Dio all’inizio della creazione crea il cielo e la terra. Genesi 1, 1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Ma secondo la cabala le cose stanno diversamente. Il testo originale ebraico è: be-reshit barà Elohim ‘et. La particella ‘et dal punto di vista grammaticale introduce il complemento oggetto, in italiano non si traduce. Da un punto di vista cabalistico questa particella rappresenta l’intero alfabeto ebraico, in quanto formata dalla prima lettera (aleph) e dall’ultima (taw). Secondo un noto assioma cabalistico il principio e la fine di una cosa riassumono la cosa stessa. Quindi in principio Dio crea l’intero alfabeto ebraico. Queste due lettere ebraiche significano anche “segno” e “lettera”: ‘ot. C’è una certa corrispondenza semantica tra la particella che introduce il complemento oggetto e l’alfabeto. La tradizione cabalista insegna che Dio crea il mondo mediante le 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Le crea in principio e poi le usa per modellare tutta la creazione. Dio incide queste 22 lettere nella Luce Infinita, che è il livello più prossimo a Dio, dove tutto è coeso: la Luce Infinita è una unità senza fine. In questa unità Dio incide le lettere e a seconda delle sequenze di lettere che incide, nei piani inferiori dell’esistenza si struttura la realtà esistente. Le prime due lettere dell’alfabeto ebraico sono aleph e bet. La prima combinazione che Dio compie è costituita dalla unione di aleph e bet, che forma la parola ebraica ‘ab, “padre”. Quindi la tradizione ebraica insegna che è l’amore (‘ahaba) la prima manifestazione di Dio nella creazione. La letteratura neotestamentaria insegna che “Dio è amore” (1Giovanni 4, 8: o theos agapē estin). Tutta la creazione è volta al bene ed è in sé perfetta. Esiste nella creazione una bellezza originaria segno della perfezione quale la ha voluta Dio creatore. In egiziano antico la parola nefer viene tradotta comunemente con l’aggettivo “bello”. Però significa anche qualcosa d’altro. Inr nefer è una pietra “adatta” per costruire, taw nefer è un vento “favorevole” per veleggiare. Esiste anche l’espressione nefer pw, nella quale nefer è un nome che significa “una cosa perfetta, finita”. Per esempio, nefer pw jr=j s.t, letteralmente “è una cosa finita, che io lo faccia”, cioè “non lo faccio neanche per sogno”. Allora il senso primo della parola nefer non è “bello” ma “la fine” o “il fine”. L’ordine e la bellezza della creazione rimanda al fine ultimo per la quale è, che è Dio stesso. Ireneo di Lione scriveva che “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles III, 2, 2): “Ogni agente agisce per un fine”. Il fine ultimo di ogni nostra azione è il bene, cioè in ultima istanza Dio stesso, che è il Sommo Bene, a cui tutte le creature tendono. Tutto è creato da Dio per amore e tutto vi dovrà tornare. Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles III, 3, 1): “Che tutti gli esseri che agiscono lo fanno per un bene lo si dimostra dal fatto che ogni agente tende a qualcosa di determinato. Ora, la cosa cui un essere tende in maniera determinata bisogna che sia conveniente per esso: poiché non vi tenderebbe, se  con esso non avesse tale rapporto. Ma ciò che gli conviene è per un essere il suo bene. Quindi ogni agente agisce per un bene”. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I-II 49, 1, 2): “È necessario che tutti gli agenti agiscano per un fine. Infatti in una serie di cause ordinate fra loro non si può eliminare la prima causa senza eliminare anche le altre. Ora, la prima fra tutte le cause è la causa finale. E lo dimostra il fatto che la materia non raggiunge la forma senza la mozione della causa agente: infatti nessuna cosa può passare da se stessa dalla potenza all‘atto. Ma la causa agente non muove senza mirare al fine. Se infatti l‘agente non fosse determinato a un dato effetto non verrebbe mai a compiere una cosa piuttosto che un‘altra: quindi, perché produca un dato effetto, è necessario che venga determinato a qualcosa di definito, che acquista così la ragione di fine. Ora questa determinazione, che nell‘essere razionale è dovuta all‘appetito intellettivo, detto volontà, negli altri esseri viene prodotta dall‘inclinazione naturale, chiamata appunto appetito naturale. Tuttavia dobbiamo ricordare che un essere può tendere verso il fine, con la propria operazione o moto, in due modi: primo, muovendo se stesso verso il fine, come fa l‘uomo; secondo, facendosi muovere da altri verso il fine, come la freccia che tende a un fine determinato perché è mossa dall‘arciere, il quale ne indirizza l‘operazione verso il bersaglio. Quindi gli esseri dotati di ragione muovono se stessi al raggiungimento del fine, poiché sono padroni dei loro atti mediante il libero arbitrio, che è una facoltà della volontà e della ragione”. Il male che esiste nella creazione e in ogni singolo uomo, è una privazione di bene (defectus boni). Non è stato creato da Dio, ma è una mancanza. La teologia cristiana insegna che il male deriva dal peccato originale, cioè dalla colpa primigenia dei progenitori Adamo e Eva. Essi, peccando, si sono allontanati da Dio privando gli uomini e la creazione stessa della sua grazia. Questa privazione ha determinato il male e la morte, la caducità delle cose e la imperfezione: questo non era il progetto di Dio, ma nasce dalla libertà umana. L’uomo infatti è libero anche di opporsi a Dio. Dio non ha voluto creare degli automi, ma degli esseri liberi di sceglierlo o meno, fino ala opposizione definitiva, che è l’inferno. Dio è infinita misericordia, ma l’uomo può opporsi a Dio anche in maniera definitiva, misconoscendolo per l’eternità. All’inferno ci vanno solo coloro che ci vogliono andare. Dio ama talmente l’uomo che non lo priva della possibilità di scegliere. Anche se Dio è misericordioso, non vede di buon occhio coloro che decidono di ripudiarlo per sempre. Lattanzio (De ira Dei 1-2): “… molte persone sono dell’opinione, sostenuta anche da alcuni filosofi, che Dio non sia soggetto all’ira; poiché o la natura divina è assolutamente benevola e il recar danno a alcuna cosa non può conciliarsi con la sua sovrana e eccellente potenza, oppure, al limite, Dio non si cura assolutamente di nulla, cosicché non ci giungono né alcun bene dalla sua benevolenza né alcun male dalla sua malevolenza. Dobbiamo denunciare il loro errore, poiché esso è molto grave e tende a sconvolgere l’ordine della vita umana”. Il magistero della chiesa, conformandosi a tutta la Sacra Scrittura, quindi anche alla Parola di Nostro Signore Gesù Cristo contenuta nei vangeli, riconosce sia la natura personale dei diavoli sia la realtà dell’inferno. 1Pietro 5, 8-9: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede”. Ogni opera del diavolo è permessa da Dio per il misterioso disegno della divina volontà. L’azione ordinaria del diavolo è la tentazione. 1Corinzi 10, 13: “Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siete tentati oltre le forze forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere”. L’azione straordinaria del diavolo è costituita da malattie, possessioni e altri segni della diabolica presenza. Nei vangeli appare che le malattie hanno sia una origine naturale sia una origine demoniaca. Gli attacchi del diavolo sono tremendi perché questo essere maligno sa quanto una singola anima sia preziosa agli occhi di Dio. Il diavolo vuole distruggere l’uomo facendolo scoraggiare lungo la via del bene. Quando Ignazio di Loyola all’inizio della conversione si era ritirato in solitudine a Manresa per pregare e fare penitenza, il demonio gli appariva come angelo di luce e gli diceva: “Hai solo 35 anni, come farai ad arrivare a 70 rinunciando a ciò che ti piace?”. Il demonio, per raggiungere il suo scopo, eccita il desiderio, tormenta con la immaginazione, accresce le paure, scatena ansia e angoscia, suscita disperazione,  generando una tempesta dell’anima che, una volta finito l’assalto, ci sembra fuori luogo. Nella tentazione e negli altri attacchi satanici bisogna confidare nella grazia di Dio, sapendo che, senza Cristo, non possiamo fare nulla. Giovanni 15, 4-5: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla”. L’inferno sarebbe caratterizzato dalla pena del danno (l’allontanamento definitivo da Dio) e dalla pena del senso (una vera e propria punizione scatenata dall’ira di Dio). Il fine ultimo della vita umana e la perfetta letizia consistono nell’amare, pregare e servire Dio fino alla completa unione a Cristo mediante la forza dello Spirito Santo confidando nella continua intercessione di Maria Santissima. 1Tessalonicesi 5, 9-10: “Dio vi ha destinati all’acquisto della salvezza per mezzo del Nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”. Chi vive unito a Cristo, vero Dio e vero uomo, sperimenta un paradiso già su questa terra e vi entrerà definitivamente dopo la morte del corpo fisico in attesa della risurrezione beata della carne alla fine dei tempi. Invece, per chi si allontana da Cristo, è previsto un inizio di inferno già qui, cosa che si completerà nel regno dei morti in attesa del definitivo sfacelo con la risurrezione di condanna. 1Giovanni 3, 2: “Carissimi, noi siamo fin d’ora figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è”.  Apocalisse 21, 5: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Questi passi neotestamentari sembrano riecheggiare Sapienza 7, 27: la Sapienza “è unica, ma può tutto e, permanendo invariata in sé stessa, tutto rinnova, di generazione in generazione passando in anime sante prepara amici di Dio e profeti”. Scarpat nel suo commento al libricino biblico osservava come qui l’autore stia parlando del carattere immutabile dell’Essere eterno, che l’agiografo trova tanto nella grecità quanto nella letteratura sacra (Salmo 101, 27: “Essi periranno, tu rimani”). Scarpat ravvisava un parallelo tra il versetto 27 e un detto di Eraclito: “Tutte le cose hanno nascita e flusso e non vi è nulla che stia fermo, ma permane solo un’unica cosa dalla quale tutte queste si trasformano per natura” (Aristotele, De Caelo 298 b 29 seguenti). Per Eraclito l’Essere è costituito dal fuoco (pur) e tutto il resto muta, per l’autore della Sapienza permane la Sapienza di Dio, che rinnova ogni cosa. Il verbo menein, “rimanere”, usato dall’autore biblico, è in tutta la grecità riservato alla divinità, mentre anche Eraclito diceva delle cose umane che “nulla rimane” (Platone, Cratilo 402 a: ouden menei). La Sapienza tutto rinnova, certamente anche le anime dei giusti. Rivelazioni private concesse da Dio a particolari anime elette confermano l’esistenza dell’inferno. La santa Faustina Kowalska fu una delle tante anime prescelte da Dio che visitò da viva l’inferno e ebbe da lui l’incarico di raccontare al mondo quanto aveva visto. Questa santa ebbe anche la rivelazione che la maggior parte delle anime che vi vanno non credeva nell’esistenza dell’inferno. La santa Faustina è nota anche per aver ricevuto da Dio l’ordine di diffondere la pratica della Coroncina alla Divina Misericordia: a chi la dice Dio ama concedere grazie senza numero. Tra le altre promesse: “Chiunque reciterà la Coroncina alla Divina Misericordia otterrà tanta misericordia nell’ora della morte – cioè la grazia della conversione e la morte in stato di grazia – anche se si trattasse del peccatore più incallito e la recita una volta sola”. Dio certamente è misericordioso, ma è anche la somma giustizia. L’uomo non è un semplice burattino succube degli eventi, ma ha il libero arbitrio, donatogli da Dio, con il quale può scegliere liberamente tra bene e male, tra la via della vita e quella della morte spirituale. Dio prende tremendamente sul serio la libertà dell’uomo proprio per amore. È possibile che il progetto di amore universale di Dio non piaccia agli uomini, Dio allora rispetta la loro scelta, fino alle tragiche conseguenze. Agostino diceva che Dio, che ci ha creati senza il nostro consenso, non può salvarci senza il nostro consenso. Ora, con il battesimo il cristiano diventa di nuovo “amico” di Dio. Quindi il battesimo toglie all’uomo il peccato originale, con il quale si era separato da Dio, senza eliminare però le conseguenze (la malattia, le imperfezioni, la morte fisica). Un’altra cosa che resta è il “fomes peccati”, come diceva il Concilio di Trento, cioè l’incentivo per il peccato, la concupiscenza, vale a dire l’inclinazione a peccare. Tanta è tuttora la inclinazione a peccare che l’uomo deve fare un vero e proprio combattimento contro la sua natura corrotta, oltre che contro il diavolo che lo tenta al male. Le armi per affrontare questo combattimento sono: stare in grazia di Dio e pregare. La preghiera rinforza l’anima per seguire la legge di Dio. Francesco di Sales (Filotea II, 1): “La preghiera illumina l’intelletto con la chiarezza della luce di Dio e scalda il cuore al calore dell’amore celeste, nulla l’eguaglia nel purificare l’intelletto dall’ignoranza e il cuore dagli affetti disordinati; è un’acqua di benedizione che fa rifiorire e rinverdire le piante dei nostri buoni desideri, monda le anime dalle imperfezioni e attenua nei cuori l’ardore delle passioni”. L’anima che si accinge a seguire la strada di Dio nel completo abbandono del mondo si trova a dovere sperimentare due tipi di notti, come scriveva Giovanni della Croce: la notte dei sensi (nella quale ci sono le tentazioni della carne) e la notte dello spirito (nella quale l’anima sperimenta la perdita della fede). Ma si tratta di due notti necessarie per temprare l’anima nel seguire il bene e la legge di Dio.  L’uomo per affrontare l’uragano scatenato in lui dalla carne, dal mondo e dal diavolo ha necessità di pregare incessantemente. “Pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1 Tessalonicesi 5,17). La Madonna che appare a Medjugorje consiglia di pregare almeno 3 ore al giorno. I Padri della Chiesa chiamavano Gesù il Giorno. Egli è la fonte della grazia che illumina il cristiano lungo il cammino. L’assidua contemplazione della sua Parola e il continuo contatto dell’anima con Lui attraverso la preghiera donano la forza spirituale che permette di affrontare le malvagità e le insidie del demonio, oltre che tutto il resto. Secondo il cristianesimo la salvezza deriva da due eventi mirabili:

  • la passione e morte di Cristo in croce, quando dal suo fianco squarciato dalla lancia del soldato romano fuoriescono sangue e acqua, segno dei sacramenti (Giovanni 19);
  • la risurrezione: quando Cristo risorto apparve ai discepoli rinchiusi nel cenacolo, soffiò su di loro e disse:  “Ricevete lo Spirito Santo” (Giovanni 20).

Gesù è per i cristiani il Messia (Unto in ebraico) atteso dagli ebrei, cioè il Cristo (Unto in greco) e ciò che lo caratterizza è la radicalità della missione, che si spinge fino all’ingresso in Gerusalemme e alla morte in croce. In Luca 9, 57 e seguenti Gesù, secondo l’uso dei maestri ebrei del suo tempo, racconta tre meshalim, cioè tre proverbi o detti sapienziali, caratterizzati spesso da un forte mistero. La stessa radicalità Gesù pretende ai suoi discepoli. È stato osservato da Engel che questa radicalità è tipica dell’ebraismo del tempo. Anche i profeti si dimostrarono recalcitranti alla chiamata radicale di Dio. Il primo detto è questo: “Un tale disse a Gesù: Ti seguirò ovunque (opou) tu vada. E Gesù disse a lui: Le volpi hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, ma il Figlio dell’uomo non ha dove (pou) posare il capo”. La traduzione di “nido” non è letterale, infatti nell’originale greco abbiamo kataskēnōseis, che evoca l’idea della dimora, cioè della “tenda” (skēnē) dei beduini nel deserto. È significativo anche il “posare il capo”, che potrebbe alludere alla posizione di chi per amicizia si avvicina al busto di una persona che poggia sul kliné romano, cioè il divano sul quale si mangiava sdraiati. Gesù e i discepoli autentici non reclinano il capo se non nel seno del Padre. L’evangelista (Giovanni 1, 18) scriveva riguardo Gesù: “Dio, nessuno lo ha mai visto. L’Unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è Lui che lo ha rivelato”. Vuol dire che Cristo e i discepoli hanno una sola dimora, una sola certezza: la volontà di Dio fino all’ultimo sacrificio. Deuteronomio 6, 4 e seguenti: “Ascolta Israele: Il Signore, il nostro Dio, è l’Unico. Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze”. Nel secondo detto, Gesù, sentendo la richiesta di un discepolo di seppellire prima il padre, sentenzia di lasciare che i morti seppelliscano i morti, invece il discepolo deve staccarsi da tutto e andare a predicare il vangelo. Era l’ebraismo che imponeva di dare sepoltura ai genitori. Gesù si pone in contrasto con i comandamenti dell’Antico Testamento (“Onora il padre e la madre”) e innova la Legge. È il Messia, poi, che sta andando verso la morte avvicinandoci a Gerusalemme, allora forse l’evangelista vuole dirci che la vera sepoltura i discepoli di allora dovranno farla verso Cristo. Però, se vogliamo, possiamo istituire un altro possibile collegamento: gli ebrei conoscevano un testo normativo del Talmud (Berakot 31 a) nel quale si dice che il lutto cessa quando verrà il Messia. Gesù sta dicendo che è arrivato il Messia e quindi ogni lutto è scomparso? Gesù era un ebreo, forse un maestro ebreo che si allacciava alla scuola di Hillel, che tendeva ad interpretare liberamente la Legge, quindi le sue parole devono essere comprese entro l’ebraismo. Non solo. In un altro passo del Talmud c’è una discussione nella quale un rabbino dice che chi non segue la Legge è come un morto. Allora forse Cristo vuole dire che chi segue la vera Legge, quella della Nuova Alleanza da lui istituita, vince la morte, quindi non c’è più bisogno di seppellire i morti? Il terzo detto è questo: “Un altro disse: Signore, ti seguirò; prima però (dè) lascia che mi congedi dai miei parenti. Gli rispose Gesù: Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto al Regno di Dio”. Il sostrato di questo detto è la chiamata di Eliseo nell’Antico Testamento (1Re 19, 16 ss). Quando Elia chiama Eliseo, questi stava arando con dodici paia di buoi e Elia gli getta addosso il mantello, segno di elezione profetica. I profeti avevano un mantello particolare. Nell’Antico Testamento il vestito è l’identità. Allora Eliseo lascia i buoi, corre dietro Elia ma gli dice che vuole prima baciare i genitori. Elia gli risponde con una frase che nell’originale ebraico appare ambigua: “Vai, torna. Non hai capito che cosa ti ho fatto?”: vale a dire, non hai capito a cosa sei chiamato? Quindi Elia gli sta dicendo di non andare dai genitori. Eliseo capisce il messaggio, prende due buoi, li uccide e con la legna del giogo dei buoi fa cuocere la carne e la dà al popolo, quindi non può più tornare a casa, altrimenti il padre, visto quello che ha fatto, lo punirebbe. Eliseo quindi fa un segno profetico e allora segue Elia avendo rinunciato a tutto il suo passato, genitori e lavoro. In questo proverbio di Cristo riecheggia anche un detto di Hillel presente nella Mishnà: “Se io non sono per me chi sarà per me? E se io sono solo per me stesso chi sono io? E se non ora quando?”. Questa fraseologia tipicamente ebraica vuole veicolare la urgenza e la radicalità nel seguire la Legge di Dio e la missione/vocazione che Dio dà all’ebreo. In Filippesi 2 c’è un inno molto bello, nel quale Paolo canta che Gesù si umiliò fino alla morte e Dio per questo lo esaltò (versetto 9: uperupsōsen, “super-esaltò”). In Giovanni 20, 17 Maria di Magdala va alla tomba di Gesù ma la trova vuota, poi ha l’apparizione del Risorto, il quale le dice “non mi toccare”, mē ou artou. Il verbo greco esprime una azione continuativa, quindi no che non deve avvenire, ma che non continui come prima.  Cristo risorto sta qui ma in un’altra maniera. In Luca 24, 52 Gesù ascende al cielo e i discepoli tornano a Gerusalemme “con grande gioia”, metà charas megalēs. Gesù si diparte da loro, ma essi sono nella gioia. Dovrebbe essere il contrario. Perché? Perché Gesù è più presente di prima. L’ascensione a Dio da parte del Cristo non significa un allontanarsi ma uno stare più vicino alla comunità. Come? Attraverso l’Eucaristia. L’Eucaristia è la presenza viva e efficace di Cristo. È il suo corpo risorto nelle apparenze del pane e del vino. Il corpo risorto di Cristo è svincolato dal tempo e dallo spazio, quindi può essere presente in ogni ostia del mondo. La chiesa cattolica tramanda la presenza viva di Cristo nel pane e nel sangue eucaristici. In Giovanni 6 già i giudei non ci credevano e dicevano: “Come può darci costui da mangiare la sua carne?”. Ma Gesù affermava: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi”. Ancora: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda”. Però i discepoli dicevano: “Questo discorso è duro. Chi lo può ascoltare?”. Sempre nel capitolo 6 del Quarto Vangelo, Gesù proclamò: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Se il pane eucaristico fosse un simbolo, come potrebbe rimanere e dare la vita eterna? Ancora oggi ad udire le parole della chiesa cattolica circa la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell’Eucaristia, molti si scandalizzano. Da duemila anni a questa parte l’uomo non è cambiato. Perché Dio si nasconde in un pezzo di pane? Dio ama che l’uomo lo scelga vedendolo nella povertà degli attributi. Nella Genesi Dio ordina ad Abramo una cosa assurda: sacrificare il proprio figlio Isacco. È un gesto inaudito, ma Dio mette alla prova la fede di Abramo, vede che Abramo è disposto a compiere il sacrifico, ma all’ultimo momento ferma la mano del padre e il sacrificio non si compie. Oggi Dio mette alla prova di nuovo il mondo degli uomini nascondendosi in un pezzo di pane e nel vino del calice. Ci sta mettendo tutti alla prova! Ma come i discepoli di Emmaus hanno riconosciuto il Signore risorto nello spezzare il pane, anche chi guarda quel sacerdote spezzare il pane eucaristico sull’altare sa riconoscere con la fede il Signore risorto in mezzo a noi. I benefici spirituali dell’Eucaristia sono innumerevoli! Per la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, la chiesa insegna che l’Eucaristia è “fonte e culmine di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium 11): da essa provengono tutte le grazie, su di essa la chiesa si fonda. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, 73): l’Eucaristia “è quasi il coronamento della vita spirituale e il fine al quale tendono tutti i sacramenti, quasi consummatio spiritualis vitae, et omnium sacramentorum finis”. Sacrosanctum Concilium 47: “Il nostro Salvatore nell’ultima Cena, la notte che fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della Croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua Morte e della sua Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura”. La Messa che si celebra sulla terra è unita alla Messa eterna che si celebra in cielo attorno all’Agnello immolato (Apocalisse 7, 9-17). Sacrosanctum Concilium 8: “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme”. L’evento della nostra salvezza è opera delle tre Persone divine. Il Padre manda il Figlio affinché questi con la morte e la resurrezione doni salvezza al mondo inviando lo Spirito Santo. La Messa è un memoriale di questo evento (non un ricordo), cioè una viva attualizzazione ogni volta che si celebra. La sapienza ebraica insegna che la Memoria (Hazzikkaron) ha lo stesso valore numerico 283 della parola Braccio (Zero’a): quindi la memoria ci permette di avere quella energia necessaria per affrontare la vita nel presente. Concilio di Trento, Sess. 22°: “Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì sé stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. Sulla croce in modo cruento, nella Messa in modo incruento, ma sempre dello stesso sacrificio si tratta. Cristo è allo stesso tempo Altare, Agnello (Vittima) e Sacerdote. La funzione sacerdotale sta nell’eseguire il sacrificio. L’unico vero sacerdote è Cristo che offre sé stesso al Padre. Il sacerdote umano esegue il sacrifico in persona Christi, “nella persona di Cristo”. Cristo è anche l’Altare del sacrificio. La vittima sacrificale veniva posta sull’altare, il quale aveva la funzione di consacrare (=rendere sacra) l’offerta. Lo dice lo stesso Gesù: “Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta?” (Matteo 23,19). Vista la sublimità del sacrificio eterno di Cristo, l’offerta che Egli fa sé stesso non viene resa sacra da nessun tipo di materiale ma dalla sua stessa Persona. Lettera agli Ebrei 2: “Ed era ben giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da uno solo; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli … Perciò doveva rendersi del tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova e per aver sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.  I santi dicono che tutti i cristiani sono chiamati a unirsi al sacrificio di Cristo completando ciò che manca alle sue sofferenze. Ecco le parole di San Paolo (Colossesi 1, 24): “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, kai antanaplērō ta ysterēmata tōn thlipseōn tou Christou en tēi sarki mou, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. L’Unzione degli Infermi è un sacramento che non è impartito solamente in procinto della morte, ma serba anche virtù di guarigione: come a dire che la sofferenza è consacrata a Dio. Cristo è presente in vari modi nella chiesa: nell’Eucaristia, nella sua Parola, nella liturgia (cioè quando due o tre sono riuniti a pregare, soprattutto nella persona del ministro, che celebra in persona Christi), nei poveri, nei prigionieri, ma anche nei sofferenti. I santi dicono che sofferenti, malati e poveri sono gli amici prediletti di Dio. Il peccato sta nel non accettare la volontà di Dio su di sé, anche il dolore fisico e spirituale. L’Anonimo francofortese, nel suo capolavoro spirituale medioevale Teologia tedesca 36, asseriva: “Ma cosa è il peccato? Niente altro, se non che la creatura vuole diversamente da Dio e contro il suo volere”, Was ist aber Sunde? Nicht anders, den das die creatur wil den got  und wider got wil. I santi ricevono da Dio speciali grazie di rivelazione ma anche di sofferenza. Una importante legge della mistica è quella per la quale il sapere le cose divine si accompagna allo sperimentarle. Cristo appare loro svelando i misteri della sua passione e allo stesso tempo fa rivivere ai santi il martirio divino. Molti santi si chiamano Anime-Vittima in quanto vogliono rivivere i dolori della passione per la salvezza delle anime. La Beata Speranza di Gesù di Collevalenza passava ore a rivivere la passione di Cristo e i testimoni oculari riferiscono ancora oggi che levitava sul letto di qualche centimetro. Santa Caterina da Siena ebbe da Dio la grazia di subire l’infamia della croce: era oltraggiata e umiliata anche da quelle persone che gli dovevano riconoscenza. Subì tante prove negli affetti, però alla fine riuscì vittoriosa. Santa Rita da Cascia vide morire i due figli e il marito. Dio permette le prove negli affetti perché il cristiano deve staccarsi da ogni relazione con le creature e, alla fine, unirsi a Dio in maniera unica e speciale. No che bisogna odiare le persone, ma Dio va amato prima di tutto e solo per amore di Dio tutti gli uomini devono essere amati.  Malata e alla fine dei suoi giorni, Rita chiese a una sua cugina di portarle due fichi e una rosa dall’orto della casa paterna. Nonostante fossero in inverno la cugina la assecondò, pensandola nel delirio della malattia. Si recò nel luogo indicato e trovò in mezzo alla neve una rosa e due fichi. Stupefatta, subito torna a Cascia per portarli a Rita. Questo miracolo è stata la carezza di Dio per Rita, il suo segno d’amore. Si pensa che i fichi rappresentino i due figli, morti per malattia in giovane età, e la rosa il marito, assassinato dopo 18 anni di matrimonio. Rita avrà sicuramente sempre pregato, da vedova e da monaca, perché il marito e i figli fossero portati dal Signore in Paradiso. Forse questo miracolo era un modo in cui Dio le diceva che era stata esaudita. Il problema del perché esistano molte religioni nel mondo è di difficile soluzione. Per alcuni tutte le religioni sono false, per altri ne esiste una sola vera e le altre sono false, per altri ancora ogni religione è un modo di manifestarsi dello stesso Dio nella storia dell’umanità rispettando le varie tradizioni locali. Fatto sta che i miracoli e i santi esistono in quasi tutte le tradizioni religiose. La parola Islam deriva dalla quarta forma di un radicale arabo con il senso di “sottomissione”. Maometto è il sigillo dei profeti, il più importante profeta, detto il Profeta, il quale si pone al termine di una serie di inviati di Dio, come Gesù. Ma per il mondo islamico Gesù non è Dio, ma solo un grande profeta, il quale doveva aprire la strada a Maometto. Non esiste un unico Islam, ogni nazione islamica ha una propria interpretazione del Corano, il testo sacro, ma in qualche modo il Sunnismo è considerato l’Islam ortodosso, la corrente maggioritaria, pure frastagliata in molte visioni diverse, diffusa soprattutto in Arabia Saudita, mentre lo shiismo è la corrente non ortodossa e minoritaria, diffusa soprattutto in Iran. Per l’islam Dio può essere conosciuto con la ragione (‘aql) oppure attraverso la Legge (shar’). Anche la Legge (Corano) può essere studiata come prodotto di Rivelazione (naql) oppure con strumenti razionali. La tipica teologia speculativa islamica è detta ‘ilm al-kalām. Questa espressione può essere intesa in due maniere: come la scienza della parola di Dio e delle Tradizioni oppure come la scienza in cui i teologi. Mutakallimūn, si cimentano con prove razionali a stabilire con certezza le credenze religiose. Tra le varie visioni shiite pensiamo ai duodecimani, agli ismailiti, ai nazariti, e così via. Anche lo shiismo come tutto l’Islam è pieno di tradizioni e particolari interpretazioni della parola di Dio. Quello duodecimano presenta, tra le altre, una scuola molto interessante detta shaykhismo, dal nome del suo fondatore: Shaykh Ahmad Ahsā’ī (1753-1826). Ciò che più caratterizza tutto lo shiismo è la dottrina degli Imam. Alla morte dell’ultimo profeta, Maometto, Dio ha dato agli uomini delle guide spirituali, a cominciare dal genero di Maometto, Alì. Nel tempo esse si sono succedute: abbiamo quindi Dodici Imam. Assieme a Maometto e alla figlia Fatima abbiamo in tutto Quattordici Imam. Questi quattordici entità terrene formano un pleroma divino: non valgono solo e principalmente come persone, in quanto entità eterne precosmiche. Esse appartengono innanzitutto nel grado di Lāhūt, la sfera divina, che domina il Jabarūt, il mondo delle pure intelligenze cherubiniche; esso domina il Malakūt, mondo dell’Anima e della percezione immaginativa; esso domina il Molk, il mondo sensibile. Quindi questi Quattrodici Imam sono analoghi agli Eoni della gnosi valentiniana. Si tratta ripetiamo, non di persone, ma di forze cosmiche, incarnate in un certo momento storico, ma che sono da sempre e sempre saranno. Si tratta di universi di potenza. C’è qualche collegamento con la cristologia: Dio che si fa carne in Cristo ma è da sempre. Entro le varie correnti shiite, quella dello shaykhismo ha dato una riforma in chiave metafisica e spirituale. Questa scuola mette in secondo piano tutte le questioni giuridiche, e tale atteggiamento non poteva essere compreso facilmente dai musulmani di allora, ma nemmeno da quelli di oggi. La scuola, inoltre, si rifaceva direttamente agli scritti degli Imam. Non solo, ma il fondatore della scuola,  Shaykh Ahmad Ahsā’ī, vedeva in sogno gli Imam, i quali gli davano le “licenze”, simboli della predilezione verso questo discepolo, e gli impartivano gli insegnamenti, i quali sono confluiti negli scritti di Shaykh. La scuola ha prodotto nel complesso, durante i secoli, un migliaio di testi, ma non sono stati pubblicati se non circa un terzo. Shaykh appartiene alla categoria di sapienti che vengono definiti in Iran Owaysīs, cioè coloro che hanno come maestro spirituale: shaykh al-ghayb, ostād-e ghabhī, la guida nel mondo sovrasensibile, il maestro spirituale interiore. La scuola in questione è stata accusata di accettare del materiale tradizionale considerato “debole” (za’īf). Ma i vari rappresentanti non usavano tanto delle ragioni razionali per accettarli, nonostante l’opinione contraria di quelli al di fuori della cerchia, bensì l’insegnamento degli Imam e quello di loro stessi: tutti, i rappresentanti della scuola e soprattutto gli Imam, avevano accesso a conoscenze segretissime di origine spirituale, che valevano più di qualsiasi argomento razionale. Per  Shaykh ci sono tre generi di prova: quella dialettica (dalīt al-mojādala), che si basa solo sul sapere teorico; quella omiletica (dalīt al-maw’iza), che si basa sul cuore (qalb); quella sapienziale (dalīt al-hikma), che si basa sul centro del cuore (fu’ād). Nella prima Dio si rifiuta di comparire, nella seconda parla la persona umana, nella terza, che è quella esoterica e spirituale, cioè quella decisiva, parla nientemeno che Dio attraverso il sapiente. La religione più antica del mondo è l’induismo, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Il buddhismo ha origine nel VI secolo a. C. come forma di opposizione all’induismo: è una delle principali religioni eterodosse indiane, l’altra è il jainismo. Tutte e tre vedono l’uomo immerso nel ciclo delle reincarnazioni: per l’induismo alla fine delle vite l’uomo si reintegra con l’Assoluto, per il buddhismo l’uomo si estingue, per il jainismo l’uomo va in mondi superiori. Non esiste un unico induismo, che è diviso in sette, le principali bhakti (basate su devozione personale) sono shivaismo (adorazione di Shiva), visnuismo (di Visnu) e shaktismo (della dea Shakti). Ganesha (anche chiamato Ganesh, Ganapati, Vinayaka) è una delle divinità hindu più note e più amate. Il suo culto è trasversale alle varie sette ed estremamente diffuso anche in ambito eterodosso. L’elemento principale di riconoscimento di Ganesha è la sua testa di elefante. Ganesha è colui che rimuove gli ostacoli, pertanto è spesso invocato all’inizio di riti e cerimonie; nei templi è la prima fra le divinità principali che incontriamo nel percorso verso la garbagrha. Ganesha è il patrono delle arti e delle scienze, qualsiasi rappresentazione performativa inizia con una invocazione a Ganesh (teatro, danza, marionette). Tantissimi racconti mitologici su Ganesha popolano la letteratura hindu principalmente shivaita, in quanto egli è figlio di Shiva e Parvati, sebbene la sua genesi precisa cambi di mito in mito. Da un punto di vista iconografico oltre alla testa di elefante, Ganesha presenta ventre prominente, una sola zanna, spesso la mano inferiore destra è in abhayamudra (=non aver paura, gesto della rassicurazione) e siede in lalitasana (sedersi con una gamba in verticale verso terra e l’altra orizzontale sull’appoggio). Altra posizione iconografica comune lo presenta come danzante. Nelle altre tre mani regge altrettanti attributi in combinazione variabile, la serie più comune è: pungolo per elefanti, ascia e corda. Il suo vahana (animale simbolico) è il topo, simbolo del desiderio che vaga da soggiogare al controllo della mente (la testa elefantina). L’origine di Ganesha sembra essere non indoaria. Un corrente dell’induismo, detta Ganapatya, considera Ganesha la divinità suprema e ci sono alcuni templi dedicati a lui come divinità centrale. Nell’induismo ortodosso il desiderio va generalmente controllato fino alla eliminazione: è infatti il desiderio a tenere le anime relegate alle reincarnazioni, quindi estinguendolo ci si libera dal ciclo delle rinascite. Invece per il tantrismo, caratterizzato da aspetti adharmici (=contro il dharma, la legge religiosa ortodossa), il desiderio va assecondato. La civiltà più antica ancora esistente è quella cinese. Oggi in Occidente si parla molto del marxismo in Cina, ma la Cina non ha come caposaldo una ideologia comunista, bensì il confucianesimo e il legismo, e gli apporti stranieri sono visti come modi di mettere in pratica il confucianesimo. Il confucianesimo si basa sul culto degli antenati e possiede una filosofia volta alla benevolenza verso tutti.   In cinese la nazione è indicata con la parola Zhongguo, espressa da due caratteri. Il primo è un rettangolo orizzontale posto in alto e tagliato a metà da una linea verticale che prosegue verso il basso. Indica l’idea del centro, quindi la Cina si è vista sempre come centro del mondo, e tutti gli altri popoli sono ai margini. È interessante notare che in cinese il Giappone è espresso dal sole e dalla radice, quindi il Giappone è il paese della radice del sole, vale a dire dove il sole sorge: rispetto ai cinesi il Giappone si trova a est, dove sorge il sole. Il secondo carattere della parola Zhongguo è un quadrato, simbolo dei confini della Cina, dentro il quale vi è un segno costituito da tre brevi linee orizzontali una sopra l’altra unite da una linea verticale. Cosa c’è dentro i confini della Cina? C’è qualcosa di prezioso, è questo il senso delle tre linee. Tale preziosità è costituita dalla unione del cielo (prima linea orizzontale) con la terra (ultima linea orizzontale). Quindi la cifra più importante del pensiero cinese è la sua armonizzazione dei vari elementi cosmici e umani tra loro. Ciò che ha caratterizzato la Cina per millenni è stata la consapevolezza della propria centralità geografica e ideologica in quanto i cinesi si ritengono preziosi poiché armonizzano in un tutto unico i vari elementi di cui è composto il mondo. La religione ufficiale del Giappone è lo shintoismo. La maggior parte dei santuari shintoisti ha la stessa struttura, quindi possiamo parlare di alcune caratteristiche comuni come ad esempio la forma e la struttura del tetto; in genere Il tetto è di paglia e ha una forma leggermente ricurva. La maggior parte dei santuari si situa all’interno di un contesto naturale di varie dimensioni. Possono variare poi ovviamente gli stili architettonici e sono ben identificabili proprio come tali. Gli altri elementi che i santuari hanno in comune sono il portale d’accesso all’area sacra ovvero il torii: esso delimita lo spazio sacro quindi automaticamente una volta oltrepassato si accede a un’area che è ritenuta sacra. Può variare anche il colore e il materiale per cui nei torii classici è laccato rosso arancione ma ci sono anche dei torii in pietra o in legno grezzo come ad esempio nel Santuario di Ise. La struttura è sempre ben riconoscibile. una volta entrati quindi in uno spazio che è ritenuto sacro è necessario purificarsi, e a questo fine si trova sempre all’interno del Santuario una fontana o una bacinella d’acqua anche qui di diversa struttura, dimensione, o materiale, e un piccolo padiglione in cui ci si purifica seguendo delle regole ben precise. Questo padiglione prende il nome di temizuya. Come si opera questa purificazione? Si prende un mestolo, generalmente in legno, lo si riempie d’acqua, lo si tiene con la mano destra e ci si purifica la mano sinistra, poi ci si purifica la destra e la bocca si lascia scorrere l’acqua che resta all’interno e lo si riposiziona. In questo periodo di pandemia ovviamente una pratica del genere diventa rischiosa e in effetti alcuni santuari hanno adottato altri sistemi per garantire la sicurezza come, ad esempio delle Fontanelle automatiche che si accendono e lasciano scendere acqua col passaggio della mano. Una volta che si è purificati si può quindi procedere e arrivare davanti alla struttura che consente la venerazione e prende il nome di haiden. In genere, non si può entrare effettivamente all’interno del Santuario, ma ci si ferma davanti alla Campana e davanti a una sorta di contenitore in genere in legno dove porre le offerte monetarie. La venerazione cambia da santuario a santuario, quindi non c’è una forma univoca anche se il Jinja Honcho, nel secondo dopoguerra, ha codificato una struttura, che è quella che viene utilizzata dalla maggior parte dei santuari. Per prima cosa si scuote questa Campana che serve per avvisare il kami (la divinità scintoista) della propria presenza: questo perché il kami non è sempre all’interno del santuario quindi non è sempre in loco pronto ad accogliere le richieste di bisogno; poi si offrono delle monete: in genere le monete che si offrono sono quelle da 50 Yen (le monete bucate) o da 5 yen; ci si inchina due volte, si batte le mani due volte, dopodiché si pone la propria preghiera o la propria riflessione, ci si inchina un’ultima volta e si lascia il santuario. Oltre a queste strutture, ci possono essere altri elementi all’interno dei santuari; in base alla loro dimensione ci possono essere altri padiglioni come ad esempio un kaguraden, il padiglione dedicato proprio all’esecuzione dei kagura (tipiche danze in maschera). Ci possono essere anche dei santuari più piccoli posti all’interno della struttura più grande del santuario principale, cioè in genere una struttura che vende amuleti, dove si possono comprare i vari omamori o le varie forme di divinazione, e c’è anche la struttura amministrativa. Quello che però è l’elemento principale del santuario è lo honden, che è la struttura dove i turisti non possono accedere e in genere nemmeno tutti i sacerdoti sono autorizzati ad accedere all’interno. Qui viene conservato lo shintai, letteralmente il corpo divino quindi l’oggetto all’interno del quale il kami può manifestarsi e situarsi. In genere lo ShinTai è uno specchio, come nel caso emblematico del Santuario di Ise ma può essere anche una spada, come ad esempio nel caso di Yasukuni a Tokyo, può essere una pietra, una gemma ricurva che in qualche modo richiama i tre tesori sacri. Ci sono casi in cui gli shintai non possono essere conservati all’interno dello honden; questo avviene, ad esempio, nell’Omiwa Jinja nella prefettura di Nara dove lo shintai è il monte Miwa. In questo caso il santuario è costruito alla base del monte e si riconosce il Monte come luogo in cui il kami può manifestarsi. Ancora un altro esempio è quello delle Cascate di Nachi, che sono venerate all’interno del Kumano Nachi Taisha. Anche in questo caso le cascate sono riconosciute shintai, corpo divino, quindi è l’elemento entro il quale il kami può situarsi. Nel momento in cui si costruisce un nuovo santuario c’è un rituale apposito per invitare il kami a entrare all’interno di quello che sarà poi lo shintai. C’è in Giappone un detto comune che riguarda appunto la presenza o meno dei kami e riguarda il mese di ottobre. Il mese di ottobre viene Infatti definito mese senza kami, questo perché si ritiene che durante ottobre tutti i kami del Giappone si riuniscono all’ Izumo Taisha all’interno del quale si trovano per discutere di varie cose per programmare il nuovo anno che sta per iniziare. Quindi in tutto il resto del paese i santuari non avrebbero la presenza dei kami, però Izumo ne avrebbe. In effetti a Izumo si parla di questo mese come il mese in cui ci sono i kami e si tiene un rituale importante, il kamiari matsuri, cioè letteralmente il matsuri (grande rito religioso) in cui ci sono i kami. Questo rituale serve ad accogliere i kami che sono ritenuti arrivare da tutto il paese; serve a intrattenerli e serve poi a rilasciarli e a far sì che possano tornare negli altri luoghi. Ci sono anche altri elementi. Innanzitutto la shimenawa ovvero una corda intrecciata in paglia che può essere di varie dimensioni; può variare quella che è la struttura ma non il significato e la funzione. Le shimenawa vengono utilizzate per delimitare uno spazio sacro o anche un oggetto sacro quindi si trovano attorno a particolari alberi o rocce. Sono in genere decorate con delle strisce di carta a zig zag che prendono il nome di shide. Queste strisce di carta si trovano anche negli oggetti che utilizzano i sacerdoti nei rituali di purificazione, questi oggetti prendono il nome di go-e e sono realizzati con un bastone alla cui sommità sono fissate queste strisce di carta. Quindi una volta visto come è strutturato un santuario, ci si può chiedere perché costruire un nuovo santuario: non si tratta solo di avere un luogo in cui venerare il kami, presentare offerte, ottenere benefici, ecc.; ci sono anche altre motivazioni che possono portare alla costruzione di un santuario. Alcuni santuari sono infatti costruiti per tenere sotto controllo il kami (il kami ha una doppia natura quindi una natura benevola ma anche una natura più maligna che quindi può causare dei problemi agli umani; per questo motivo, per cercare di evitare che la natura pericolosa del kami crei problemi, vengono costruiti dei santuari). In alcuni casi, soprattutto in tempi arcaici, dal momento che i kami erano percepiti come i veri proprietari della terra, allora costruire per loro un santuario era in qualche modo la forma per ricompensarli, per ringraziarli dopo aver ricevuto la terra per coltivarla o per costruire delle abitazioni. Ci sono poi diversi santuari che sono stati costruiti in momenti di crisi in seguito durante epidemie con l’obiettivo di proteggere la comunità. Un esempio di questo è lo Yasaki Jinja di Kyto, molto noto in particolare per il grande matsuri che si organizza d’estate, il gihon matsuri. Il kami che viene venerato qui è legato sia alla guarigione e al concetto di guarigione ma in realtà è legato anche alle epidemie.  Grossomodo le religioni del mondo hanno sempre due livelli: i fedeli normali e i mistici. I mistici sono coloro che hanno un contatto diretto con il soprannaturale, con le varie divinità della religione, cosa che è di solito preclusa al fedele. I mistici parlano con gli dei, gli angeli, con le anime dei morti, con i geni o folletti. Alcuni hanno rapporti anche con Dio stesso. Un versetto della Bibbia che ha influenzato enormemente la mistica ebraica e cristiana è Esodo 20, 21: “Il popolo si tenne lontano e Mosè si avvicinò alla nube oscura, dove c’era Dio”. Il simbolo della nube oscura è molto potente. Dio si nasconde e si rivela al tempo stesso al prescelto. Mosè e Elia sono coloro che sul monte Sinai hanno l’esperienza più ravvicinata con Dio. Nel capitolo 33 dell’Esodo Mosè dopo 40 giorni di digiuno sul Sinai chiede con audacia a Dio di mostragli la sua Gloria. Dio gli assicura di passare davanti a lui proclamando il proprio nome santo. Dio poi gli preannuncia che gli mostrerà le spalle: il volto di Dio, infatti, non si può vedere e rimanere vivi. L’espressione ebraica “le mie spalle”, ‘achoray, è letteralmente “ciò che sta dietro”. Significa che di Dio si vedranno solamente le tracce del passaggio. C’è sempre nella storia della salvezza una rivelazione non completa anche per i mistici, i quali al tempo stesso vedono e non vedono Dio.  Anche se Dio si rivela nella storia, però ciò avviene non del tutto. Salmo 77: “Le tue orme rimasero nascoste”. Questo è prefigurato dalla nube, nel quale Dio è nascosto. Nel deserto infatti questa nube era sia oscura sia luminosa (una colonna di luce). In 1Re 19 Elia dopo un cammino di 40 giorni giunge di nuovo al Sinai e sperimenta la presenza di Dio in sussurro di una brezza leggera, letteralmente “voce di silenzio sottile”. Elia, quando si accorge che c’è Dio, si copre il volto con il mantello per evitare di vederlo. In ebraico Dio è Qadosh, “santo”, ma letteralmente significa che Dio è “separato” dal mondo degli umani. Per questo non si può vederlo senza morire. Nella tradizione cristiana Mosè e Elia diventano TIPI dell’incontro dell’uomo con Dio. Non per nulla nella Trasfigurazione narrata dai vangeli, nella quale Cristo si trasfigura come luce (analogia con la nube quale colonna di luce che manifesta Dio), compaiono anche Mosè e Elia sul monte del Tabor accanto a Gesù. Ora per loro è manifesto in Cristo quello che volevano vedere nell’Antico Testamento ma non poterono. La nube luminosa nella quale vi è Dio accompagnava il popolo di Israele lungo il deserto e stava nella Tenda dell’Incontro, il santuario mobile del popolo errante, nel quale risiedeva l’Arca dell’Alleanza. In 1Re 8 l’Arca viene trasferita da Salomone nel Tempio, in un luogo riservatissimo detto Santo dei Santi. Nell’Arca dell’Alleanza “non c’era nulla se non le due tavole di pietra ricevute da Mosè sull’Horeb”. La nube quindi riempì il Tempio di Gerusalemme. La nube è la Gloria di Dio, in ebraico kabod, sostantivo che significa letteralmente “essere pesante”: la Gloria indica la importanza di Dio che grava sull’umanità, Dio che scende e si rivela all’uomo. Salomone disse: “Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura”. È interessante il verbo ebraico lishkon, “dimorare”: il verbo significa letteralmente “mettere la tenda”, ed è usato altrove nell’Antico Testamento per indicare la dimora di Dio tra gli uomini. La tradizione ebraica parla di Shekinah, la Dimora di Dio nel Tempio e nel mondo. Il Vangelo di Giovanni è sempre attento a esaltare la figura di Cristo quale Dio, quindi in 1, 14 abbiamo: “E il Verbo si fece carne e abitò tra noi”, ove c’è il verbo greco eskēnōsen, che significa letteralmente “mise la tenda (skēnē)”. Siracide 45 approfondisce questo incontro di Mosè con Dio e dice: “Dio gli fece udire la sua voce, lo fece entrare nella nube oscura e gli diede faccia a faccia i comandamenti”. Qui si usa in greco la parola gnophon, letteralmente “tenebra”, per tradurre arafel, “nube, nube oscura”, che compare in Esodo 20, 21. L’immagine della nube esprime nello stesso tempo la trascendenza e la immanenza di Dio. La trascendenza perché la nube nasconde ciò che sta dietro, il sole, vuol dire che Dio è inaccessibile tanto è alto. Ma nello stesso tempo la sua immanenza, la sua vicinanza, il suo dimorare tra gli uomini, perché dalla nube penetrano i raggi di luce. Il Propiziatorio, kapporet, è il luogo in cui Dio è presente prima nella Tenda dell’Incontro e poi nel Santo dei Santi del Tempio. È un oggetto avvolto nel mistero, forse era il coperchio dell’Arca tenuto da due cherubini d’oro. Nello spazio vuoto nel quale i due cherubini si guardavano, appariva Dio. Dio appariva nel vuoto, appariva in quanto invisibile. Nel Giorno dell’Espiazione il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi e infondeva l’incenso affinché la nube di incenso coprisse la visione di Dio. In Daniele 7 il Figlio dell’Uomo viene sulle nubi. È un simbolo messianico, che Gesù Cristo stesso si attribuisce nei vangeli. Poi quando ascende al cielo Cristo è avvolto da una nube. La letteratura ebraica ha arricchito questo simbolo della nube, che ha un ruolo importante nella festa delle Tende, che celebra il passaggio del deserto da parte degli ebrei nelle tende e il dimorare di Dio nella Tenda dell’Incontro. Filone d’Alessandria, un filosofo ebreo contemporaneo di Cristo, fa riferimento più volte al versetto di Esodo 20, 21. Mosè è preso dall’eros di Dio, dal desiderio di Dio, dallo slancio di amore verso Dio. Mosè anela di vedere Dio e di essere visto da Lui. Anche se è consapevole che il suo desiderio è irraggiungibile, non si stanca di avvicinarsi a Dio. Quando l’anima, amante di Dio, indaga l’essenza di Dio, viene in ricerca dell’oscuro, dell’invisibile, dal quale le deriva il massimo bene di comprendere che Dio in quanto all’essere è incomprensibile a chiunque. Filone sottolinea che il nome di Dio Io Sono Colui che Sono significa che la natura di Dio è tale da essere e non essere detta: conosciamo le sue tracce, si manifesta come luce, ma non possiamo definirlo del tutto, non possiamo farlo entrare del tutto nella nostra mente.