Il conte Hermann Karl von Keyserling (1695-1764) era negli anni Quaranta del secolo XVIII ambasciatore di Russia presso la corte di Dresda. Amante della musica e fervente ammiratore e protettore di Johann Sebastian Bach, soffriva di insonnia e voleva che il suo clavicembalista, Johann Gottlieb Goldberg[1], allievo del Kantor, gli suonasse per notti intere della musica valevole a rendergli tollerabile il troppo lento scorrere delle ore. Pensò anzi di invitare il Maestro a scrivere appositamente qualcosa per lui e ne sortirono (1741-42) nientemeno che le trenta meravigliose variazioni su un tema di sarabanda dello stesso Bach risalente al 1723, universalmente note come Goldberg-Variationen –BWV 988. Il conte, entusiasta della composizione che chiamò «le sue variazioni», non mancava di farsene eseguire una (o più, è lecito credere) ogni notte insonne e compensò Bach munificamente. Così ci racconta Johann Nikolaus Forkel (1749 – 1818), organista, compositore e fondatore della moderna musicologia, autore della prima grande e fondamentale monografia  critica sulla vita e le opere di Bach (1802).  

           Ora, trasferiamoci col pensiero in quelle notti nel palazzo di Dresda. Il clavicembalista che esegue i brani e il gentiluomo nella stanza accanto che ascolta: così si tramanda, ma non stentiamo a supporre che più di una volta il conte lasciasse la sua poltrona per farsi più accosto alla fonte sonora, pur tenendo una ragionevole e corretta distanza dalla strumento, e deliziarsi alle note stupendamente sgranate da Goldberg. Immaginiamo l’assoluto silenzio in cui si espande la musica, le luci smorzate, l’ambiente in armonia con i suoni: alti soffitti, pareti drappeggiate, soffici tappeti. Ma innanzi tutto – insonnia e arredi a parte – un rapporto immediato, funzionale, intimamente giustificato tra il fruitore e i brani fruiti. Se proviamo a chiudere gli occhi e con gli occhi della mente a rivivere questa scena, non potremo, alla riaperura degli occhi fisici, non riconoscere quanto sia assurdo e scomposto, oggi, eseguire le Goldberg-Variationen in una sala da concerto, sia pure elegante e istoriata, o in un auditorium di fronte a un pubblico, per mal che vada, di qualche decina (o centinaia) di persone –  pur tutte ovviamente dotate del diritto di godere di tali delizie artistiche. Un’assurdità fonica, acustica, ma soprattutto intellettiva, spirituale. Si apre quindi il problema dello «spazio» (perché l’arte dei suoni, come è ormai appurato, si sviluppa non solo nel tempo ma anche nello spazio) o meglio degli «spazi» della musica, perché ogni genere, forma,  invenzione musicale richiede spazi appositi e sostanzialmente diversi.                                                                   L’inevitabile necessità di portare progressivamente la musica (ma, ripetiamo, con i suoi generi, forme, invenzionidifferenti), come del resto ogni altra espressione artistica, a un pubblico sempre più vasto ha nel contempo creato situazioni non ottimali di cui si è cercato in qualche misura di ridurre limiti e scompensi fondandosi su compromessi accettati anche dal pubblico e dagli artisti nell’impossibilità sociale di eliminare tali situazioni: per cui – solo per fornire un minimo campionario dell’assurdo –  si insceneranno  all’Arena di Verona opere come Traviata o Rigoletto (passi per l’ormai inflazionata Aida!), si replicherà allo sfinimento su tutte le piazze del mondo la Nona di Beethoven (nata per saloni patrizi, ma ben collocabile in sale da concerto o in auditorium, come per lo più la musica sinfonica o concertistica), si eseguiranno  in sedi “profane” i Vespri di Monteverdi la cui esecuzione dovrebbe attuarsi in chiesa o in ambienti analoghi (anche per ragioni acustiche). Benissimo invece per gli spettacoli rock gli enormi spazi aperti, e per il pop e il folk i palasport, anche se può funzionare l’aperto, ancorché circoscritto e differenziato da quello per il  rock. Variabili sono anche gli «spazi» del jazz, a seconda, s’intende, che si tratti di formazioni di tre o quattro esecutori oppure di big bands.

            L’esemplificazione potrebbe continuare ad infinitum, ma poiché siamo partiti dalle supremamente cameristiche Variazioni Goldberg alla musica da camera vogliamo ritornare, come quella che, per sua natura, è la più penalizzata in relazione al problema dello spazio. Lamentando – preliminarmente – la progressiva decadenza nei Paesi latini e mediterranei della civilissima e nobile usanza, in parte ancora praticata nei Paesi di area germanica e nord-europea, di far musica in quello «spazio» realmente privilegiato che è la casa, sede della vera Kammermusik, nel senso più autentico e storicamente corretto, fruita, vissuta vorremmo dire, dagli esecutori stessi e da pochi destinatari compartecipi, è intuitivo come la musica da camera sia quella che più soffra se confinata in spazi ampi che non le competono (sale da concerto, auditorium, o  chioschi all’aperto con inevitabile dispersione del suono). Ma il progresso, che – come sappiamo –  non è immune da profonde e dolorose ricadute riduttive e negative, può tuttavia venire parzialmente in soccorso alla musica da camera e ai suoi ferventi appassionati offrendo il ricorso alla riproduzione discografica. Certo il disco comporta una registrazione fissata una volta per sempre e immodificabile, tecnologica e ne varietur, laddove la musica ha un senso e fiorisce proprio nel suo rifarsi ogni volta dal vivo, sempre sé stessa e sempre rinnovata: per queste ragioni nemici del disco furono grandi direttori d’orchestra come Furtwängler e Celibidache – mentre altri, del pari celeberrimi, ne furono accesi sostenitori e produttori, certo più sensibili anche alle ragioni commerciali. È pur vero che il disco riveste una innegabile utilità come strumento opportuno per un onesto diletto musicale o per studio o per raffronti interpretativi, quindi di aiuto professionale anche per interpreti, cantanti, direttori d’orchestra, compositori. Ciò vale specialmente per la musica da camera, così che può essere talvolta preferibile ascoltarsela in disco in casa propria, magari creando un minimo di condizioni adatte, piuttosto che recepirla snaturata in qualche sala immensa o in qualche palasport.                              In proposito, un concertista insigne come Artur Rubinstein in una intervista alla Radio tedesca del maggio 1974 non dubitò di affermare che certa musica (si riferiva in particolare a pezzi pianistici di Brahms) ci guadagna incontestabilmente ad essere ascoltata in casa sul giradischi (ora anche in CD) con la possibilità di cogliere le sfumature, le mezze tinte, le più intime declinazioni predisponendosi ogni volta nella migliore attitudine e nel più congruo raccoglimento (che non sempre – aggiungiamo noi – la sala pubblica offre con le sue mille, sia pure involontarie, ragioni di distrazione) e con la preziosa opportunità del riascolto immediato ove lo si desideri.

            Onore quindi anche a Thomas Edison, inventore del fonografo, e a Emile Berliner, inventore del grammofono, per le loro creazioni, ormai inscindibili dai destini della musica.


[1]Virtuoso clavicembalista e valente compositore (Danzica, 1727 – Dresda, 1756), studiò a Dresda con Wilhelm Friedemann, figlio maggiore di Johann Sebastian Bach, e con questi a Lipsia. Nel 1751 succedette a Georg Gebel come Kammermusikus della  Cappella del conte Heinrich von Brühl.