Significativa sorte del personaggio di Faust: esso apre (con Goethe) e chiude (con Thomas Mann) la parabola del Romanticismo. E se c’è oggi chi fa risalire l’atteggiamento propriamente faustiano agli albori stessi del pensiero e della scienza moderna, tale pensiero interpretando appunto come superba aspirazione dell’uomo a vincere i segreti della natura, anche questo criterio storiografico sarebbe inconcepibile se non avesse cosi profondamente inciso l’esperienza romantica, che in Faust ha esaltato lo spirito della ricerca e insieme ne ha connesse le sorti a un che di demoniaco e di profanatore. In Italia invece, come il Romanticismo ha avuto aspetti particolari se non attenuati, cosi il mito di Faust non ha incontrato grandi adesioni. Tanto più notevole, pertanto, anche se non solo per ciò notevole, il tentativo (che altro non fu) di Enrico Thovez di riassumere in un Faust i tormenti e le aspirazioni sue e del suo tempo, insieme ai contrasti con un ambiente che — non è un segreto — Thovez non amava né sentiva congeniale alla sua opera. Gli abbozzi più ampi del Faust thoveziano sono editi, anche se poco accessibili; vi ha provveduto Valeria Lupo in Scritti Inediti (Treves, Milano 1938) con la collaborazione di Andrea Torasso, depositario di quanto c’è ancora di inedito dell’antico compagno di gioventù. Da questi abbozzi, e dal Diario curato da Torasso per Garzanti nel 1939, è possibile arrivare a un’idea abbastanza chiara di quello che avrebbe dovuto essere il Faust di Thovez, la cui stessa incompiutezza ci appare ora come un fatto significativo delle contraddizioni drammatiche attraverso le quali l’opera avrebbe dovuto compiersi. Se oggi si avverte, da più parti, il bisogno di “riscoprire” queste incompiutezze romantiche, se l’accostamento delle figure dei grandi tormentati e dei disperati solitari del tardo Romanticismo riesce a noi oggi non soltanto criticamente facile, ma anche, direi, sentimentalmente LUDOVICO ACTIS PERINETTI IL “FAUST” INCOMPIUTO DI ENRICO THOVEZ annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 9 10 necessario, ciò dimostra che in qualche modo veramente noi abbiamo voltato pagina, e proprio perciò ora possiamo e anche desideriamo capire quella che è storia confusa di ieri. Da Wagner, Nietzsche fino ai nostri Slataper e Thovez, c’è un’uguale intensità e capacità di sofferenza, e c’è un’uguale insofferenza del limite (mentre il nostro tempo, certo non meno sofferto, è invece una lucida richiesta di limite e di misura). Nulla di più significativo, quindi, per noi, che la verifica – veramente sperimentale – delle impotenze di questi eroi faustiani che di essere “soltanto” uomini non s’accontentano. Il pensiero del Faust da compiere percorre tutto il Diario di Thovez: «Penso alla mia grande opera futura. Sarà come un nuovo Faust, ma di un disegno molto più vasto… Non ho cuore a pensare ciò che soffrirò»; «Fare come un Faust moderno: è il mio sogno». Scrive nel settembre 1895: «Non ho ancora potuto mettermi attorno al nuovo Faust, il cui concetto mi rapisce: ne ho scritto qualche frammento, per non smarrire il diapason»; e nel luglio 1896: «Stamane misi mano a una cartella dove tengo gli abbozzi del Nuovo Faust: lessi, meditai, mi accesi d’entusiasmo e dopo poche righe dovetti smettere; chiudere tutto e uscire coi nervi sossopra». Le sue letture preferite lo risospingono a scrivere: da Emerson («mi riporta all’epoca dell’adolescenza, a quel tempo di libertà completa dello spirito, di audacia sconfinata, di intransigenza assoluta… me ne giovo moltissimo per il Nuovo Faust») a Péladan («ho letto un romanzo di Péladan Un coeur en peine e un libro teorico Comment on devient mage… mi ha risvegliato più che mai il desiderio di mettermi attorno al Nuovo Faust»). Dicembre 1898: «Ho un bel voler dimenticare il Faust e guardarmi attorno: la realtà o è incolore o riproduce quella figura incomparabile». Thovez esiterà, tuttavia, anche a proposito del titolo stesso della sua opera, che a un certo momento penserà di tramutare in un Tristano («l’uomo condannato al dolore»). Come Faust, Tristano è l’uomo che dovrebbe compiere le conciliazioni impossibili: “idealista e realista”, egli sta fra l’“idealista mistico” e lo “spirito della terra”: «nel mio poema, il diavolo deve essere incarnato dall’essere materialista, senza scrupoli, cinico e allegro, gaudente, rappresentante delle forze primitive della materia, degli istinti bruti, che sono i più forti e indistruttibili; forze necessarie che conservano la vita, contro i pericoli dell’idealismo a cui siamo portati dal sentimento di elevazione progressiva, ma che vanno temperate dall’idealismo, il quale sacrifica la propria carne a questo scopo di elevazione dei bruti». E se anche in definitiva Thovez tornerà poi decisamente al Faust, il suo eroe conserverà qualcosa pure di Tristano, come se il sogno di potenza faustiano fosse contemporaneamente vissuto nel rimpianto desolato e nostalgico che segue il suo fallimento: Tristano «è la desolazione fatta musica. Fluttuazioni vaghe di una mente morente dietro lontani sogni d’amore, rimpianti disperali, brevi aneliti…». Se non del tutto a torto si è parlato di «letture scientifiche e filosofiche annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 10 11 da cui non cava più i piedi» perché «la chiarezza d’idee, la severità di metodo non attraggono il suo spirito brumoso», tuttavia proprio l’incrociarsi di esigenze e a un certo punto anche lo sdoppiarsi della persona, e l’ansia di «abbracciar tutto», questo «spasimo di grandezza, struggimento di studio, ebbrezza e tristezza di non poter tutto abbracciare» sono chiaramente i sintomi di una non avvertita situazione di crisi, la cui portata, in qualche modo, trascende le approssimazioni thoveziane e rivela contrasti più profondi, che non solo per imperizia soggettiva Thovez non sapeva padroneggiare o risolvere. Il Faust di Thovez prende le mosse da una concezione della scienza che è tutta romantica: «Come ardo di immergermi intero nello smisurato flutto della conoscenza! L’attività dell’uomo moderno è veramente immensa e mirabile. Egli sta curvo sul mistero delle cose, ne scruta con occhio armato l’intima vita. Invano la natura riluttante vorrebbe sfuggirgli…». L’esaltazione sfiora la caricatura: «Quale idealità sublime, quale speculazione ultramondana supera mai in grandezza di poesia questo moderno concetto dell’unità della materia? La mia mente si dilata, il mio cuore batte più rapido se io penso alla sostanza». Dal pathos della ricerca al disdegno della vita banale il passo è breve: «Uno slancio invincibile mi porta a tutto ciò che di grande, di intenso, di vibrante ha il mondo. L’esistenza comune non può bastarmi. Io sono dalla natura chiamato a integrare in me tutte le forme dell’essere: nulla può essermi estraneo». Ma da questa fase romantico-positiva il Faust thoveziano passa (seguiamo, evidentemente, la traccia frammentaria che ci rimane) ad una condizione di dubbio e di sfiducia: «Ah, dalla fonte stessa del godimento sorge pure l’inquietudine. I libri si moltiplicano senza fine… Tratto dall’ardore della mia mente, io passo continuamente dall’uno all’altro, avido di sapere e non mai sazio: e la mole dei fatti cresce e mi sgomenta, e la sapienza totale mi sfugge per sempre. Oh! foss’io un Dio…»; «anelo a conoscere la legge della vita, ma la conosco forse io la vita? Mi accosto ai vetri, mi pare di udire fioche musiche, vedere il bagliore dei lumi. Ah se la mia via fosse errata, se il mio sacrificio fosse stolto! se un giorno avessi a rimpiangere le gioie comuni!». In questa fondamentale indecisione, che si ripete in tutta l’opera di Thovez, dal Diario alle poesie, dal Faust alle novelle sparse, viene in luce la contradditorietà profonda del suo faustismo che, a differenza di quello vigoroso e classico di Goethe, non sa vedere la vita nella ricerca e la verità nella vita, ma deve dibattersi in una sterile contrapposizione di vita bruta e ideali sublimi, dove mancano tanto la fermezza ascetica di uno Schopenhauer quanto il si dionisiaco di un Nietzsche. Non a caso, mi sembra, nei frammenti di scene nei quali più s’accentua lo smarrimento del protagonista, il suo nome diventa quello di Tristano, che si esprime in parole come queste: «Tutto è menzogna. Non c’è che una verità: la morte. E se amiamo la verità perché aspiriamo alla vita?». annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 11 12 È il momento dello scetticismo più radicale; chiuso nel quale, il protagonista si compiace di vedere in caricatura alcune figure tradizionali della storia del pensiero, ridotte ad imbonire la folla nella scena della Fiera delle vanità (che costituisce, tra parentesi, una poco nota pagina satirica della nostra letteratura, solita piuttosto a un rispetto incomprensivo verso le idee e capace di salacità soltanto verso le cose del senso). Abbiamo cosi l’“uomo della natura” il quale, in costume di Adamo, dichiara: «La natura ha fatto l’uomo buono, e la società lo ha reso malvagio. Io vi insegno a ritornare buoni, liberi, felici. Non avete che a prendere esempio da me… La sensibilità è il mio forte»; brano che ci fa ricordare il pungente commento voltairiano a Rousseau: «Vien voglia di camminare a quattro zampe, a leggere il vostro libro». Viene poi il “filosofo del criticismo”, in uniforme di gendarme prussiano: «Genti vane, voi siete vittime dell’illusione. I vostri sensi non possono darvi che l’apparenza delle cose: voi non conoscete che i fenomeni: la loro vera essenza vi sfugge. Essa è inconoscibile e perciò io le ho messo un nome: il noumeno. Io ve la vendo confezionata in solidi astucci, che non aprirete che fra le quattro pareti della vostra casa e al buio, perché è un’essenza cosi fragile che teme l’aria e la luce… Pei bisogni poi della vostra esistenza quotidiana, posso fornirvi un’altra specialità: è una scatoletta che ha nome: l’imperativo categorico. Si tocca il coperchio, e spinto da una molla segreta scatta su un fantoccio che col suo cipiglio terribile e il braccio teso vi indica senza fallo la via da seguire». Non mancano, inoltre, il “filosofo della forza”, in costume di abitante delle caverne, il “poeta della vitalità integrale”, in costume di tiranno del Rinascimento, il “panteista”, in costume di fabbricante di occhiali («con le mie lenti perfettamente limpide potete vedere la verità pura. Se volete chiamatela pure Dio, ma essa è la sostanza infinita ed eterna, dotata di infiniti attributi»), il “messia del pessimismo”, in costume di becchino, il “filosofo idealista”, in costume di prestidigiatore («la natura? ecco io la metto sotto questo coperchio. Un tocco di bacchetta magica: ed ecco alzo il coperchio. È scomparsa»), il “neospiritualista”, in costume di garza vaporosa, l’“anarchico”, in costume di pelle di tigre, lo “scettico”, in costume variopinto, l’“asceta”, in costume di fachiro, il “materialista”, in costume di chimico, e via dicendo. E la folla che s’aggira fra i banditori, indifferente e carnale, ascolta piuttosto il coro dei satiri, «ghiotti del dono di Dionisio, ma più di quello di Afrodite». Da questa fase scettico-critica, in cui l’unica verità sembra circoscriversi al piacere dei sensi, il Faust-Tristano, che ha ormai sepolto la primitiva illusione di poter abbracciare l’universo in un’unità d’amore e di conoscenza, riconosce la fatalità del «dissidio insanabile che rende oscura e tormentosa la via, che fa apparire la vita nel tempo stesso dono ineffabile e tormento senza nome». In questo dissidio, tuttavia, rimane all’uomo «la poesia tragica del suo destino, del dramma del suo spirito e della sua carne. Dalla più dura sofferenza sorge il più profondo conforto». Non è eliminato, tuttavia, annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 12 13 l’accento faustiano in questo compiacimento stoico della vita sacrificata per l’arte; giacché l’arte cosi intesa si colora ancora di tinte epiche, di spasimi cosmici, e l’artista diventa in qualche modo l’uomo che “salva” l’intera umanità (ed è questo appunto, secondo Thomas Mann, il “faustismo” anche di Schopenhauer). Donde l’esaltazione romantica del genio come di colui che non si lascia trarre in inganno dalle apparenze inganna-trici: «Oh l’infelicità del genio! di veder lontano fra quanti non vedono che vicino ed esser detto visionario, di veder profondo dove tutti non vedono che superficialmente ed esser detto oscuro, di preferire la verità amara all’illusione dolce, l’austerità triste all’indulgenza facile ed esser ritenuto malevolo!». Siamo qui nel momento involutivo e pessimistico della dottrina del genio (e del suo prolungamento in quella del superuomo), mentre, al suo esordio poetico, Thovez chiedeva unicamente «d’esprimere questo tumulto; d’esser la voce profonda / della Natura» nel senso ancora fresco e nativo del primo Romanticismo. Sono le successive amarezze e contraddizioni quelle che lo portano ad accentuare l’altro aspetto, di solitudine eroica e non compresa perché portatrice di una verità superiore: «Vi sono uomini a cui la rapidità della mente non permette di ingannarsi. Per essi l’incomprensibilità dell’infinito è tormento continuo e straziante. Sono come giganti che emergono di tutto il capo sopra la marea confusa della folla». Un pessimismo così accentuato non poteva non dissolvere lo stesso ideale austero dell’arte come forma estrema di riscatto; giacché (ed è ciò che lo distingue da Schopenhauer) il dolore thoveziano diventa assai più dolore del “genio”, il quale soffre in quanto tale, anziché dolore dell’umanità, volontariamente assunto e purificato nell’esperienza estetica. Non c’è tanto, insomma, in Thovez, commiserazione per le sorti umane, quanto c’è piuttosto una sorta di amarezza individuale che prepara e rende inevitabile il suo capovolgimento puro e semplice nei termini di un estremo desiderio di abbandono al flusso normale dell’esistenza, che improvvisamente cessa di ripugnare e si colora di appassionata desiderabilità, cui il protagonista thoveziano è ben lieto di arrendersi (anche se con ciò non risolve le sue ambivalenze): «Un terribile desiderio di vita assale il mio essere ora che la meditazione e lo sforzo di creare hanno esaurito la freschezza dei miei sensi, ora che la memoria mi fa lampeggiare alla mente tutta la somma di vita che immolai al vano sogno della mia mente». Ma è già troppo tardi. L’arte, concepita come salvezza contro la vita, non solo ha dissanguato sé stessa in una somma di sterili tentativi, ma ha anche compromesso la possibilità di quel ritorno alla vita che ora appare come desiderio retrospettivo e irrealizzabile. Onde, proprio in questo estremo e ardente ripiegarsi, il Faust di Thovez constata la misura della propria perdizione: «Il veleno del mondo corrotto è in me, quel lievito impuro fermenta nel mio sangue. Io sono fatto simile alla turba», cioè simile, sia pure per opposta esperienza, a chi non sa cogliere i valori immediati e autentici della vita. Il fallimento finale, inevitabile in questo Faust, si manifesta, annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 13 14 negli abbozzi delle ultime scene, con la morte del protagonista, commentata in sordina dalle parole di un amico: «Volle che il solo ardore di bene e di poesia guidasse la sua esistenza. Spense ogni stimolo di utilitarietà. Ah, troppo tardi si accorse quali potenti elementi di vita e di lotta avesse tolto al suo organismo». Non così semplice è, tuttavia, il significato della vicenda che queste parole vorrebbero suggellare; non c’è dubbio, però, che la dissociazione profonda testimoniata in questo caso da Faust (e vissuta con la sensibilità moralistica propria di Thovez) si traduce effettivamente in un doloroso rifiuto della immediatezza vitale, subordinata a uno spasimo verso ideali perseguiti con sensibilità morbosa e febbricitante (ci soccorre qui ancora il Diario: «Oggi sono contento: ho potuto soffrire»; «né la salute né la gioia hanno mai acceso il mio animo come ora la febbre»; «questa angoscia mi è cosi dolce» ecc.). In questo atteggiamento, la realtà sorgiva e immediata che Thovez tanto più desidera quanto più se la rende irraggiungibile, si snatura essa stessa e diventa, ogni volta che sembra poter essere attinta, trivialità fangosa e repellente: indice, anche questo, di un dissidio inferiore non sanabile né teoreticamente accettabile. Non esce, dunque, nessuna indicazione positiva da questa esperienza, come, d’altronde, da nessuna esperienza faustiana (il lieto fine goethiano sa più di accorgimento teatrale che di necessità interna del dramma). Né l’accettazione della vita, né il suo superamento sono, per il protagonista thoveziano, possibili. La dualità normale di ogni esperienza tesa fra il perseguimento di una norma e l’accettazione di un fatto, titanicamente dilatata da Thovez, si cosmicizza in un contrasto di forze opposte, inconciliabili. Posto nella parte discendente della parabola, ma non ancora giunto al suo termine, il Faust di Thovez non ha più la speranza di quello goethiano e non ha ancora la desolata lucidità del Faustus manniano: la sua “incompiutezza” è metafisica prima ancora che pratica: e se anche Thovez avesse portato a termine la sua opera, non perciò avrebbe placato il suo impossibile eroe. CENNI BIOGRAFICI DI LUDOVICO ACTIS PERINETTI (a cura di Dante Giordanengo) Nasce a Caluso il 19 novembre 1930, figlio di Mario, sindaco di Caluso, poi consigliere provinciale e senatore, e di Myrtha Büchi Jucker, la cui famiglia era titolare dei cotonifici di Caluso. Frequenta le scuole medie a Torino all’Istituto Rosmini e quindi il Liceo M. d’Azeglio con l’assiduità possibile nel periodo bellico. È questo un periodo di intensa formazione per il giovane Ludovico con assidue letture in aggiunta a quelle scolastiche combinate con esperienze traumatiche annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 14 15 legate all’assenza del padre aderente alle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà. In un occasione, nel maggio del 1944, fu preso come ostaggio dai nazifascisti, insieme alla madre ed alla giovane sorella con la casa minata, fino a quando il padre si consegnò e fu rinchiuso alle Nuove da cui venne fortunosamente liberato per lo scambio con un alto ufficiale tedesco. Si laurea in Filosofia nel 1952 con la tesi Filosofia e Scienza in Alfred North Whitehead, votazione 110/110 con lode. Relatori Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano. Nel 1953 lavora per un breve periodo all’Olivetti e poi entra a far parte del Movimento Comunità di Adriano Olivetti nell’ambito della direzione politica. Alla fine del 1956 rientra in Olivetti dove rimarrà fino ad ottobre del 1958. In questo periodo collabora a diverse riviste di politica e filosofia e appartiene al comitato di redazione della rivista “aut aut” fondata da Enzo Paci. Nel novembre 1958, lasciata l’Olivetti, assume l’incarico dell’insegnamento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia presso l’Istituto Magistrale Comunale “Montessori” di Montegiorgio in provincia di Ascoli Piceno. Ricopre anche l’incarico provvisorio di preside dell’Istituto. Alla fine dell’anno scolastico lascia l’incarico di insegnante. All’inizio del 1960 tiene per alcuni mesi la posizione di Segretario del Centro di Studi Sociali presso la Società Umanitaria di Milano che lascia quando viene assunto dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale quale segretario dell’Ufficio provinciale del lavoro di Torino. In questo periodo fino al 1972 collabora con il quotidiano milanese del pomeriggio “La Notte” dove tiene la rubrica Divagazioni con la firma “Lapo”. Nell’ottobre del 1971 viene trasferito dal Ministero del Lavoro alla Regione Piemonte dove viene incaricato dell’organizzazione della nascente Biblioteca della Giunta regionale. Rimane in questa sede fino al 1978 quando chiede di essere collocato in pensione. Muore il 17 dicembre 1998. SCRITTI DI LUDOVICO ACTIS PERINETTI (a cura di Dante Giordanengo) Il sole amaro, Collana ‘Poeti d’oggi’, Gastaldi Editore, Milano 1952. Filosofia e Scienza nella “Filosofia Natura” di Whitehead, “Filosofia”, n. 3, Torino 1952. Crisi di una cultura nel “Faustus” di Thomas Mann, “aut aut”, luglio 1953. Cosmologia e Assiologia in Withehead, “Biblioteca di Filosofia”, Torino, novembre 1954. Educazione degli adulti e Sociologia, “Quaderni di Sociologia”, n. 14, autunno 1954. Cinquant’anni di filosofia italiana, “Comunità”, anno IX, n. 31, giugno 1955, p. 64. annali_2013_ultimo:impag annali 2012 11-02-2014 14:24 Pagina 15 16 Atteggiamento e ricerca, Edizioni L. Rattero, Torino 1956. Marxismo e metodologia, “aut aut”, marzo 1956. La filosofia di Gilbert Ryle, “Comunità”, X, n. 38, marzo 1956. Azione politica e prospettiva di fondo, “Comunità”, X, n. 39, aprile 1956. Sulla relazione in Aristotele, “aut aut”, maggio 1956. Semanticità della relazione, “aut aut”, settembre 1956. Cronache di filosofia, “Comunità”, X, n. 44, novembre 1956. Il marxismo del disgelo, “Comunità”, X, n. 45, dicembre 1956. La sinistra e lo Stato, “Comunità”, X, n. 45, dicembre 1956. Il “Faust” incompiuto di Enrico Thovez, Edizioni di Filosofia, Torino 1956. L’Illuminista inquieto, “aut aut”, gennaio 1957. Antonio Labriola e il materialismo storico, “aut aut”, marzo 1957. Note sul relazionismo, “aut aut”, maggio 1957. Ideologismo e realismo, “Comunità”, XI, n. 55, dicembre 1957. Socialismo e Autonomia, Edizioni di Comunità, Milano 1957. “Esprit” nuova serie, “Comunità”, XII, n. 56, gennaio 1958. Antonio Labriola e il Marxismo in Italia, Loescher, Torino 1958. Revisionismo o nuova fase del socialismo?, “Comunità”, XII, n. 59, aprile 1958. Dialettica della relazione, Edizioni di Comunità, Milano 1959, con in appendice i saggi: – La relazione nella logica di Aristotele – Descartes, Pascal, Locke – L’illuminista inquieto – Esistenzialismo e letteratura – Il Faustus di Thomas Mann – Croce e la crisi europea – L’idealismo e la scienza – Sul naturalismo americano – Sul relazionismo – Marxismo aperto ARTICOLI IN DIZIONARI Whitehead, in Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976. Evento, Metodologia, Semantica, Tecnica, in Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze 1977. PUBBLICAZIONI CURATE DA LUDOVICO ACTIS PERINETTI Montaigne, Saggi, Biblioteca di Filosofia e Pedagogia, Paravia, Torino 1958. Gli illuministi italiani, Collana Classici della Filosofia, Loescher, Torino 1960. dagli Annali del Pannunzio del 2012
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