dei fatti. La parola è un guado nel passato. E per un intellettuale niente è più importante del passato, su cui fonda anche la ricerca del nuovo, perché il presente poggia sempre su ciò che è stato. Quindi guai ai falsi maestri, i quali in questo modo danneggiano la memoria. È tipico degli intellettuali di ogni generazione criticare i loro colleghi e soprattutto quelli del presente. Pensano che il passato nel quale hanno studiato sia di gran lunga migliore del presente nel quale si sarebbe perduta la giusta passione o applicazione per lo studio. Le generazioni più anziane spesso criticano quelle più giovani per frivolezza o superficialità. È passato molto tempo, ma, a titolo di esempio, riportiamo quanto già nel mondo romano diceva in merito Tiberio Claudio Donato.Tiberio Claudio Donato è stato uno scrittore romano del V secolo d. C. È autore delle Interpretationes Virgilianae, un commento molto prezioso al poema epico di Virgilio. Egli scrive (Proemio 1):
<Post> illos qui Mantuani vatis mihi carmina tradiderunt postque illos quorum libris voluminum quae Aeneidos inscribuntur quasi quidam solus et purior intellectus expressus est, silere melius fuit quam loquendo crimen adrogantis incurrere. Sed cum adverterem nihil magistros discipulis conferre quod sapiat, scriptores autem commentariorum non docendi studio, sed memoriae suae causa quaedam favorabili stilo, multa tamen involuta reliquisse, haec, fili carissime, tui causa conscripsi, non ut sola perlegas, sed ut conlatione habita intellegas quid tibi ex illorum labore quidve ex paterno sequendum sit.
“Dopo coloro che mi hanno trasmesso i carmi del poeta mantovano e dopo coloro grazie ai cui libri è stato espresso il significato per così dire unico e autentico dai libri che hanno come titolo Eneide (dei libri dell’Eneide), sarebbe stato meglio fare silenzio/tacere, piuttosto che parlando incorrere nell’accusa di essere arrogante. Tuttavia, quando mi accorsi che i maestri non comunicano ai loro studenti niente di assennato e che poi/invece gli scrittori di commentari (di commenti esegetici) non animati da un desiderio di insegnamento ma per la loro memoria hanno scritto alcune cose con uno stile piacevole e hanno lasciato tuttavia molte cose intricate, queste cose, o carissimo figlio, ho messo insieme a tuo beneficio. Non affinché tu legga solo queste cose ma affinché tu fatto un confronto possa capire che cosa tu debba seguire dalla loro fatica e che cosa dalla fatica paterna”.
Donato si rivolge al figlio seguendo la topica proemiale che prevede un appello al dedicatario. In aggiunta esprime una duplice critica relativa al campo dell’esegesi virgiliana del tempo, che si basa sulla contrapposizione netta tra presente e passato, cioè di un presente in cui studia il figlio e di un passato in cui ha studiato il padre, esaltando il passato. Prima, infatti, i maestri di scuola insegnavano cose sensate, adesso no. La critica è rivolta all’insegnamento grammaticale del testo virgiliano proposto nelle scuole. La seconda critica è rivolta agli autori dei commentari perché questi avrebbero lasciato tutto intricato, senza intento didascalico. Questo è il senso di favorabilis. Il commentario di Donato è suddiviso in paragrafi (così è più agevole muoversi), ma nell’edizione Georgii abbiamo l’indicazione delle linee. Post: è frutto di un’integrazione. Siccome la i di illos, nel codice L, è scritta come una lettera decorata, non è credibile che il copista abbia potuto tralasciare la prima parola. È verosimile che nell’archetipo, post non ci fosse e che rappresenti una congettura di qualche manoscritto. Pur partendo da uno stemma erroneo, Georgii comprende che post è un’aggiunta e lo comprende su base paleografica. Decide di espungerlo sostenendo che vi sia una sorta di apokoinou con il postque successivo e in apparato cita riferimenti che supportano la teoria per cui si possa sottintendere post all’inizio sulla base di quello che segue. La scelta di Georgii è sostenuta da Berens che evidenzia il fatto che in epoca tardo-antica il primo elemento venisse spesso sottinteso e ricavato dal secondo. Memoriae suae causa: il termine memoria ha uno spettro semantico ampio e vario. Il nesso è un po’ ambiguo. Molti interpretano con “idea di memoria” come “fama”. Il senso però non è soddisfacente perché poco dopo di ce che chi ha scritto commentari ha lasciato molte cose favorevoli ma altre “involuta”. Molti dei commentari sono memorie personali, appunti scritti a sostegno della memoria, per cui non c’è il bisogno di scrivere in modo piacevole. A dimostrazione di ciò vi sono diversi passi: il termine commentarius/um è molto complesso e ha vari significati; il parallelo greco è ypomnema. Originariamente indicava delle opere scritte, dei registri privati o pubblici scritti per conservare memoria di eventi. Il termine poi venne importato nel campo della filologia e inizia a significare “trattato”, per poi specializzarsi come “commento”. Aulo Gellio ci informa del fatto che Nigidio Figulo aveva scritto commentaria ad subsidium memoriae senza pensare ad un lettore ipotetico. In ambito greco, un autore come Galeno dice di aver scritto molti ypomnemata, alcuni destinati al pubblico, altri per uso privato, e li aveva scritti eis anamnesin (“per ricordarsi”). Il nesso, dunque, indica la funzione di ricordare tipica del commentarius. L’intento non è puramente didattico.L’idea che commentarius abbia qualcosa a che fare con il ricordo deriva anche dalla connessione con la radice indoeuropea del ricordarsi. In greco la distinzione è più precisa tra mneme e anamnesi, mentre in generale il latino usa memoria. Riportiamo il seguito del Proemio:
Non enim aut illi omnia complexi sunt, ut res ipsa indicat, aut ego tanta composui quae te possint ad pleni intellectus effectum competenter instruere. Quocirca, ut dictum est, lege omnia et, si forte nostra aliis displicebunt, tibi certe complaceant quae filio pater sine fraude transmisi.
“Infatti né essi (gli altri) hanno abbracciato ogni cosa, come la realtà stessa indica, né io stesso ho scritto così tante cose da poterti indirizzare competentemente al raggiungimento della piena comprensione, per questo motivo, per come si è detto, leggi ogni cosa. E anche se per caso, questa cosa dispiacerà ad altri, di sicura piacciano almeno a te le cose che ti ho affidato (termine tecnico) da padre a figlio senza inganno”.
Donato inserisce un elemento di falsa modestia tipico della retorica proemiale. Lo scopo delle Interpretationes è quello di indirizzare alla piena comprensione in modo conveniente chi legge.
Bibliografia
- B. Di Sabato, E. Di Martino, Testi in viaggio. Incontri fra lingue e culture, attraversamento di generi e di senso, traduzione, Torino 2011;
- E. Jezek, Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni, Bologna 2011;
- G. Steiner, La morte della tragedia, Milano 2021;
- L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Milano 2011.