Il 19 dicembre 1883 nasceva a Torino  il poeta Guido Gozzano. Pubblichiamo il testo della lezione tenuta dal prof. Pier Franco Quaglieni su” Guido Gozzano e il suo tempo “, una lezione davvero magistrale, un classico in cui lo storico e il raffinato letterato e studioso di Guido Gozzano ripercorre la vita e l’opera del poeta.

È possibile «commemorare» Gozzano, senza tradirlo?

Gozzano non ama il passato, lo accarezza scherzosamente. Un «ripescaggio» di sapore commemorativo gli darebbe fastidio, ma soprattutto ci impedirebbe di capirlo, e quindi di ricordarlo, così com’è stato.

Forse converrà allora limitarsi a leggere Gozzano, ad inquadrarlo nel suo tempo, tentando, se possibile, di liberarlo dal guscio di certe deformazioni.

Il ricordo di oggi, aperto dalla lettura di una sua poesia, sarà concluso da Carlo Enrici che ci farà riascoltare alcuni tra i più celebri componimenti di Gozzano.

Più che le mie parole, hanno importanza le sue: Enrici ci aiuterà ad avvicinarci a Gozzano molto più e meglio di quanto possa fare io. Mi limiterò quindi ad alcuni spunti di riflessione che non pretendono di essere una «commemorazione», ma semmai un invito a leggere (o rileggere) Gozzano, andando oltre certi cliché superati e le superficiali e un po’ forzate interpretazioni che in questi ultimi anni hanno fatto abbastanza discutere, senza, per altro,lasciare un segno.

A diciott’anni io amavo molto Gozzano, a venti lo amavo assai meno perché alla sua Torino avevo preferito quella di Piero Gobetti che, non a caso, lamentava la «stanchezza decadente»[1] del poeta torinese.

Oggi penso in modo più equilibrato, che non sia necessario gettar e La signorina Felicita per la Rivoluzione liberale: cerco sopratutto di capire, senza abbandonarmi a giudizi affrettati guanto ingiusti.

Ho notato stasera molti giovani presenti in sala e, prima di incominciare a parlare, mi stavo chiedendo il purché: c’è forse un «revival» gozzaniano?

Quando io avevo vent’anni preferivo cogliere le rose, piuttosto che rimpiangere di non averle colte. Ma, forse la mia è soltanto una battuta, perché Gozzano non può essere ridotto al poeta delle «buone cose di pessimo gusto», delle «rose che non colsi», del «Meleto» di Aglié dove è bello andare con la donna che si ama…

Forse la sua poesia ha ancora qualcosa da dire ad una generazione di giovani che soffre oggi una crisi di valori e una caduta di ideali che non è meno grave di quella che condusse Gozzano al disincantato ironico scetticismo che domina la sua poesia. Forse molti giovani sentono più vero e più vicino Gozzano di tanti profeti (armati o disarmati che fossero) che hanno ingannato le loro ingenuità ed i loro entusiasmi. Forse si sta insinuando finalmente tra i giovani ciò che Bobbio in tempi difficili vedeva come compito della cultura: seminare dei dubbi, non già raccogliere delle certezze.

E Gozzano, sotto questo profilo, può impartirci, senza volerlo, una laica e smaliziata lezione di umiltà di fronte agli ideali che crollano e alle sicurezze che svaniscono.

TORINO E GOZZANO

Vedo molta gente stasera, eppure Torino è cambiata e certe «nostalgie» gozzaniane, certe immagini di Torino così care ad Augusto Monti, non hanno più riscontro nella realtà. Torino è cambiata; ha subìto un rimescolamento che la rende tanto, tanto lontana da quella di Guido.

Ancora vent’anni fa, Franco Antonicelli poteva domandarsi se Torino somigliasse a Gozzano. Oggi l’interrogativo sarebbe improponibile perché, come diceva Valdo Fusi, «la nuova città è spelata e sbagliata e disumana […]: produzione in serie e alla svelta; macchine per abitare: l’anima scappata fuori dai denti»[2].

Scriveva Davide Lajolo con un pizzico di nostalgia per un passato sepolto:

Gozzano è nato a Torino il 19 dicembre del 1883 in via Bertolotti 2. Siamo al centro di Torino, tra le vie della grande storia e della piccola storia. C’è Torino con la sua aristocrazia provinciale, i suoi re campagnoli; il suo dialetto mezzo francese e un italiano accademico, la città con i suoi pregiudizi e le sue glorie,le sue divisioni di casta e il suo paternalismo. Strade dove la gente si saluta come tutti uscissero da una stessa casa. Ma c’è la riverenza al signore e il cenno compiaciuto al povero,la grettezza e la beneficenza, l’odore di chiesa e uno spirito anticlericale, l’amore ai gerani come se anche sulle finestre nere dei grandi palazzi dovesse continuare il colore e il profumo della campagna che spunta, girata la strada, sulle piante della collina[3].

È tutto finito. Questa città non esiste più.

Eppure Gozzano, a settant’anni dalla morte, riesce ancora ad attrarre, a farsi leggere, ad esercitare un fascino che va oltre il mito torinese. È legato ad una Torino che non c’è più perché Gozzano è

uno di quei nomi – come ha scritto Giovanni Getto – che risuonano nella memoria come un’eco vivida e folta di reminiscenze, uno di quei luoghi ideali della simpatia in cui si accumulano e fanno ingorgo le immagini e le suggestioni e che proprio per questo finiscono con l’indurre il critico ad una cauta diffidenza e ad un’armata prudenza, dopo il primo momento di abbandono alla riposata lusinga del ricordo[4].

Per capire Gozzano è tuttavia anche necessario andare oltre la «sua» Torino, «una città bella, di una bellezza ardita e composta e piena di promesse»[5] come disse Augusto Monti.

Ma forse va anche detto che ai Torinesi, nei loro rapporti con la città, sta succedendo ciò che capitava a Guido:

I tipi alla Guido Gozzano – scrive Monti – poeti o no, avevano un modo curioso di amare persone e cose: le donne per amarle dovevano prima averle perdute; allora appassionatamente le cercavano, se le sentivano vicine, presenti. E le cose, le terre, i luoghi, finché ci stavano in mezzo era già molto se li potevano sopportare; per desiderarli dovevano scostarsene nello spazio e nel tempo, andarli a cercare di là dall’Oceano, oppure oltre il fiume degli anni[6].

L’ETICHETTA CREPUSCOLARE

E Gozzano, oltre il fiume degli anni, liberato da certi miti un po’ nostalgici, ci appare, come mi disse una volta Franco Antonicelli, un «classico minore» che il tempo non ha condannato all’oblio, anzi l’ha quasi fatto risorgere sulle «ceneri» di Torino.

Guido Gozzano ci appare oggi come uno dei poeti fondamentali del ’900 italiano e non come un nostalgico epigono dell’800 che sta tramontando, ma che sopravvive, attraverso la Belle Epoque, fino alla Grande Guerra.

Mi ricordò tempo fa Mario Soldati, passeggiando a Tellaro «tra il cordame dei velieri»: «Gozzano è stato il primo a provare nostalgia per l’odore dell’aglio, segno che per primo aveva avvertito la fine, per sempre, della civiltà contadina». Un modo singolare, se vogliamo, per sottolineare la modernità di Guido che vive in una città già industriale ed operaia.

Si è scritto per anni che Gozzano è stato un crepuscolare, anzi il più significativo dei poeti crepuscolari, ma oggi non è più possibile accogliere la fortunata quanto imprecisa definizione del Borgese.

Ha scritto a questo riguardo Elio Gioanola:

Mettere assieme, sotto l’etichetta generale di «crepuscolarismo», poeti come Corazzini e Gozzano è diventato quasi impossibile, avendo i due marciato, magari a partire da una comune tematica, su strade stilistiche completamente diverse. […]. Se proprio si vogliono fare dei raggruppamenti, è meglio restare su una base geografica, individuando una «scuola romana», attorno a Corazzini, con legami molto più stretti rispetto ai moduli simbolisti e con ampio sviluppo del patetico, e una «scuola dell’ironia» attorno a Gozzano, con centro a Torino e diramazioni fino alla Romagna di Moretti, caratterizzata appunto dall’ironico rovesciamento del dannunzianesimo in termini prosastici e anti-lirici, mentre la tematica tardosimbolista diventa repertorio del banale quotidiano[7].

Emilio Cecchi ha addirittura sostenuto che la poesia di Gozzano è «per molti aspetti il preciso contrario di quella del Corazzini»[8].

Volendo semplificare al massimo – osserva ancora Gioanola – si potrebbe dire che se dal crepuscolare romano sono venute indicazioni di lirismo puro, adottate dalla linea Ungaretti-ermetismo, dal crepuscolare di Torino è derivata quella poetica dell’oggetto che ha trovato in Montale il suo più alto rappresentante. In ogni caso, mai crepuscolo è stato più foriero di rinnovamenti e auspici di futuro: Gozzano appare oggi una figura decisiva per tutta la lirica del Novecento[9].

Se D’Annunzio e Pascoli hanno segnato una frattura con la poesia precedente, Gozzano non è da meno, anzi la sua poesia stabilisce un distacco netto – tutto novecentesco – anche nei confronti di chi aveva risposto alla crisi della società e della cultura in nome dell’attivismo irrazionalistico e della ricerca di sensazioni forti e raffinate o di chi, ripiegandosi elegiacamente su se stesso, ha percorso la strada dell’umanitarismo sentimentale e dei miti contadini.

LA DIFFICILE SEMPLICITÀ DI GOZZANO

Ho scritto recentemente in un quotidiano un articolo su Gozzano che ha suscitato qualche polemica. Scusate l’autocitazione, ma voglio farla per sottolineare come le osservazioni che ho ricevuto – alcune anche molto sottili – non mi hanno affatto convinto. Anzi, credo che esse siano la dimostrazione della sopravvivenza di un modo vecchio di intendere Gozzano che non immaginavo.

Voglio leggervi alcuni passi di quel breve profilo:

A una lettura superficiale, Gozzano è apparso a molti lettori espressione dell’ultimo Ottocento, di un secolo che storicamente non finisce allo scadere del centesimo anno, ma, sotto moltipunti di vista, dura fino all’attentato di Sarajevo.

Tuttavia, una interpretazione di questo tipo tende a «impagliare» Gozzano nel salotto di Nonna Speranza, insieme alle tele di Massimo D’Azeglio, alle miniature e ai dagherrotipi di buona memoria … Anzi, per un uomo che nasce nel 1883 in una Torino piuttosto deamicisiana, il distacco tra passato e presente è percepito con eccezionale lucidità. Gozzano, infatti, è forse il poeta che ha più consapevolezza della frattura che il nuovo secolo rappresenta rispetto a quello precedente, che per lui diventa oggetto di rievocazione distaccata, ironica, ambigua.

Gozzano, al di là delle apparenze che colpiscono, ma allontanano dalla comprensione della sua poesia, sembra oggi un poeta che agli albori del secolo apre nuove vie insinuandosi – come ha osservato Bàrberi Squarotti – con una sua grazia dimessa e familiare fra i clamori dell’imperante modello dannunziano.

Certo, anche Gozzano è debitore nei confronti di D’Annunzio (che non si può, a sua volta, continuare ad interpretare attraverso una sola chiave di lettura, tendente a farci vedere in lui l’artificio verbale, il superomismo, il nazionalismo …), ma il suo linguaggio poetico supera il dannunzianesimo, riuscendo a far «cozzare l’aulico col prosaico», per dirla con Montale.

Egli stesso scrive ironicamente nella poesia L’altro di avere «lo stile d’uno scolare | corretto un po’ da una serva».

La sua è una poesia dai toni smorzati, lontana dall’epica carducciana, ormai resa obsoleta dal sano realismo giolittiano, una poesia che rivela una scettica crisi delle certezze, il disimpegno ideologico, il rifiuto dei miti.

I temi della malattia e della morte, della diversità del poeta e della improponibilità dell’arte in una società borghese, sono quelli che più rendono Gozzano vivo e leggibile, al di là dei luoghi comuni.

Molti anni fa Mario Fubini mi disse che Gozzano è stato capito da pochissimi, poiché il lettore tende a fermarsi all’apparente e superficiale semplicità della sua poesia; tentare di ridurre Gozzano ad un poeta da sussurrare in un salotto dabbene con tanto di specchiera dorata, è tuttavia un errore imperdonabile.

Nonostante le pagine sottili di Montale, Getto, Sanguineti, Bàrberi Squarotti, Mondo e Guglielminetti, che ci hanno dato la possibilità di comprendere il significato vero della sua poesia, il lettore frettoloso continua ad accostarsi a Gozzano come si sfoglia un ingiallito album con le fotografie della nonna, ritrovato per caso nel «ciarpame reietto» dei solai. In fondo, Gozzano è finito imbalsamato anche lui come Loreto[10].

DALLA BELLE EPOQUE ALLA GRANDE GUERRA

Per comprendere Gozzano è, per altro, indispensabile, liberarlo dal ristretto ambito torinese (che non era però così angusto come si potrebbe pensare a prima vista) e collocarlo nel clima culturale e politico del primo ’900 italiano.

Al di là della frivolezza spensierata della Belle Epoque, c’è in Europa una profonda inquietudine. L’età degli imperialismi che caratterizza l’ultimo scorcio del secolo XIX si prolunga fino al ’14, anzi nel ’14 il grande conflitto che stravolgerà l’Europa, è la logica conseguenza dei nazionalismi che avvelenano il vecchio continente.

L’Italia sembra essere in parte esente da queste inquietudini.

L’età giolittiana appare un periodo di progresso nella libertà e di relativa pace sociale che pone la parola fine all’involuzione reazionaria che aveva dominato la vita politica italiana alla fine del secolo.

Purtroppo la saggezza, l’equilibrio, l’apertura sociale di Giolitti non furono sufficienti a dare un assetto nuovo e stabile ad uno stato piuttosto élitario, nato già vecchio nel 1861.

Per altro, il giolittismo rappresentò nella storia dell’Italia post unitaria l’esperimento più convincente di un liberalismo democratico e in certa misura anche popolare, perché sostenuto da precisi impegni sociali.

Il nazionalismo, il dannunzianesimo, i vari Marinetti che andavano dicendo che la guerra è «sola igiene del mondo» erano destinati a lasciare un segno. Il quadro della cultura italiana è frastagliato e complesso. Il secolo si apre con il fondamentale impegno di Benedetto Croce contro le degenerazioni tozze del tardo Positivismo, la febbre del l’irrazionalismo ed i miti dell’Estetismo decadente.

Ma non meno importante è l’esperienza della «Voce» di Prezzolini e Papini che tenta di aprire un dibattito intellettuale di respiro europeo.

Le battaglie meridionaliste di Gaetano Salvemini pongono all’attenzione dell’opinione pubblica le drammatiche condizioni del Mezzogiorno del paese. Il socialismo italiano sembra lasciarsi sedurre dall’anarchismo mussoliniano che pretende di oscurare il solido riformismo turatiano. Il mito soreliano affascina molti.

La cultura cattolica è scossa dalla ventata modernista, subito condannata da Pio X.

A Torino che sta già assumendo una fisionomia industriale, Enrico Thovez ed Alfredo Meloni, con la rivista «L’arte decorativa moderna» e con l’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna del 1902 lanciano il Liberty[11].

I futuristi, al di là del ribellismo velleitario, pongono un problema reale quando affermano «l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero» di fronte alla civiltà delle macchine e del progresso. Si trattò di una semplice intuizione che non diede risultati apprezzabili se non nel campo delle arti visive, ma certo anche nei confronti del Futurismo molti nostri atteggiamenti vanno rivisti, superando certi «blocchi renali» critici che hanno impedito di valutare a pieno l’importanza di tale movimento che ebbe uno sviluppo internazionale di vaste dimensioni e di ampia portata.

Già Attilio Momigliano individuò nel Futurismo un incitamento »contro la retorica, contro la regolarità e la complessità della nostra metrica e della nostra sintassi», senza lasciarsi sfuggire l’influenza sulla poesia successiva esercitata dal programma futurista «ridotto in forme più misurate»[12]. Per altro, lo stesso Momigliano rilevò come il rinnovamento della poesia operato da Gozzano fosse incominciato prima dei manifesti di Marinetti.

Ma in quei primi anni del ’900 c’erano anche abbondanti residui di retorica carducciana, anche se il nuovo poeta-vate era D’Annunzio: continuavano a suonare, potremmo dire con il Flora, certe «fanfare più o meno eroiche ed erotiche»[13] della fine del secolo scorso.

Lo stesso Pascoli giungerà, in quegli anni, ad assumere atteggiamenti di impegno politico che lo condurranno dall’iniziale socialismo umanitario all’accettazione della guerra di Libia del 1911, vista – in modo ingenuamente equivoco – come impresa «proletaria».

L’alta ed essenziale lezione di Giovanni Verga, il più grande scrittore vivente, era stata messa in un angolo e solo la sensibilità di uno dei critici più acuti del primo ’900, Renato Serra, colse il valore del più grande narratore dell’800 italiano dopo Manzoni.

In quegli stessi anni nasceva la «Riforma Sociale» di Luigi Einaudi che, insieme a Salvemini, rappresenta una delle poche lezioni concrete e serie tra le tante aberrazioni e infatuazioni di quel primo decennio del secolo[14].

Mi sono limitato a delineare un profilo del tutto sommario ed incompleto di questo primo ’900 che ci appare inquietamente ricco di contrastanti fermenti.

L’IRONIA DEL DISINCANTO

I grandi ideali dell’800 romantico erano entrati definitivamente in crisi insieme alle certezze positivistiche.

Gozzano appartiene ad una generazione di giovani che sente la caducità di tutti i valori tradizionali e prova un profondo smarrimento.

Consapevole di essere figlio di un’età di crisi, scrive in Pioggia d’agosto: «La Patria? Dio? l’Umanità? Parole | che i retori than fatto nauseose!…»

E non sa reagire, non vuole reagire: la sua condizione è la stessa di Totò Merumeni che è – ha osservato Salvatore Guglielmino –

un autoritratto di Gozzano e nel suo contempo il ritratto di una generazione che dai testi di D’Annunzio aveva accolto suggestioni e miti di vita inimitabile. Ma quella mitologia è ora da Gozzano vista con lucida consapevolezza, con una disposizione demistificatoria: ne vien fuori una raffigurazione dell’eroe dannunziano ma in controluce[15].

Scrive Gozzano:

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.

Egli sognò per anni l’Amore che non venne,

sognò pel suo martirio attrici e principesse

ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Ed ancora:

Totò non può sentire. Un lento male indomo

inaridì le fonti prime del sentimento;

l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo

ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Non c’è solo in Gozzano una presa di coscienza della vanità dei miti vecchi e nuovi (passò senza neppure scottarsi vicino al fuoco dell’irrazionalismo futurista e nazionalista), ma c’è anche un’ironia disincantata che rappresenta la vera chiave di lettura della sua opera.

Emilio Cecchi parla, a questo proposito, di una «sentimentalità foderata di ironia»[16], mentre Luigi Russo non sembra cogliere la portata dell’ironia gozzaniana quando scrive che essa «uccide a volte la poesia»[17].

Il poeta demitizza non solo se stesso, parlando di «un coso con due gambe | detto guidagozzano» (Nemesi), ma anche la funzione stessa della sua poesia.

Molto acutamente ha scritto Bàrberi Squarotti:

Nella sua poesia si avverte continuamente, nei confronti della mimesi della norma, linguistica e tematica, del mondo borghese una sorta di straniamento che si traduce nella presenza costante dell’ironia. L’ironia indica il giudizio di utopicità sull’effettiva possibilità di far durare la poesia sotto la maschera della mimetizzazione borghese che Gozzano pronuncia nell’atto stesso in cui elenca le buone cose di pessimo gusto del salotto borghese, descrive l’accolita dei torinesi limitati e alieni da ogni manifestazione dell’arte, evoca l’ignorante consorte de L’ipotesi,la «quasi brutta» Signorina Felicita, col padre in fama di usuraio, col molto inclito collegio politico locale, e i villosi forestieri che bussano alla porta della villa di Totò[18].

Bisogna, per altro, distinguere nettamente Gozzano dal «Gozzanismo» di certi imitatori.

Già Renato Serra aveva osservato:

Ognuno conosce la ricetta per far del Gozzano: argomenti provinciali, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, ricami, e del colore di rosa tea; ambiguità dell’amore senza passione, del sentimentalismo senza sentimento e dei profumi senza odore; e poi i versi che sono prosa, le monotonie che diventan varietà e la cascaggine che diventa forza; l’enfasi dell’accento e della rima messa su tutti i punti più banali, quell’aria di dar come nuove e commoventi tutte le cose trite e mediocri. Potremmo ricordare parecchi giovani che sono riusciti bene in questo trucco[19].

Secondo Serra, l’ppera di Gozzano è «soprattutto l’opera di un virtuoso, abile e sottile negli effetti verbali»[20], ma è poesia.

Gozzano – come ha osservato Valter Binni –:

non è solo un giovane borghese annoiato che si confessa ironicamente, che descrive le cose per non saperle sviscerare, che si serve di una cultura per illudere il proprio vuoto, ma è un uomo che sceglie, secondo la sua indole poetica, i modi che esprimono il suo mondo intimo. C’è del duraturo nella poesia di Gozzano…[21]

Il Russo ha colto bene la frattura che egli stabilisce nella poesia italiana, quando ha osservato che «il vecchio letterato è morto anche con Guido Gozzao, che ha visto con chiaroveggenza la miseria del letterato italiano»[22].

Gozzano ci ha lasciato una lezione che è andata oltre il suo tempo, una poesia antiaulica e antiretorica da cui molti poeti novecenteschi hanno, in diversi modi e misure, tratto stimoli significativi. Superando la fiducia dannunziana nelle infinite possibilità della parola, affermando anzi di non essere un vero poeta, egli segnava, come ha detto Edoardo Sanguineti, «una crisi storica»[23], avviando la nostra poesia verso una dimensione davvero contemporanea.

Egli è e resta, sotto molti punti di vista, il primo vero poeta del nostro secolo.

Pier Franco Quaglieni


[1] P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, in Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969, p. 27.

[2] V. Fusi, Torino un po’, Milano, Mursia, 1976, p. 138.

[3] D. Lajolo, Poesia come pane, Milano, Rizzoli, 1973, pp. 104 e 105.

[4] G. Getto, Poeti, critici e cose varie del Novecento, Firenze, Sansoni, 1953, p. 9.

[5] A. Monti, La Torino di Gozzano, in «Video», gennaio 1967, p. 61.

[6] Monti, loc. cit.

[7] E. Gioanola, La letteratura italiana, vol. II, Milano, Marietti Librex, 1985, p. 209.

[8] E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. IX, Milano, Garzanti, 1969, p. 91.

[9] Gioanola, op. cit., p. 213.

[10] P.F. Quaglieni, Vola ancora nell’aria la poesia di Gozzano…, in «Stampa Sera», 4 agosto 1986.

[11] Non privo di interesse, a questo riguardo, è un giudizio di Rossana Bossaglia: «È certamente e direttamente liberty Guido Gozzano a cui una disattenta lettura delle sue poesie più note ha attribuito una fama di affettuoso dileggiatore del nuovo stile; mentre, egli, appunto, in nome della raffinatezza dell’oggetto liberty e identificandosi con quell’atmosfera di misurato cinismo borghese di cui faceva proprie tutte le ragioni psicologiche se non quelle etiche, rifiutava, in un celebre verso, il cattivo gusto del bric-à-brac ottocentesco» (Il liberty, Firenze, Sansoni, 1974, p. 11). Sarebbe utile in proposito un adeguato approfondimento dei rapporti Gozzano-Thovez, anche se va subito detto che una lettura di Gozzano in chiave liberty ci appare piuttosto forzata perché diventa di per sé difficile, se non impossibile, adattare definizioni proprie della critica d’arte ad un’opera poetica.

[12] A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, Milano, Principato, 1962, p. 611.

[13] F. Flora, Storia della letteratura italiana, vol. V, Milano, Mondadori, 1962, p. 662.

[14] Cfr. N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, in E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. IX, Milano, Garzanti, 1969, pp. 121-228.

Il saggio, di fondamentale importanza, è stato pubblicato con parecchie aggiunte come libro a sé stante dall’Editore Einaudi, Torino, 1986, con il titolo Profilo ideologico del Novecento italiano.

[15] S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, Principato, 1971, p. 171/II.

[16] Cecchi, Sapegno, op. cit., p. 91.

[17] L. Russo, Storia della letteratura italiana, Messina, D’Anna, 1971, p. 758.

[18] G. Bàrberi Squarotti, introduzione a G. Gozzano, Poesie, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 8 e 9.

[19] R. Serra, Scritti letterari morali e politici, Torino, Einaudi, 1974, pp. 408 e 409.

[20] Serra, op. cit., p. 407.

[21] W. Binni, La poetica del Decadentismo, Firenze, Sansoni, 1977, p. 164.

[22] Russo, op. cit., p. 757.

[23] Cfr. E. Sanguineti, Guido Gozzano, Torino, Einaudi, 1966.