La Cina ha pubblicato nei giorni scorsi i dati economici del primo trimestre mostrando una crescita, migliore delle attese, del PIL del 4,8%. L’adozione da parte del governo della “Dynamic zero-Covid strategy” (strategia dinamica a tolleranza zero sul Covid) potrebbe però presto costare caro all’economia del Celeste Impero. La chiusura del più importante centro economico-finanziario del Paese, Shanghai, e della relativa popolazione (25 milioni) minaccia di fare sentire il suo peso nei prossimi mesi e la previsione governativa di una crescita annua del 5,5% sembra distante dalla realtà. I timori che l’incremento dei casi, dovuto al basso tasso di immunizzazioni e di vaccinazioni, possa condurre rapidamente al collasso un sistema sanitario non preparato ad affrontarlo ha rafforzato il vecchio adagio “meglio prevenire che curare”. Ieri il numero di casi nazionali ha toccato i 18.092 casi, dei quali circa 3000 a Shanghai (con 12 morti), il massimo della seconda ondata pandemica cinese. Per quanti se lo chiedessero: non è così difficile come si potrebbe pensare mettere in clausura una metropoli cinese come Shanghai. La città è suddivisa in “xiaoqu” (quartieri) spesso circondati da mura e dotati di due o tre entrate; una volta chiusi con robuste catene gli ingressi, presidiati da guardie armate, il gioco è fatto. Per ogni evenienza, inoltre, le strade sono pattugliate da agenti armati e “robo-cani poliziotti”, pronti ad intimare ai trasgressori l’immediato rientro nelle proprie abitazioni da dove, ben prima dell’alba, per non correre il rischio di passare una giornata a digiuno, dovranno ad ordinare il cibo necessario dalle società autorizzate alla consegna a domicilio (subissate di ordini come non mai e non sempre in grado di fare fronte alle enormi richieste). La situazione si riflette in modo drammatico anche sul porto della città, il più grande approdo fluviale al mondo nonché il maggiore dei centro cinese di smistamento delle merci in partenza ed in arrivo, con un pesante aggravio dei tempi e dei costi. Purtroppo non si tratta della sola “Perla d’Oriente”: Gavekal (una società di ricerca indipendente) stima che le città attualmente toccate dalle restrizioni dettate da Ji Xin Ping rappresentano quasi il 40% del PIL nazionale. Il rallentamento in atto nei Paesi occidentali, aggravato dalla guerra in Ucraina, sommato a quello della locomotiva cinese potrebbe presto degenerare in una recessione in special modo se a tutto ciò si sommerà una (eccessiva e troppo rapida) restrizione monetaria posta in atto con l’obiettivo di arrestare la spirale inflazionistica, innescata dalla crescita incontrollata dei prezzi delle materie prime. La storia ci insegna che la peggiore inflazione finisce per soccombere di fronte al raffreddamento dell’economia e trasformarsi in deflazione (il vero spauracchio della Fed e della BCE) in caso di recessione ed è così che un eccesso di medicina (l’aumento dei tassi di interessi) potrebbe rivelarsi peggio del male che si intende curare. Possiamo solo augurarci che i banchieri centrali non siano soggetti, per citare il compianto economista Jean Pierre Fitoussi, scomparso la scorsa settimana, al “teorema del lampione” e che si limitino, come l’ubriaco che perse le chiavi le cerca vicino al lampione perché solo lì c’è luce a sufficienza, ad osservare l’inflazione ignorando quanto gli sta attorno (un rallentamento globale sempre più evidente). Il buio può spaventare ma, come scriveva William Butler Yeats, se ci guardi dentro a lungo c’è sempre qualcosa.
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