Anniversari. A seguito di un referendum, il 24 maggio di trenta anni fa, formalmente nasceva lo Stato dell’Eritrea.

Oggi l’Eritrea è maglia nera dell’Africa nella graduatoria mondiale della libertà di stampa. È al 174° posto su 180 stati censiti e la peggiore del suo continente. Lo scorso 3 maggio Reporters sans frontieres ha pubblicato l’ultimo rapporto World Press Freedom (21^ ed.). In Eritrea non filtra alcuna notizia se non su ordine del presidente Isaias Afeworki, colui che da quel 24 maggio 1993 è capo provvisorio dello Stato e provvisorio primo ministro . Non per niente la chiamano la Nord Corea africana.

Ma come è potuto accadere? Un leader che ha conquistato l’indipendenza per il suo popolo, a capo di un movimento marxista-leninista che beneficiava di simpatie, ospitalità, sostegno da parte del Comune di Bologna, dell’Università, della Regione, come è potuta accadere questa mutazione, da alfiere della libertà a tiranno? Anni fa ho visitato questo meraviglioso paese. Partito dall’Italia con la convinzione che nutriamo tutti, ossia che i bianchi, e viepiù noi italiani, con il colonialismo, all’Africa abbiamo fatto solo tanto male, ebbi poi modo di imbattermi nelle cose reali: opere, manufatti o memorie di essi, conversazioni con la gente, e poi i documenti. Quelli che raccontano la vita reale del giorno per giorno, come per esempio le pagine economiche dei giornali degli anni sessanta e settanta o i coevi cataloghi delle Expo, verace rappresentazione del dinamismo economico di una società. L’Eritrea deve all’Italia molto e molto.

Il nome, innanzitutto: esso compare per la prima volta, nuovo di zecca, nell’art. 1 del Regio decreto n. 6592 del 1° gennaio 1890; è mutuato dal greco ἐρυθρός (erythros), rosso, suggerito a Crispi dal suo collaboratore, lo scrittore scapigliato Carlo Dossi: a differenza di “Libia” o “Nubia” non è riproposizione di antichi toponimi di epoca romana, semplicemente si ispira al fatto che la lunga striscia di terra si affaccia sul mar Rosso. Il territorio, la sua forma e i suoi confini, sono una costruzione, a seguito di conquiste, conflitti e compromessi diplomatici fra Stato italiano e ras locali. E ciò per cui i movimenti di liberazione lottarono nell’ultimo quarto del secolo scorso è stata quell’Eritrea lì, la creazione del 1 gennaio 1890. Giustamente il popolo eritreo ormai sentiva quel territorio come un qualcosa a sé stante, con una sua omogeneità.

Tale omogeneità e identità è stata in gran parte conferita dalla presenza italiana (scrivi presenza, non civilizzazione, sennò sei razzista). Una presenza e una trasmissione di cultura lunga almeno novant’anni di cui, si badi bene, solo cinquanta sono stati di potere coloniale. Quanto al popolo, esso era ed è multietnico e multilingue, secondo aree che attraversavano più volte le linee di confine con gli stati limitrofi. Così è tutt’ora. Ma tant’è, per rivendicare l’indipendenza i movimenti guerriglieri hanno fatto risalire a epoche remote una individualità statuale prima mai esistita. I loro manuali scolastici, che giunto nella capitale subito mi ero tuffato ad acquistare (i regimi socialisti hanno le librerie di Stato dove a prezzi bassissimi si vendono i testi ufficiali del regime) si arrabattano per negarlo ma è inconfutabile e non abbiamo cartografia che menzioni il toponimo prima del 1890. Gli Italiani: ancora negli anni ’70 del secolo scorso erano centomila, ora sono settecento persone; ti commuovi quando percorri i vialetti del cimitero di Asmara, come pure di altre città. Tantissimi, perché c’erano pure quelli di sangue misto.

Crearono lavoro. Radicalmente trasformarono il territorio. Lo provvidero di infrastrutture, trovarono l’acqua, costruirono dighe, laghi artificiali, impianti di irrigazione: territori aridi divennero floridi. E poi l’industria, sia estrattiva come di trasformazione e non solo agroalimentare. I fratelli De Nadai, che bonificarono aree malsane della Conca di Elaberet e della Piana di Ghinda dove, al modo di Adriano Olivetti, eressero poi case, mensa e clinica per i dipendenti, scuole primarie secondarie per tutto il distretto, chiesa e moschea, il cinema, oltre a molte strade. Vi si producevano «(…) pomodori, peperoni, agrumi, uva, verdure primaticce per l’esportazione in Europa, doppio concentrato e pelati di pomodoro, formaggi teneri e duri come il grana, burro, latte trattato con sistema tetra pak; vino da pasto bianco e rosso, la cui richiesta [era] superiore alla stessa produzione. La sezione zootecnica [era] una delle più razionali che si conosc[essero], con i suoi 1100 capi di mucche da latte di razza frisona (…)». Si era arrivati ad esportare dall’Eritrea ciò che prima veniva importato. Un capitale tripartito: un terzo il governo, un terzo l’imprenditore, un terzo la popolazione della zona e per la popolazione il denaro fu anticipato dal gruppo De Nadai stesso ed essa avrebbe riscattato le azioni con gli utili aziendali. E poi, il Cotonificio Barattolo, il Salumificio Torinese, la Birra Melotti, il grandioso Hotel Nyala di Vernero, la Fiat di Tagliero, le ceramiche e i laterizi di Guerri e di Venturi.

Ripeto: tutta questa descrizione è degli anni ’70 del ‘900, il colonialismo non c’entra niente. Industrie e tecnologie fra le più avanzate di tutto il continente africano, indicatori che la facevano competere (se presa separata dall’Etiopia) con Sudafrica ed Egitto.

Ricchezza. E tanti posti di lavoro. L’educazione e la sanità: lassalliani, comboniani (un’università di prim’ordine), pavoniani (ancor oggi la più grande e attrezzata biblioteca di tutta l’Eritrea), orsoline di Gandino, cappuccine di madre Rubatto, un welfare efficiente e realmente per tutti (non solo per i funzionari del partito e gli alti gradi militari). Organizzazione: non c’era solo laboriosità, ma pure una burocrazia efficiente che gli stessi occupanti inglesi (1941-52) non vollero cambiare.

Poi che cosa è successo? La cesura non è con la cessazione del potere coloniale, perché sotto il Negus, ancora si poteva lavorare. Il cambiamento è col 1974, quando tutta l’Etiopia (a cui l’Eritrea era stata annessa nel 1960) piombò nel caos e nella violenza a causa della rivoluzione socialista del Derg (due milioni di morti: assassinio dell’imperatore Haile Selassie, il Terrore rosso, Riforma agraria e conseguente carestia). Che ne è stato di complessi agroindustriali come quelli dei De Nadai? Suscitavano molta invidia: furono nazionalizzati ma, privi di una conduzione capace, dopo una prima fase di godimento dell’esistente, andarono in malora. Quei luoghi, un tempo rigogliosi, ora versano in degrado. E attualmente pressoché ogni attività economica è dello Stato: perché movimenti indipendentisti ed Etiopia di Menghistu si sono fatti una lunga guerra (che ha distrutto e impoverito) ma sulla costruzione del socialismo la pensavano allo stesso modo.

C’è da noi una ubiquitaria narrazione, quella di un colonialismo che consisteva nella rapina di materie prime e sfruttamento agricolo con flusso verso la madrepatria, dalla quale partiva un flusso contrario fatto di smercio di beni manifatturieri e di consumo. Ebbene, quantomeno per l’Eritrea non corrisponde al vero, perché contraddetta dai fatti, dalle fonti scritte, dalle notizie raccolte per la strada, quelle strade in cui le cassette postali di raccolta o i chiusini fognari ancora recano “Municipio di Asmara” scritto nella nostra lingua. Che sia la farmacia con tutti i barattoli scritti in italiano, o gli uffici delle Poste, il barbiere, il bidello della Scuola elementare, tutti ti parlano bene dell’Italia, con nostalgia.

Ora però, che c’entra tutto questo con la domanda iniziale, ossia come ha potuto il liberatore diventare un autocrate sanguinario, dove è il nesso? Ecco, noi per decenni di questi italiani operosi ci siamo vergognati e persino i politici moderati che ne erano amici, pubblicamente lo tacevano. Al contrario si assumeva in toto, sui libri di scuola come nei documentari Rai, la vulgata terzomondista: che noi bianchi avevamo le colpe, che la redenzione e il benessere di quei popoli solo poteva esservi se loro si autodeterminavano completamente.

È prevalsa insomma la voce dell’Italia che scendeva in piazza a manifestare per i movimenti marxisti di liberazione; che li foraggiava e li ospitava (non solo nelle feste di partito ma pure nelle istituzioni) seguitando a nutrire la propria gioventù di miti guevaristi. Movimenti come il “Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea”, i cui programmi erano liberticidi e totalitari. Bastava leggerli: per limitarci all’economia, il suo progetto di società Afeworki lo aveva messo nero su bianco, lo aveva detto e scritto che tutto sarebbe stato espropriato e nazionalizzato.

Così, giunti al potere, hanno dato attuazione a quel programma e hanno cacciato via dal Paese tutti gli sfruttatori bianchi (quelli rimasti): De Nadai, Melotti, Barattolo, Vernero, orsoline e cappuccine, lassalliani e comboniani… Ovvio quindi che Asmara dopo aver cancellato tutte le tracce italiche dalla toponomastica abbia reintrodotto un solo nome italiano: Bologna street.

A tutt’oggi, coi soldi del contribuente, ci tocca mantenere docenti eritrei in università dell’Italia centrale, supporter di fatto del regime eritreo che nelle loro lezioni chiamano «soft development» il crollo di tutti gli indicatori economici che ha prostrato il paese e «mobilità del lavoro» la piaga dell’emigrazione in massa dei giovani senza speranza. E l’amicizia internazionalista non viene meno: ancora poco tempo fa, tra le proteste della diaspora eritrea in Italia, il Comune di Bologna concedeva al regime sanguinario gli spazi del Parco Nord per i suoi eventi promozionali e commemorativi.

C’era (c’è ancora!) una cospicua parte di opinione pubblica italiana che su temi internazionali si baloccava (e seguita a farlo) con i miti terzomondisti e indigenisti: sconsiderata irresponsabilità, che ha nuociuto agli interessi del nostro Paese ma pure ha arrecato e continua a cagionare tanto male a quei popoli. Oggi il popolo eritreo, liberato dal “Fronte Popolare di Liberazione” è oppresso come non è mai stato: ah, potessero gli eritrei ripensarci! Ma quei regimi non ti danno la possibilità di ripensarci.