Da dove nasce l’esigenza di un governo di unità nazionale? Dallo strappo di Renzi? Sicuramente, ma più in generale dalla situazione determinatasi nelle urne, alle ultime politiche. Riassumiamola brevemente. La XVII legislatura si è aperta nel 2018 con una sostanziale quadripartizione del parlamento: ai due blocchi storici CentroSinistra (CS) e CentroDestra (CD), minoritari, si sono affiancati i due movim enti populisti Cinque Stelle (che chiameremo G come grillini) e Lega (L). I risultati a favore di questi ultimi hanno subito escluso sia un governo di CD e L, possibile per affinità storica, sia una Grosse Koalition alla tedesca, con CS e CD che lasciasse i nuovi movimenti all’opposizione. Essendo politicamente improponibili alleanze Lega e Centro Sinistra o Cinque Stelle e Centro Destra, delle sei combinazioni matematicamente possibili ne rimanevano solo due. G ed L, governo Conte 1, G e CS, governo Conte 2. Esaurite tutte le possibili combinazioni di due elementi su quattro, non resta che prendere in considerazione quelle di tre o più elementi; da qui il governo di unità nazionale. Le maggioranze sono sempre un problema matematico, la politica si adatta di conseguenza. Chiarito ciò, possiamo valutare le conseguenze politiche dell’operazione Draghi. La più vistosa è che non tutte le forze parlamentari lo sostengono: si stanno delineando opposizioni, marginali, sia a destra che a sinistra. Fratelli d’Italia si è subito sfilato, rompendo la decantata compattezza del centro-destra. Decantata da Salvini, che si proponeva come leader unico ed oggi è il primo perdente, perché dovendo scegliere se fare opposizione, pestandosi i piedi con Meloni, o essere maggioranza e partecipare alla spartizione del Recovery Fund, ha scelto la festa, ma è chiaro a tutti che Berlusconi sarà l’interlocutore moderato più credibile. Sull’altro fronte si sta consumando la scissione grillina: i quaranta deputati espulsi giocheranno il ruolo dell’opposizione a sinistra, mentre il grosso del movimento si è già appiattito sulle posizioni del governo. Non solo, i numeri della fiducia (262 al Senato, 535 alla Camera) sono talmente alti che il governo si può sostenere anche nel caso che Lega o Cinque Stellesi sfilassero o votassero contro qualche provvedimento. Il che impedisce ad entrambi di assumere la posizione di primadonna capricciosa, senza cui lo spettacolo non va in scena. Al suo insediamento, Draghi è dunque riuscito ad ottenere il netto risultato politico di spezzare entrambi i fronti populisti, riducendoli ad una tregua armata, in cui entrambi sono non determinanti. Dividi et impera. Machiavellico. Geniale. Meno male che è «solo un tecnico»! Passiamo al programma o, meglio, alle dichiarazioni di intenti. Rilevante è il cambio di passo e di metodo: l’insistere sulla competenza, sulla lungimiranza delle riforme strutturali, sugli investimenti piuttosto che sulle elargizioni a pioggia, sono punti significativi ed importanti che segnano un discontinuità rispetto al decadimento del dibattito pubblico degli ultimi anni. Come questo potrà essere portato avanti, con una maggioranza così variegata e con elementi di continuità nel governo che non mi sarei aspettato, è nelle mani delle capacità di Draghi. Il compito è arduo per i forti limiti temporali: Probabilmente non più di un anno, il tempo di eleggere il Presidente della Repubblica, sicuramente non più di due, per scadenza della legislatura. Con il rischio che questo anno sia dedicato, per sei mesi all’emergenza pandemica, per gli altri sei alla campagna elettorale. Con questi limiti è difficile portare a casa, ad esempio, una riforma complessiva della tassazione; per quanto possa essere ben concepito, qualsiasi meccanismo ha bisogno di iterare almeno due o tre volte per poter essere limato e messo a punto; non basta uno scorcio di legislatura. Un’altra questione inizia a fare capolino: i governi di unità nazionale hanno sempre politicamente deresponsabilizzato le decisioni impopolari. Possono permettersi di imporre una patrimoniale laddove un governo politico (di destra o sinistra è irrilevante) avrebbe serie difficoltà. Oggi si spera che l’entità del Recovery Fund, possa evitarlo, ma nei momenti difficili, si pone sempre il problema di dare l’oro alla Patria. Mussolini nel 1935 lo chiese, l’amato Giuliano nel 1992 lo prese, direttamente dai conti correnti. A Draghi ed all’Italia vanno i miei più sinceri auguri di realizzare quanto più possibile, per sbloccare un paese da troppo tempo ingessato. Il primo passo è stato fatto: cambiare i toni, i temi e le prospettive. Se questo metodo rimarrà anche nella prossima legislatura, sarà già un grande risultato.
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