E’ raro che scriva qualcosa senza avere dati o cifre di supporto. Mi piace essere preciso, non scrivo mai per sentito dire. Tuttavia, oggi non ho statistiche aggiornate sui dati di vendita, o di accesso ai siti, relative ai quotidiani in questi giorni di grande casino nazionale.

Sono però un frequentatore di social da quasi 12 anni (ho un account su quasi tutti) e dunque mi sono fatto un’idea delle reazioni della gente rispetto al lavoro che svolgono i giornali. E alla credibilità che il pubblico ha sui giornalisti. Partendo da un presupposto. Che i social non siano il bar sotto casa, dove ognuno dice la prima cazzata che gli viene in mente. Come sosteneva a suo tempo Umberto Eco, anche se oggi, debbo ammettere, con molte ragioni in più rispetto ad una decina di anni fa. Continuo però a considerare i social un utile luogo di confronto pubblico.

Una grandissima maggioranza accusa i giornali, e la televisione, si spandere panico e paura e di essere i principali responsabili delle follie di questi giorni. Articoli, titoli, commenti, locandine, strilli di copertina, lanci pubblicitari, tutto è nel mirino delle critiche. Perché, secondo tanti, lo fanno? Per vendere (giornali e dunque pubblicità) o per aumentare l’audience, e quindi moltiplicare gli spazi commerciali televisivi. Detto che ogni impresa , pubblica o privata, è libera di scegliere la propria linea editoriale e che nessuno può vivere d’aria, e considerato che le mele marce esistono dappertutto, e che io personalmente sono l’ultimo a difendere gli interessi di categoria, vorrei ricordare, molto sommessamente, alcune cose che stanno alla base di questo mestiere.

  1. La notizia è una notizia. E’ il punto centrale della professione. Se la notizia c’è, ed è verificata, non c’è nessuna ragione al mondo per tenerla nascosta.
  2. Le notizie hanno delle priorità. Se l’informazione è che quel giorno ci sono 200 casi di coronavirus quella notizia va in prima pagina. Questo non è spandere terrore, è raccontare ai lettori come stanno le cose, è rispettare le regole della professione.
  3. Spesso sotto accusa sui social ci sono i titoli dei giornali. Costruire un titolo è un lavoro difficilissimo. Appassionante, ma complicato. Il titolo deve essere una sintesi dell’articolo e allo stesso tempo convincere il lettore a leggere il pezzo. Il giornalismo popolare anglosassone, britannico e americano, è stato maestro in questo. E’ meglio Virus, il Nord nella paura (Repubblica) o C’è un po’ di virus in giro, ma niente panico, poco allarmistico ma pessimo nella sintesi della situazione reale?
  4. Gli inviati vanno in giro e raccontano quello che vedono. Nel novembre del ’94 fui inviato dal mio giornale nei paesi del pavese inondati dall’acqua. C’era una intera popolazione in lacrime, la paura che l’onda di piena, che doveva ancora arrivare, li travolgesse. Che cosa dovevo scrivere? Che, non c’era nulla da temere, perché in fin dei conti era come avere una piscina nel salotto di casa?
  5. I fotografi , e cine operatori dei telegiornali, fanno quello che devono fare. Fermare con il loro obiettivo quello che i loro occhi vedono. Ho letto su Facebook di gente che si lamentava che StampaRepubblica e Corriere della Sera pubblicavano immagini di centri commerciali con gli scaffali vuoti. Così spargete il panico e aumentate la corsa agli accaparramenti. Sarebbe stato buon giornalismo mascherare la verità con una foto qualsiasi d’archivio?

Con questo non assolvo tutti i quotidiani in circolazione, alcuni come Libero e Il Giornale strillano titoli e articoli con evidente intento politico, e in un momento di richiamo all’unità del Paese non è un bene, ma credo di poter dire che i grandi quotidiani stanno svolgendo un lavoro moderato dal buon senso.

E poi c’è quel pilastro che si chiama notizia. E’ il sostegno di tutta l’informazione. Mai enfatizzarla, ma sarebbe un pessimo giornalista chi la sottovalutasse per timore che i suoi lettori, in stato d’ansia, conoscano la verità. Il Times