Giovanni Spadolini fu, fin dall’inizio, un amico sincero del Centro “Pannunzio”: con la sua autorevolezza seguì le sue attività e partecipò ad esse con una continuità, nel corso degli anni, davvero eccezionale.

Dai primi incontri milanesi – quando divenne direttore del “Corriere” – alle grandi manifestazioni in ricordo di Pannunzio, di Salvatorelli, di Casalegno e di tante figure di quella che lui definì l’“Italia della ragione”, la storia del Centro è punteggiata dal nome di Spadolini che, non a caso, ebbe nel 1982, quand’era Presidente del Consiglio, il Premio “Pannunzio”. Negli Annali del Centro “Pannunzio” del 2002-2003 è stato pubblicato il discorso che tenne il 23 ottobre 1982 al Ristorante del “Cambio”, un discorso che andrebbe riletto per comprendere come in Spadolini fosse presente l’eredità di Pannunzio e del “Mondo”. Certo Spadolini aveva motivi di profonda gratitudine nei confronti di Pannunzio che lo aveva accolto al “Mondo”, malgrado le sbandate giovanili a Firenze durante la Repubblica di Salò e l’esaltazione di Giovanni Gentile. Pannunzio era molto intransigente su certo temi, ma con Spadolini fu invece molto comprensivo.

Sono state innumerevoli le volte che Spadolini venne a Torino a parlare in qualche convegno del Centro, portando la sua testimonianza di studioso e di statista.

Alla notizia della sua morte, nell’agosto del 1994, molti di noi ci siamo sentiti orfani di un’amicizia che contribuì in maniera determinante al successo del Centro “Pannunzio” perché Spadolini ebbe immediata fiducia in quel gruppo di giovani che, sotto la guida di Arrigo Olivetti, volle dar vita a Torino ad un centro di cultura intitolato a Pannunzio, proprio nell’anno della contestazione e dello scontro frontale tra generazioni.

Fondare a Torino nel 1968 un Centro che si richiamasse al “Mondo” ed alla cultura liberale, fu una sfida di non poco significato e Spadolini fu con noi in quell’impresa che allora sembrava disperata.

Di particolare rilievo fu la collaborazione che si stabilì nel 1975, quando Spadolini, Ministro per i Beni Culturali, fu decisivo per consentirci la realizzazione della Mostra dei disegni di Leonardo presso la Biblioteca Reale di Torino, strenuamente voluta dai nostri compianti amici Valdo Fusi e Giacomo Volpini. Altro momento saliente del nostro sodalizio fu quando Spadolini divenne Ministro della Pubblica Istruzione e cercò, pur nel breve periodo in cui rimase alla Minerva, di arginare il facilismo della scuola italiana post-sessantottesca.

Ci sono decine di lettere e messaggi di Spadolini indirizzati al Centro “Pannunzio” ed a chi scrive.

Negli ultimi anni Giovanni sentiva il suo impegno politico in modo drammatico e presagiva la fine di un’epoca, quella della Prima Repubblica, che non fu comunque una pagina ingloriosa della storia d’Italia, come per anni si è detto.

Già nel 1989 mi scriveva: “Quando diventai presidente del Senato, qualcuno parlò di ‘porto dorato’. È stato ed è luogo di battaglie politiche perfino più difficili degli altri: perché mi impegna a osservare le regole della totale imparzialità in un mondo dove tutto è parziale, partigiano, fazioso”.

In occasione della mostra “Sfogliando il ‘Mondo’” promossa dal Centro nel quarantennale dell’uscita del settimanale pannunziano, scriveva testualmente: “Devo confessare, caro amico, che questi quarant’anni mi sembrano più lunghi di un secolo. Talvolta mi sentirei come l’Ottuagenario di Nievo e mi resta solo il desiderio di scrivere, sì, quelle veramente, le confessioni di un italiano”.

In un fax del 14 gennaio 1993 osservava senza ricorso a perifrasi diplomatiche: “Il caos imperante nella vita italiana non mi consente di prendere impegni a distanza neanche di una settimana”.

Spadolini ha vissuto la crisi della vita politica italiana di quegli anni con un’autentica sofferenza fisica che sicuramente ha accelerato la sua morte.

Sulla sua tomba a Firenze ha voluto che fosse semplicemente scritto: Giovanni Spadolini, un italiano.

Fra i collaboratori del “Mondo” di Pannunzio (su cui scrisse per un periodo brevissimo a partire fin dal primo numero) è stato quello che più di ogni altro ha mantenuto fede alle sue origini pannunziane, dedicando un libro alla Stagione del “Mondo” che dimostra con che interesse egli abbia costantemente ricordato la lezione avuta nelle stanze in via Campo Marzio, dove il “Mondo” nacque nel 1949.

Spadolini dopo che per anni riuscì a far convivere in modo quasi rocambolesco l’insegnamento universitario con la direzione di due quotidiani, dopo l’elezione al Senato nel 1972 scelse la politica a tempo pieno,trascurando totalmente la ricerca storica. I suoi libri non vengono più stampati da molti anni e il suo apporto agli studi storici oggi non appare significativo se non per l’attenzione giovanile da lui rivolta al mondo cattolico e ai suoi rapporti con Giolitti.

Sul piano politico, quando assunse alla morte di La Malfa la segreteria del Pri, spostò gradatamente il partito dalla sinistra democratica dov’era collocato (le lamalfiane “idee chiare della sinistra”) al “centro del centro”, posizione che gli consentì di raggiungere un successo elettorale del tutto inedito per il piccolo partito repubblicano.

Alcuni pensavano che il prof. Spadolini si sarebbe sentito impacciato nel ruolo politico, forse lo era nel 1972 quando si candidò, ma quasi subito apprese l’arte della politica meglio di tanti altri. Assistetti ad un suo comizio di esordio in cui prevaleva ancora il professore, ma l’esperienza giornalistica e la facilità di eloquio fecero sì che il comizio si rivelasse in un vero successo.

Sul tema del “compromesso storico” che La Malfa riteneva ineluttabile, non si espresse mai, malgrado le sue ascendenze fossero laico-moderate e da direttore del “Corriere della Sera” avesse denunciato il pericolo di una “Repubblica conciliare”.

Suo merito indiscusso fu la fermezza nei confronti del terrorismo e aver denunciato il pericolo degli “opposti estremismi” che minacciavano la democrazia italiana.

Non privo di ombre, come presidente del Consiglio, fu l’invio a Palermo come alto commissario antimafia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, lasciato in balìa di sé stesso e della criminalità organizzata.

Come capo del Governo, il primo laico nella storia della Repubblica, non sostenuto adeguatamente da una maggioranza piuttosto rissosa, non riuscì a concludere molto, ma ebbe la capacità comunicare ai cittadini un’inversione di tendenza che gli portò un consenso elettorale considerevole.

Fu tra quelli che non solo non si opposero, ma furono i promotori di un’alleanza elettorale laica tra repubblicani e liberali che si rivelò deludente. I due partiti divisi raccoglievano maggiori consensi: prova di un elettorale di opinione incapace di capire il senso di un’alleanza che semmai si rivelava del tutto tardiva.

La sua figura di politico è oggi consegnata alla valutazione degli storici futuri, anche se va detto preliminarmente che fu uno dei migliori uomini della I Repubblica ormai in stato preagonizzante.

Saragat gi rimproverava di “non aver sofferto” come la sua generazione gli anni dell’opposizione al fascismo, ma il giudizio di Saragat appare ingeneroso, essendo Spadolini nato nel 1925.

 Aveva colto il segno della crisi della I Repubblica, ma non ebbe la possibilità di dare il suo apporto ad un cambiamento di rotta che potesse modificare una sorte che forse era già segnata.

Il suo egocentrismo era sicuramente esagerato e tale a volte da non fargli comprendere il contesto nel quale si muoveva ed ancora in vita si era costruito a Pian dei Giullari una sorta di casa-biblioteca che faceva più pensare ad un suo mausoleo. L’unica grande attenzione che Spadolini dedicò fu rivolta alla stampa che sicuramente accompagnò la sua ascesa politica in modo considerevole.

Per oltre vent’anni collaboratore de “La Stampa” che impreziosiva dei suoi elzeviri, non mancava mai, passando per Torino, di recarsi alla sede del giornale. Alcune volte mi capitò di accompagnarlo e ricordo che una volta con un redattore che si era permesso di tagliare un suo pezzo, si spazientì. Sono famose le scenate verso i sottoposti che sovente subirono per anni gli sfoghi di chi in pubblico seppe sempre mantenere un comportamento ineccepibile che lo fece distinguere come stile dagli altri politici.

Si trattava di piccole, inevitabili debolezze umane che non tolgono quasi nulla al professore-politico che ha lasciato una testimonianza magari in parte discussa, ma certamente ispirata all’onestà personale più assoluta.

Quando, a dieci anni dalla sua morte, lo ricordammo alla biblioteca del Senato con un numero degli “Annali” a lui dedicato trovammo molta freddezza, se si eccettua la partecipazione del presidente Marcello Pera. Ad appena dieci anni il suo ricordo appariva cancellato, disperso, rimosso.

Sembra incredibile che uno dei pochi che vantassero le sue origini repubblicane vicine a Spadolini fosse un allora ignoto Denis Verdini.