Giulio Bedeschi: ( Vicenza 1915 – Verona 1990) era sottotenente medico degli alpini.
E apro subito una parentesi che spiega i motivi per cui ho risposto con entusiasmo all’invito del prof. Quaglieni ad essere qui oggi per un breve contributo, oltre al mio interesse per il Centro Pannunzio, di cui mi onoro far parte. Mio padre era coetaneo di Giulio Bedeschi; è stato ufficiale del 2° reggimento alpini di stanza a Cuneo. Partecipò alla guerra sul fronte greco albanese dove fu ferito e non andò in Russia, ma la sua dedizione per gli alpini si concretizzò anche anni dopo la fine del conflitto. Fu infatti promotore e presidente del comitato esecutivo per la costruzione del sacrario dedicato agli alpini versiliesi che non sono tornati, inaugurato nel 1972. L’altro motivo per cui mi sento coinvolta oggi è che io sono Presidente della prestigiosa Associazione Medici-Scrittori Italiani, fondata nel 1951. Giulio Bedeschi fu uno degli illustri soci del sodalizio tuttora vivo e vivace, dove umanità e umanesimo trovano sbocco nell’uso della parola scritta.
Dunque torniamo a lui che oggi brevemente ricordo per presentare un raro documentario sulla drammatica campagna di Russia e da Giulio Bedeschi curato. Viene considerato un esempio chiaro di autore di memorialistica romanzata degli anni sessanta: NON FU UNO STORICO, ma piuttosto l’uomo che diventa la storia, con scarsa critica, senza analisi di responsabilità o colpe.
Giulio Bedeschi contribuirà a rappresentare la condizione umana del periodo bellico con un fine universale: il rifiuto della guerra e della sua logica. Guerra denunciata come negazione dei valori umani. Nei suoi libri parla a tutte le persone, proprio secondo i criteri dei medici scrittori “Non oggi medico e domani scrittore, ma questo in quello, medicina e letteratura s’illuminano vantaggiosamente a vicenda” scriveva Thomas Mann in Giuseppe il nutritore.
Medico che scrive, dunque in una sorta di dicotomia, dove la razionalità e l’obiettività del medico, la sua creatività ( in fin dei conti la medicina è un’arte) si fondono con il dramma esistenziale vissuto, con la sensibilità e con la fantasia: un esercizio all’uso sensibile della parola assolutamente catartico che non ne fanno certo uno storico, ma solo un testimone attraverso il romanzo. La sua esperienza arrivò a farsi leggere da tantissima gente e questo lo rende un emerito a mio avviso per quanto riguarda il rispetto della vita del singolo uomo.
Giulio Bedeschi, sopravvissuto, dopo la disastrosa campagna di Russia scrisse il primo memoriale- romanzo “Centomila gavette di ghiaccio” in cui il protagonista , lui stesso, si fa chiamare Italo Serri. Anche tutti gli altri nomi del romanzo sono fittizi, per tutelarne giustamente la privacy, perché la storia narrata è sostanzialmente aderente alla verità dei fatti accaduti, senza retorica e senza eroi L’unico nome reale Antonio Covre, fedele attendente del protagonista. In questo romanzo corale ricordiamo altre figure come il tenente Reitani, comandante della batteria ventisei della mitica Julia, siciliano di ferro o Scudrera testardo come il suo mulo o Pilon gigantesco eppure gentile animo di poeta. Il punto di vista è quello dei soldati (Anzi “dei morti” scrive lo stesso Bedeschi). Composto tra il 1945 e il 1946, oltre 400 pagine, attutì per lui almeno in parte il trauma bellico. Il libro di Giulio Bedeschi fu pubblicato da Mursia solo nel 63 nella collana “testimonianze” e nel 64 vinse il Premio Bancarella. Il libro si apre con una breve parte dedicata alla campagna di Albania e segue la seconda parte ben più cospicua con la storia di un piccolo reparto alpino impegnato nella campagna di Russia in una guerra improba : muli contro autoblindo, piccoli cannoni di montagna contro carri armati. Niente ci viene risparmiato: descrizioni minuziose di carni martoriate e ferite orribili. Eppure i soldati russi appaiono solo sullo sfondo , contro di loro nessun odio conclamato
Il libro termina quando dopo il 27 gennaio la 13° batteria di Bedeschi si riunì al comando del corpo d’armata e fu, dopo varie peripezie, soccorsa dai servizi dell’ARMIR ( la gloriosa 8° armata italiana in Russia). Celebri tanti passaggi forti, emotivamente coinvolgenti: LETTURA:
“Sulla neve di Russia la colonna avanzava ininterrottamente puntando all’ovest, dolorando per centomila membra ma instancabile, infrenabile nell’intero corpo in movimento; abbandonava sulla neve i relitti procedendo senza tregua, ed erano ormai corpi vivi che si reclinavano sulla neve, corpi d’uomini che si abbattevano di schianto o poggiavano il ginocchio incapaci a sollevarlo e si chinavano quindi in giù, sempre più in giù con le braccia che affondavano fino al polso, poi fino al gomito, tirate giù dal demone della neve; l’uomo in ginocchio s’afflosciava lentamente, vinto dal richiamo irresistibile […] la neve è morbida come un materasso e non è neppure fredda; si può appoggiarvi perfino la guancia e la fronte senza danno, pare un cuscino, per un minuto solo ci si può stare… i compagni poi si possono raggiungere in fretta, dopo il riposo… questo buon riposo… sulla neve… la neve… un cuscino… non c’è freddo… né fame… né stanchezza… solo sonno… un po’… di sonno… sulla… neve…” Capitolo XXV, p. 316-17
Altro libro, il seguito del primo, “ Il peso dello zaino” ne è la naturale integrazione e completamento : i superstiti dell’armata italiana in Russia si ritrovano in Italia, feriti nel corpo e nell’anima e sembrano pedine senza volontà propria, ci vuole tempo, se e quando può bastare, per metabolizzare almeno in parte un così grave trauma.
“La mia erba è sul Don” è un romanzo della memoria che racconta la guerra alle nuove generazioni: il protagonista, sempre lui, tornato alla vita civile viene avvicinato dalla vedova di un caporal maggiore e con lei parla a lungo.
“Nikolajewka, c’ero anch’io”: Su questo libro mi soffermo un attimo di più: si tratta di voci vive, dirette e indirette di reduci, a volte lamentose a volte imperiose che a distanza di decenni si alza per ricordare il sacrificio degli alpini nella battaglia di Nikolajewska, nella grande sacca del Don, quello sciagurato 26 gennaio del 43: un feroce scontro tra le incalzanti truppe sovietiche , l’armata rossa, e le forze residue del così detto Asse ( Italo tedesco ungherese). Si trattò di un caotico annientamento delle truppe italiane che furono decimate.
Tra gli alpini che presero parte a questa battaglia, oltre a Giulio Bedeschi, don Carlo Gnocchi che era cappellano volontario militare e che tanto conforto portò a credenti e non , venerato come beato dalla chiesa cattolica; Mario Rigoni Stern, celeberrimo il suo “sergente della neve”, premio Viareggio e Storia di Tonle, premio Campiello. C’era anche Nuto Revelli che scrisse “Mai tardi, diario di un alpino in Russia nel 1946”. Lo stesso racconto ripubblicò nel 1962 con un titolo diverso “la guerra dei poveri”.
Un altro autore visse e descrisse questa tremenda pagina di storia: fu Eugenio Corti, di cui ricorre il centenario della nascita , era nato nel 1921 e morto nel 2014 e che merita da solo un ricordo per i grandi meriti letterari. Medaglia d’argento al valore militare e medaglia d’oro come benemerito della cultura e dell’arte, fu proposta la sua candidatura al Premio Nobel per la letteratura. Era un brianzolo puro e tenace , scrisse “I più non tornano” e a seguire:” Il cavallo rosso” un imponente romanzo storico, di cui proprio in questi ultimi tempi è uscita una ristampa. E tanto altro scrisse . Sono andata a trovarlo, con Gianfranco Brini che già lo conosceva, pochi mesi prima della precedente relazione su Bedeschi e la campagna di Russia che portammo insieme proprio qui al Centro Pannunzio nel 2012. Corti era molto anziano ma lucidissimo e gentile, lo ricordo con grande rispetto. Ciò che disse subito, appena ci vide, ricordando quella immane tragedia fu la tremenda temperatura invivibile di quel tempo e di quei luoghi, meno trenta gradi quando andava bene. Che impediva o rallentava anche il pensiero. La realtà, diceva sgranando gli occhi e fissandoli nei miei, era in tutto e per tutto molto peggiore di quanto potremmo immaginare.