La collocazione di Kafka nel panorama  della letteratura non è stata sempre concorde  con  i giudizi  della  critica   spesso disturbati  e  influenzati   da interventi  di carattere ideologico che ne hanno   ritardato l’accoglienza e persino il riconoscimento. Potrebbe bastare come esempio  l’ostracismo  di lunga data, in prevalenza  architettato  nell’Europa  orientale,  che non soltanto  ridimensionava   l’opera  ma  metteva  in ombra  persino  l’uomo  facendolo scomparire  a lungo dalla scena. Quando, grazie alla lungimiranza  di editori, amici e scrittori, la figura di Kafka è riapparsa in tutta  la sua grandezza,  sono caduti  gli steccati e  si è aperto un ampio  dibattito sulla sua produzione letteraria.  Non ci è  subito liberati   delle scorie  depositate sull’opera  e sui  comportamenti  dell’autore,   certamente  poco incline  a farsi   traghettare,  in vita,    nel mondo della critica   e  successivamente in  quello dei  lettori.  Il  silenzio che lo ha fatto  tacere, anche con il  suo consenso,  ha avuto origine  da  un   carattere  schivo  e  riservato, ma anche   dalle  posizioni  estreme  di una  buona parte  della critica marxista  e dal  potere esercitato dalla politica.  Non è stato   messo  al bando  nel  mondo occidentale  dove tuttavia  si  è  atteso a lungo  prima  di assumere  posizioni  decisamente  più chiare e  dove inizialmente  si  è  assistito ad  una lenta  riflessione, che  ha squarciato un  panorama  fatto di   imbarazzanti  titubanze. Kafka non poteva    opporsi  o  difendersi,  ammesso che  fosse  possibile. Ma non  bisogna  dimenticare che in  quegli anni la  sua preveggenza  è  stata   rara  e  ancora  più  notevole  è  stata  la sua  capacità  di  interpretare  il corso  degli  eventi   dei quali   in  largo  anticipo    colse   le avvisaglie. Stavano   addensandosi  sul   continente europeo nubi  minacciose e ne avvertì  il pericolo.  Un  esempio  rafforza  la   sua   singolare  capacità di preveggenza.  Allo scoppio del primo  conflitto  mondiale  non si schierò con  gli interventisti  e rimase quasi indifferente nei confronti delle posizioni  assunte da schieramenti  opposti, individuati   con accortezza,   basati  su interessi  egoistici  privi  di  orizzonti.   


        Questo   comportamento  derivava  in  parte  della  sua natura  ma  allo   stesso tempo   da  una sensibilità  e da  una  umanità  che   lo  vide  precocemente  appassionato e profondo   lettore  delle  opere  di   Hamsun, Ibsen, Mann, Dostoevskij,  Strindberg  e   infine,  ma  non  da  ultimo,    di Tolstoj.   E’    venuta  alla luce negli anni  l’idea  che  ci fosse dell’altro  nella sua  ammirazione,  quasi  una venerazione,   per l’autore  di  “Guerra e pace”.  Percepiva  forse  che  nel  servilismo   secolare  della società   russa    potesse  nascondersi   oscuro  qualche altro elemento,  non   del  tutto   negativo,   da studiare  a  fondo.    Furono  la  stima  e  la  considerazione  per   la  scrittura  e  il  modo  di vivere    del  russo  ad   attrarre    Kafka  verso il mondo orientale.   Sulle  prime  non  ebbe    del tutto  chiari  motivi  e  ragioni  di  tale    “fascino  slavo”   che   si evidenzieranno  in seguito  lentamente,  quasi  in parallelo con la sua  ripulsa  a occuparsi del conflitto che  sconvolse   l’Europa.  Rifuggiva, come si è detto,  dall’occuparsi   di   critica   e  dibattiti  fra  esperti.  Intuì  però  con  raro  acume  e  immediatezza   quali  erano  gli autori  che   raccontavano    in modo  stupefacente  la   propria  rigorosa  lettura    dei fenomeni sociali   con  i  loro protagonisti.  Percepiva  nei  loro scritti  oltre  allo stile  e  alla  perfezione  linguistica  un   impegno  morale   e  la   volontà di contribuire  al  miglioramento  delle  condizioni  che affliggevano   le classi più  umili  delle  loro società.  Gli  sembrarono  meno  interessati  ad  occuparsi  delle sorti  delle  classi dominanti  e  del    potere.  La verità e la perfetta sovrapposizione  di  etica e  verità, uno dei  cardini  del  suo  pensiero,  la riscontrò  identica  nei  personaggi    dai   quali     attinse  incitamenti   e  aspettò  conferme.      

       L’accostarsi   a  quel  gruppo di   geniali  precursori    fu  per lui   più un problema di ordine morale che non estetico  o letterario.  L’ interpretazione  dell’opera di  Tolstoj   si  teneva  ferma   a  questo  precetto  e  dai    suoi   spiragli, che si  propagavano  con la  loro   luce  all’esterno, il praghese   avrebbe   in seguito   colto   aspetti   che   spiegano   meglio    perché  egli   fosse  stato  avvinto  fortemente, più   da  quanto  intravedeva   nel  complesso  panorama  del  mondo orientale –  storie  e  uomini   con le loro vicende individuali  e  ampi intrecci   con   una sterminata  e  multiforme  umanità  –    che  non  dalle epidermiche   differenze strutturali   percepite    dalla  saltuarie  immersioni  nelle  società  occidentali  a  lui  vicine.    Era  una vaga  sensazione  di  nostalgia,  quasi  di  innamoramento   verso  qualcosa di  indefinito  che si  profilava  da oriente.  Si  sentiva  in mezzo al guado  non solo geograficamente ma anche psicologicamente  e  culturalmente,  mai  però  lontano   dalla   gente.   Il  suo  pensiero  rivolgeva   sempre   l’ attenzione  al  rapporto    fra   etica e verità.  Una  sua  regola  fondamentale   è  racchiusa   in  poche incisive   parole:     “nostalgia  verso  la  purezza:   sentire  e vivere  la verità”.  Parole   indirizzate   non  soltanto  a  se stesso  ma  anche    ad una  umanità  senza  confini  nella quale  l’uguaglianza   e  la giustizia   dovevano  rappresentare    il sostrato   comune.    Non   si   dovrà  ignorare   che    l’uguaglianza,    all’ interno   del   suo   microcosmo,   era  incastrata  in    vicende   che   pur  nella   loro  modestia  riflettevano    strutture  e ordine  universali ,  e,  all’esterno,   la  giustizia   presentava    una somma  di  variabili   fra  le  quali    si     annidava      l’ardente  desiderio  per  lo  sviluppo  e   la  difesa   della  democrazia.   E’   arduo  valutare   quale  impatto   avesse   all’epoca   nel  privato  la   parola “democrazia”.   Franz   adoperò   tutte  le  sue  forze  per   trovare    una  dimensione  equilibrata    nei  rapporti  sociali    e     famigliari  e   della democrazia   ebbe,    con  il   suo modo di  vivere,   un   rispetto   profondo.

      Ciò  si sarebbe  manifestato,   malgrado  l’estrema   variabilità  caratteriale  che si  era   preannunciata   sin dall’infanzia  e che  rivelò  fra  l’altro   un  acuto  senso dell’umorismo,  anche  per  episodi  inediti  e sfaccettature  in miniatura    che  arricchirono   di  senso   i  suoi   tentativi  di  affacciarsi   dalla  finestra  del mondo.  Vi   contribuirono   un   progressivo  ampliamento della composizione familiare che mutava   in base agli umori  paterni,  a caccia di una assimilazione  con la società  ceca   in  prevalenza praghese, ma  da un  punto di vista  dell’ambizione personale con quella  tedesca,  o  la nascita delle sorelline  che  alla  sua  vita    conferirono  una  patina  di socievolezza, o  l’arrivo di  personale  di servizio  e  di precettori  che l’economia  della  famiglia  gradatamente   poté   permettersi.  Tutto questo consentiva  di  rivestire  l’adolescente  che si  andava  formando  e  delineando   di una mutevolezza che certamente  poteva  essere considerata  simile   a  quella di   altri    rappresentanti   del mondo  artistico e letterario  ma che pure  aveva   suoi   originali  e  personali  tratti.  In  quel  piccolo   mondo  di famiglia   si  destreggiò  non sempre  con  garbo  ma  si   orientò facendo    mostra  di    una  impensata  consapevolezza  e  onestà    nella  particolare  cura    dei  rapporti    evitando  forti  contrapposizioni. Negli   anni della   scuola    l’ esile  ed  enigmatica   figura  oscilla  fra un rintanarsi  imbronciato nella  solitudine e  i  timidi tentativi  di aprirsi  alle esperienze  del   mondo circostante.  Sono   rari  i   momenti   dei   giochi   trascorsi   nei  cortili  bui  e  intriganti  della  prima residenza nel  ghetto,  da   cui  il padre cerca di liberarsi,   e    più  frequenti   quelli  del   rimpianto    per  l’abbandono  dei  legami  con  le  poco  trasgredibili   tradizioni  materne.  Furono    compensati   dal   perfetto   apprendimento    di  una  cultura,  la   tedesca,  di cui si impadronì  in maniera sbalorditiva  e  che  gli permise di inserirsi  in    meccanismi  che  gli spianarono  la strada verso una inconscia    e   non  perseguita   assimilazione e  un futuro  che non poteva immaginare  nella  sua pienezza.  Pur  nelle  contraddizioni che  ne  contrassegnavano  l’incertezza  dei   comportamenti   non dimenticò  mai di esserne  grato,  solitario e  appartato,   al padre  distratto che  pure   pretese  che il figlio  frequentasse  le scuole  migliori della  città.   Oltre  ad  apparire   come  un  intelligente  atto   di  fronte   all’autorità    paterna   nel rispetto  delle  regole  di  una società   fondata  su   norme   rigide   da  condividere,  quella  decisione  fu   pure  una  variabile   del  significato   di  eguaglianza.   Lui  era  un “ceco”  della popolazione numericamente   dominante,  educato,   –  a   testimonianza   della  variabilità –  dalla  predominante  minoranza  “tedesca”   che avrebbe  influito  in  modo  decisivo   sulla  sua  formazione  e  la sua  crescita.  Del  suo  rispetto  per  un  sano   concetto dell’allora   democrazia diede ampia  prova  negli anni  in  cui   frequentò   le  scuole   superiori.  In seguito  il  passaggio  nelle  aule  della  altrettanto  prestigiosa  università  tedesca  e  l’età  gli  garantirono   margini di autonomia.   Ne fece  largo  uso coltivando    rapporti  all’esterno  dell’ambiente  famigliare  ma  non  abusandone. Seppe  cogliere  da  quella società  ricca  di stimoli  il meglio  e  anche  la  scelta  delle  personalità  più eminenti –  talvolta fuori  le   righe – gli   avrebbe   dato  a  distanza  di    tempo  pienamente  ragione.

       Va  ricordato  in proposito  che nei primi decenni del secolo scorso a  Praga,  come ricorda Urzidil  di alcuni  anni più giovane di  Kafka,   si verificò   in  forma più singolare che altrove una  concentrazione  di altissimo livello di poeti e scrittori  di lingua tedesca  in prevalenza  di origini ebraiche.  Questo   permette  di  comprenderne   meglio  la  posizione   personale.   Si  trovò  immerso  in  una   tale  concentrazione  e si   sentì  alleggerito   nel  compito  di  adeguarsi   a  situazioni  che  esigevano  un    confronto   ininterrotto    con   almeno  due  mondi  diversi   possedendo  e  dotandosi   gradualmente  degli    strumenti adeguati.    Non tutti   quelli  di   cui  parla  Urzidil   furono paladini di una identità culturale e inizialmente anche Kafka si  dibatteva   fra questi distratti o  indecisi   gruppi che sentivano  gravare sulle proprie spalle il peso di differenti provenienze, storiche,  linguistiche,  culturali.  L’impronta  linguistica  divenne col tempo molto  marcata nella  sua  storia individuale e nell’ opera e  gli  offrì  un   valido  sostegno  per  la  sua  talvolta  contorta   evoluzione.    Storicamente le vicissitudini della famiglia  lo  situano in quella  fluttuante  schiera di personalità di spessore a volte più vicine al mondo ceco, altre a quello tedesco, altre ancora a quello ebraico.  Si può presumere che Franz abbia vissuto   sulla  propria  pelle,   superando  silenziosamente  tali  oscillanti  contrasti, questo  costante  e  talvolta   drammatico  accostarsi o  allontanarsi alla  fonte  più  diretta  della  propria  fisionomia  che  richiama,  nel  presente  tentativo  di rilettura  o  di ricostruzione, l’elemento religioso.     Senza  perdere   mai  di vista  i   suoi   valori  intellettuali  e  morali:   l’eguaglianza   fra  etica  e verità,  l’amore    e  la nostalgia   per la  purezza,   e  la convinzione    che  la   scrittura   fosse    una   vera  forma    di   preghiera.        

      Dato    per scontato che Kafka  appartiene a quel  folto   gruppo  di scrittori  che hanno fatto grande   Praga o che Praga ha reso immortali  con una storia irripetibile (si pensi ai mondi che vi vissero:  ceco, boemo, austriaco, asburgico, tedesco, per citare i più  rilevanti),  si fa strada  in lui, adulto  nei primi due decenni del secolo, il tema  sul quale stiamo cercando di soffermarci e che ha due  perni  centrali.  Uno è  la Praga,  madre ossessiva e possessiva  le   cui grinfie  lo afferrano con forza  per non lasciarlo andare ma  che in realtà rappresenta,  nell’ipotesi  comune   qui  formulata,  la genitrice  amorevole  da  lui   ricercata,    simbolicamente   una  figura   felina  all’apparenza,    a  lungo    minacciosa   nelle  ombre  oscure  delle  notti   di   Franz.  L’altro  è     l’ indefinita   sensazione  di un’appartenenza  culturale     mai  completamene  compresa  se  non  nella  fase terminale dell’  esistenza.  In  entrambi  i  casi  Kafka  faticò  a  comprendere  che  cosa  significassero    gli artigli  che  gli  impedivano  di  andare  e   quale  direzione  prendere,  attirato  dalla  sua  indistinta   origine.     L’ impossibilità  di afferrarne il senso  gli   provocò    una   infinita sofferenza.  Sofferenza   che   nutrì  di sé  ogni attimo  della sua vita    e  ne penetrò    l’opera    modellandone  i simboli  secondo  i  suoi umori.  La  si  rintraccia   nei disagi  e nelle difficoltà   che  lo accompagnarono   negli   anni   senza   interruzione.   Il   suo stato d’animo  era  velato  con frequenza   da  tristezza  e  solitudine.   Ne  scrisse  a  Milena  confidandole che: “la  mia  esistenza è angoscia”.   In questa angoscia   si racchiudevano  –   le  più  tenaci  nello svelarsi –  e  la  storia con l’ebraismo    e   le  sue  personali  vicissitudini.  Emblematico   si  rivelava    il  rapporto con  i genitori (la  serale   partita a carte   intesa  come    un   rifiuto a  partecipare al gioco della vita)  e  quell’ inestricabile intreccio di relazioni sentimentali che sfioravano   il matrimonio e  ogni  volta lo respingevano.  In quell’angoscia  era  però  rintanata   una  certezza:  anche  nella  più  elementare  banalità  del quotidiano  ricercava   l’ identità  fra convinzioni ed atti.  Uno  stile  di vita     che    fornisce   la  prova  di  un   dolore  vissuto e accettato.  Quando   da   ultimo  si   sarebbe  convinto   che  la  sofferenza  consisteva  più che nell’ atrocità  della  malattia  nella  ricerca inesauribile  di  quel   quid  assoluto che gli  era sempre mancato,  si acquietò. Ma  era  troppo  tardi.  Tuttavia  la  felicità  si  insinuò   nel suo destino  e  gli  tenne  compagnia  fino   all’ultimo  nella   speranza  di un futuro non  solo  immaginato  ma  che  sperò  concreto.

      Di  quel   futuro  mai  vissuto  si  è   oggi    testimoni . Girovagando fra i  giardini  del mondo letterario,  dove   spesso   si  trovano  i  simboli  dell’ ammirazione  per  gli  scomparsi,  si  riflette  sulla   loro  grandezza  con  una  tardiva    riconoscenza.  La grandezza è la presa di  coscienza  nei confronti di  nomi  indimenticabili,   la riconoscenza è quel sentimento di  gratitudine  che si prova  quando  li  si nomina.  E  all’improvviso  tutto  questo  si  fa  da  simbolo  realtà, una  insuperabile   magia  kafkiana.  Passeggiando   per  le strade di Vienna, una città appartenuta all’Impero come la Praga  di Kafka, si scorge una statua dedicata a Goethe e  ci  si  domanda  se anche   per Franz    ci siano   e  dove  si  trovino  busti  o sculture  eretti   per   ricordarlo.   Non c’è una grande distanza  fra  Praga, la “matrigna”  sempre  presente   nella  mente  dello  scrittore, e  Vienna, la capitale  decaduta  e   la più occidentale  geograficamente di  un   Impero   duro  a  morire.  In    una   realtà  composita  e  quasi  sbiadita   Kafka  si   definiva   il  più occidentale degli scrittori  ebrei  di lingua  tedesca,   un  ospite della  lingua tedesca,   come lui stesso  affermava   con una sottigliezza  da sottolineare.  Bisogna  riflettere  sul significato   autentico di  tale finezza.  Conscio  di appartenere  ad  una  realtà   limitata  da  confini  ferrei  anche  per quanto concerneva  il  linguaggio – il suo  tedesco  era  quello  di   Praga  privo di  qualsiasi  canale  di comunicazione  con  le  fonti  vitali   dalle  quali  si  alimentava  e  si trasformava  –  ammette  che  il  suo  trae  linfa  da    un’isola  linguistica  cristallizzata  e  inamovibile.  E’   opportuno  tralasciare  termini  come grandezza e riconoscenza,  che   si  riferivano  alla letteratura   in  generale  e   soffermarsi  su  fatti  così   singolari   e    lontani    da  qualsiasi   cliché.  

     Si   guardi  al  sentimento di  profonda infelicità,  talvolta   mascherato  grazie all’ironia,   e  alla   contemporanea  umiltà,  che    caratterizzava   gli   attimi    di  una  esistenza   personale, famigliare,  sociale,  professionale,  culturale  e  religiosa  del   ceco-tedesco  costretto a  muoversi   nell’ambito  di  una  classicità  costruita  da  vicende  storiche  da   tempo   ereditate.   Nella   storia  è arduo  trovare   personaggi  e  comportamenti  che si  sono  sviluppati  in maniera   identica  come   in forma  personalizzata   dimostra    la  parcellazione  del  terreno   chiamato  Kafka.  Questa    offre    la sensazione  di  una  (apparente)  uguaglianza   per   quel  tedesco,  come  Franz,   orfano di futuro,   ma   prospetta  pure un quadro    in   cui  si  intravedono   altri   aspetti   nei   quali   restò   impigliato,   per  una  fitta  rete  di  fili  intrecciati  fra  loro  quasi  geometricamente,   e   che pur  facendo  parte   di  un disegno  comune  si   differenziano  nettamente   fra   di  loro.    A  lungo  e  ingiustamente  gli sembrò  che  responsabili  ne   fossero  gli artigli  della madre  Praga  finiti   nelle mani  della  tenera   e tenace  Julie   che cercavano di  trattenerlo  nel  territorio   linguistico  che  lo   aveva  messo  al  mondo  e  che  si  preoccupava  del  suo   fragile  ragazzino   per via   di  un    malanno  subdolo  che aveva impiantato  in lui  radici  profonde.  Infelicità – si  lamentava  spesso  di avere poco tempo a  disposizione  per  scrivere –   e    sofferenza    avrebbero  provocato  una    inquietudine    soffusa,    quasi  “religiosa”  che  penetrò   profondamente  in  quella   figura  dallo sguardo   severo  e  profondo.  Una  sorta di angosciosa   oppressione  che  sconfinava  nell’ansia dalla quale riuscì   a  liberarsi   solo  raramente.     La  pendolarità  della    situazione   si   evidenziava   in  poli  umorali  impenetrabili,    affascinava   chi  gli era vicino  ma turbava   l’ambiente  famigliare.   Con insistenza   ben dissimulata  cercava  un mondo   e un  modo  per  inserirsi  e   questo  esercizio  faticoso  lo avrebbe   torturato  e  occupato,  anche diligentemente,   a  lungo. Le  circostanze   nella quali   fu  coinvolto   originarono    una  somma  di  considerazioni    psicologiche, culturali, sociali    e infine,  come  provenienti  da  un tesoro  nascosto  da  rivelare,  religiose,  dalle  quali  emergerà   in tutta  la sua  dimensione  l’ebraismo   con  la  sua  cultura  e  la sua  – o  le  sue –  lingue.  Se  pure  riservata, pudica e silenziosa  l’impronta  della religione,  che  sottintendeva   la  mancanza  o  la  ricerca di Dio  e  che si  coglieva  dallo  studio  approfondito  della  lingua  ebraica,  la lingua della “Scrittura”   e  dal  desiderio  costante  della  “Legge”,  è quella che  sarebbe   entrata   in scena  negli  anni  delle  sua  più  marcata  sofferenza, della  malattia, della quale non parlava  avendo coscienza  pudore   e  timore  della propria  debolezza. Solo Brod ne era informato  e l’insegnante di  ebraico- un  altro  passo  verso  la rivelazione –   dal quale  Franz  si recava  con regolarità  conscio  delle  proprie   lacune,   rimase  sbalordito quando venne a  saperlo.  Non riusciva  a comprendere  che  quello  “studente”  così  meticoloso  e scrupoloso nella  esecuzione   dei  compiti e nello studio della lingua  che provava  a riconquistare fosse  così  gravemente  malato.  Dava  l’impressione dai  gesti e  dai comportamenti   di   un   eterno  fanciullo  rivestito   di una  semplicità  e di  una umiltà  imparagonabili.

       Per  tutto   quello  che si è  detto,  dove  collocheremmo oggi  un busto di Kafka  che davvero  risponda  non solo  nella forma  al   suo  mondo poetico e  faccia   comprendere con una  visione  completa    l’evoluzione  delle sue  graduali  trasformazioni ?  Forse  non c’è  un  luogo adatto  perché  sarebbe  difficile  riprodurre   in   una  qualsiasi  forma  l’identità   contemporanea  della sostanza.  Lo  si  potrebbe   ritrarre  in  marmo  o  con  altro  materiale  strattonato  e  strapazzato  da  più  parti.  Lui  però  come    intendeva    nel  profondo  della  sua  non  ancora  matura coscienza  la  presenza  insopprimibile  e costante  di    artigli  che  lo ghermivano   per evitare  che  abbandonasse   il grembo  che lo  aveva  partorito   e   pensava    di  ricercare   l’ignoto   perduto?    Negli  anni della  gioventù  e con  l’amico   più fedele tenterà  spesso   di  sfuggire alle grinfie  dell’immaginario  felino  trasposto   ingiustamente  nelle   sembianze  della  madre.  E ogni tanto  fuggiva.   Le mete  più  lontane  lo  condussero    in Italia, dove  la sua fantasia  si  esaltò    alla vista dei  primi aerei  in quel  di Brescia.  Poi   sarà   il lago di  Garda a  entusiasmarlo   ma   il   lago  e  le cittadine  che lo rendevano   attraente    erano  pur  sempre  parte dell’Impero.  Parigi  invece    sarà  una  scoperta  che  deluderà   i  viaggiatori  e    rivelò  una  società  frenetica e  superficiale. Fece   nascere  altri  dubbi  nell’animo incerto  di Kafka.  Non  si   può  pensare   che  il   viaggiatore   venuto  dall’est  e  i  suoi  compagni  di avventura  che  non  amavano  particolarmente le lingue e anzi  si  divertivano  a  storpiarle giocando con la loro ignoranza,   facessero  ricorso  soltanto  a  tratti  tipicamente   goliardici,  per  contrapporsi     alle stranezze  e  alle  novità della  società   e   della  cultura occidentale    non  rispondenti   alle    attese.  Alla base  c’era  di sicuro dell’altro.   Le  letture  precoci  avevano  messo  sotto  gli occhi  di  Franz  il  mondo  slavo  con le sue  acrobazie  celebrali,   e   con   l’altalenante  rivolgersi  a  Dio  nella  rigorosa  osservanza  dei riti  della  religione  più devotamente   ascoltata,  e  nel  rifugiarsi,  simbolo  delle  colpe, negli sperduti  conventi disseminati  nelle  lande     di  un   territorio  vastissimo   quanto   le pagine   che  ne  descrivevano.  Si  poteva  pensare   solo  ad  innocenti sberleffi  per  rendere  più  piacevole  il   ritorno?

        Il  ritorno  fra le mura domestiche, dove lo attendevano  gli amorevoli  ed  esigenti  genitori ,  gli restituirono   un  periodo  di relativa calma e altre  occasioni  di liberazione.  Gli  artigli  apparvero    meno   pungenti  e   aggressivi ,  (comincia  a   intuirli   parte di sé  come una appartenenza  non dolorosa   ma acuta),    e  gli  faranno  mutare  destinazione  portandolo   su una traiettoria che  si sviluppava   in un triangolo  che  con   Praga  vedeva   ai  suoi  estremi  Vienna e Berlino.  Vienna  però   gli   iniettò  dopo  gli  umori  amari  e  velenosi  del  ricordo di Milena  e  Berlino  non sarà da  meno   per  la  infinita storia  con Felice  Bauer.  Storia  che gli  avrebbe lasciato   altre scorie  dalle quali  gli sarà difficile  scrollarsi:   la  più   emblematica   fu   il matrimonio sempre pensato e mai  voluto  davvero  realizzare,  un atto  nel  quale    lui rivedeva   molto di  quella società  occidentale  che lo  tradiva  e  dalla  quale  prendeva  le distanze.  La  emblematica   frivolezza   parigina   e  la  incomprensibile  posizione  assunta  da  Milena  quando    risponde  alla  sua  proposta  di  matrimonio  gli  fanno   percepire,  dinanzi  a  vincoli  allentati,    l’assenza  della  “Legge”.   Questa legge,  trasformata  in lettere  minuscole,  aveva   conquistato   anche quella stravagante  ma  colta   e intelligente  transfuga  di  Praga.  Il tempo  cancellerà  i  suoi  errori  giovanili  ma Kafka  preferì  la coerenza  e  il rispetto   della  legge  sia  pure  di  quella  minuscola.   Così  se  quel  modo di  vivere,  che  persino  Milena  per  qualche  tempo  fece   suo,  lo  aveva    deluso,  la  società  più vicina  alla sua  formazione,  alla sua ormai  accettata  familiarità  con  la lingua, un enclave che la rinchiudeva   e nel quale  lui  si  era  quasi  docilmente  rinchiuso, gli  infuse   invece  fiducia.

      Si chiedeva, forse senza  saperlo,  sino in fondo all’ anima  quale era il posto  del quale avrebbe voluto vivere  perché  più consono  alla  sua natura,  quello  nel quale  la  sua   eterna  insoddisfazione  e la mancanza di qualcosa che avvertiva dall’infanzia, forse quel   quid  cha la madre gli aveva   trasmesso   nei  primi  anni    e il padre aveva  troncato,   come   e  dove lo avrebbe trovato.  Questa  domanda  inascoltata   arricchita    da  una  curiosità   sempre più  vicina   al desiderio  di conoscenza  ottenne dopo   il   passaggio dall’adolescenza alla maturità,   quasi  inaspettata  una  risposta, la   più semplice e più naturale,  mediata  dalle  note  di motivi  popolari  suonati da    guitti  provenienti  dai  Paesi orientali  più vicini.  Gli  apparvero  una rivelazione  assoluta   e  rigorosa   nella sostanza  quanto  più  sgangherato   era  il contesto  nel quale   ebbe  la ventura  di  ascoltarli.  Le note strazianti,  gioiose,  allegre, profonde, tristi,  ingenue  di  una  musica  la   cui  struttura  lasciava  a  chi  l’ascoltava  il  compito  di   abbozzare  e  tracciarne  le  linee  interne  nelle   quali  far   confluire   le  emozioni  riproponevano    la  sensazione di  artigli   graffianti,    per lui  piacevolmente dolorosi.    Lo   ghermiscono    quasi  illuminanti  e   gli aprono    davanti    orizzonti  sconfinati.  Ora  acquista  un senso  compiuto    lo  studio   della lingua ebraica.   Se  avesse  potuto scegliere il  luogo, la città, ma soprattutto la società, dove  ricordare la sua storia a  se stesso,  avrebbe  scelto  quella  che quei  miserabili  e  inquieti  vagabondi   gli avevano  svelato  mentre  lui si stava  già dotando  degli strumenti  linguistici  indispensabili   a  sondarne   e  penetrarne la profondità.    Da quel  momento  Kafka  scrisse il primo  capitolo  di un nuovo racconto  e  si lasciò alle spalle  l’ombra  del  bimbo  accompagnato  da  una  donna  di servizio  e  già  abbandonato  dagli  affetti  profondi.  La  sua candida  figura  inghiottiva  nella sua innocenza  l‘amaro  boccone della  solitudine  e  non sapeva  come reagire.  Furono  la  lontana  premessa   di un  cammino   interrotto     in attesa di  essere   ripreso.  Gli  episodi   intrisi    di  cultura  e  musica   ebraica    rimuovono    la  tristezza  e  lui  accantona  le  immagini  delle  giornate  trascorse  con   le  persone  più  umili alle  quali  i genitori  lo  avevano  affidato.   Sente  di  poter   ritrovare    il cammino  verso  l’origine.  Simbolo  di  questa  iniziazione  fu  l’amicizia   con  Loewy, il  più  influente di  quei  girovaghi,  che  lui  condusse  spesso a casa sua.   La frattura  con  l’educazione  ricevuta   si  evidenziò in quelle  circostanze   nettamente.  Ne  ebbe prova dalla  protervia  del  padre che  non accettava  la presenza di   un  ebreo,  per giunta povero, squinternato  e squattrinato.   Dal suo canto  Franz, grazie ai musicanti  che gli fecero   conoscere  lo  Jargon”, il dialetto ebraico,   che  lo riportarono  davanti   all’ingresso  della cultura  e  della  tradizione  yiddish,   ripensò   con altro animo   agli insegnamenti  della  madre e   ai  ricordi che  quelle  note   ridestavano.  Divenne   studente  modello  di insegnanti  esperti  e  colti  nel  desiderio  di   recuperare   conoscenze  smarrite.  Si  portava  dietro   la   sua   irriducibile   ricerca   per  “l’indistruttibile”    che   era  in  lui   e  dovunque,  una  forma  di  giustizia    innata  e   presente nell’essere  umano.   Ci  si  può  ancora   avvicinare    a   questo  fanciullo  della  perfezione  non  solo   per  le   essenziali  linee  dei  disegni  che   ne   trasmettono  anche  nella   esteriorità  la  personalità,    completata   simultaneamente   con   la   variante   che  ne  rappresenta  la  sostanza.   Quella  totalità   ne   disegna   l’immagine  in  una dimensione    stringata  ed   essenziale   che  forse  solo   i  suoi    schizzi   in bianco nero   possono tradurre e farci  comprendere.  

           Parallelamente  al  rintracciare  le  fonti  della sua  formazione   si sviluppava   la   fase  dei  rapporti  con  la  società,   molto  più pragmatica.  Dopo  il  liceo   con   accanto giovani  afflitti  da    problematiche  simili    (si  teneva   a  distanza   in  una  foto  che  lo  ritrae all’ultima fila di una schiera di studenti  in posa,  un poco imbronciato o distaccato)  conseguì il  diploma  di   laurea  senza  brillare  molto.  Lo  studio  della  cultura  giuridica  quasi  impostogli   dal genitore  gli consentì   di  ottenere un  posto  nelle  Assicurazioni  Generali.  Scoprì  grazie   alla  giurisprudenza  talune  relazioni  con    aspetti  della  cultura e  della  lingua ebraica  che contribuirono  a  rafforzare  la    curiosità  per  le  sue origini  e  per  quel  non  ancora netto  concetto dell’ unzerstoerbar”( indistruttibile) . Questa indistruttibile presenza    osservata   nell’asciuttezza  delle  norme  e  della  “Legge”    simultaneamente all’ attività  professionale   sottoposero   alla   sua  mente  accostamenti  dei quali  intuiva    di   aver   bisogno.   Gradualmente   si   accorse    di  essere sulla strada  di   quello che cercava.  Comprese   pure  che  i guardiani  della  “Legge”  posti    nel  “Processo”  a  controllare   chi  voleva  entrare  (ma ancora non sapeva di essere  solo  lui)    in quel mondo governato in maniera così rigorosa  non  erano  poi  così   torvi   e  minacciosi   come sembrava. Gli  offrono   uno sgabello  per farlo  stancare   nell’attesa  ma  forse  pure   per   farlo  riposare!   Non sarà il caso  che la rigidità dei  guardiani  nascondesse  come la “mammina” di Praga  l’arcano  che lo  aveva  perseguitato sin da quando si  recava  a  scuola?  Quel  percorso era  per  il  bimbo  uno sgabello  temporale   da utilizzare per riposarsi  dalla  sua angosciosa ricerca.  Uno sgabello che doveva servirgli  per tutto il tempo che avrebbe  impiegato a   afferrare   con  la  mente   che  quella “Legge”  e  la  “mammina”   volevano  svelargli  la strada. Non doveva  avere  fretta ma scavare dentro la sua coscienza per giungere  alla fonte della responsabilità. 

      Mentre  lui si riposava,  l’incontro  con    gli sprovveduti  depositari  della tradizione  dimenticata   e  le pratiche  dell’assicurazione  che mettevano  sullo stesso piano  gli  umili  strati della  società  praghese  con quelli,  fece germogliare  vitale ed  evidente  l’amore per  il  tesoro  smarrito, per   le   consuetudini, i  gesti, le  tradizioni, le  abitudini  di un mondo che sentiva  essere il suo  ma che non aveva ancora  compreso come  fare  suo.  Il  tutto  si confaceva  a  uno stile di vita spartano e  severo   e  lo conduceva  nella  direzione opposta  a quella che non aveva mai  accettato.  Col   tempo  la ricorrente  e fastidiosa  idea  del matrimonio  si  sarebbe ripresentata     sconfiggendo l’idea della paura e della malattia.  La  sua angoscia  si andava  snaturando  e  capiva   che  dopo  un altro  passo , da un guardiano  ad un altro,  avrebbe    saputo   quale luogo geografico doveva accoglierlo.  Purtroppo non   ci  sarebbe  stato il tempo  e il monumento    rimane  racchiuso oggi nella sua creazione  letteraria.  Tutto il resto  scompare   e    la  sua figura  è  l’unica  insostituibile   traccia  della   differenza   rispetto a una  qualsiasi  forma di uguaglianza  con  altri  personaggi.    Essa  è  pari  alla dignità e alla coerenza  dell’opera nella   quale spesso  non aveva  creduto. Gli  costò un enorme  dispendio  di  energie  perché   credere  significava  liberare  l’indistruttibile   che  albergava  nel  suo mondo  spirituale  e che  una  volta  portato  alla superficie gli avrebbe  consentito di sperimentare e vivere  la  verità. Concetti  che  si concatenavano l’uno   con l’altro  e lasciano comprendere  come egli  intendesse questo  ininterrotto ricercare.  Era  un  lavoro   da   eseguire   nella  forma  più  stringata e senza guardarsi dietro  per non   cadere   nella trappola   del passato. Da  un passo all’altro, come  disfare  i  singoli  nodi  e avere  alla fine la  perfezione sperata  fra le mani.  In  questo modo  gli fu  svelato   che  gli  artigli,  ogni  volta  che ne  penetravano la pelle,  volevano  fargli   capire,  come i guardiani  della  “Legge”,   il  senso  dall’attesa. Gli  permettevano di  intravedere  spiragli  senza attirarlo con promesse  ma,  inchiodato   sullo  sgabello  o  avvinghiato  alla   sua  scrivania,  gli   davano   il  tempo di svolgere  il suo  compito. Lo  attiravano   non per  respingerlo  o   scacciarlo    bensì  per indicargli  una strada, la  sua  strada.

       Gli  era sempre sfuggito il  significato   che,  rintanato  nella nostalgia,  non  veniva alla luce.  Venne  dopo le esperienze e la  presa di coscienza   di quello che si  trovava altrove,  la lenta maturata convinzione che  il nucleo del suo  perenne ricercare  fosse all’interno di  un  unico profondo interrogativo, conficcato  nel  mondo  della religione. La  religione  era  una  spina  indolore   e     offriva  un godimento  fisico e spirituale  che lo  illuminò  e spense le luci  ingannevoli   e subdole  di  luoghi    nei  quali  l’atmosfera   era  superficiale   e  inquietante. La  sofferenza che lo accompagnava  non era qualcosa da  cui sfuggiva   ma era proprio  quanto gli mancava.  Nella differenza  fra  le qualità religiose dei Paesi  situati a Occidente e quelli   a  Oriente  aveva   trovato il  rifugio  per  rinchiudersi  e soffrire in solitudine.  Ormai  lo  attirava  il mondo  che  Loewy  lo  aveva  aiutato   a scoprire.  La  gioia della  sopportazione era una forma  ascetica che si riempiva di  contenuti   e  lo rendeva  felice.   L’ascesi  guardava    verso  le  forme  e  le  norme  del  mondo  e  della   religione   ebraica  ed   egli    mise  da parte  le   consuetudini   diluite  dal  mondo  occidentale.  L’essersi  isolato  fisicamente  e spiritualmente  lo  avrebbe  portato  a  decidere   di recarsi  nella  patria natale   dove   sapeva  di  non  essere  nato,  come  se avesse   fino  ad  allora   vissuto  da eremita  in luoghi deserti  e privi di appigli  con  quello che aveva  intorno e  alla fine  di  un lungo percorso  si   ritrovasse  in pace  con se stesso.

   Nella  lingua  dei padri  e  nella studio senza interruzioni  della Bibbia  e del  Talmud,    e   con  una  padronanza   del  linguaggio   sul  quale   si  inerpicava  con  sempre maggiore  leggerezza,  Kafka  affrontò    gli   ultimi  ostacoli.   Ebbe   accanto  una donna  vissuta  ed educata  nelle norme  che  la  religione   ormai  comune  ad   entrambi   prescriveva.  L’elemento  ebraico  era   connaturato ai due e  non  vi   era  nulla   di estraneo  nel  loro rapporto  che  potesse   corromperne  l’essenza  e la trasparenza.  Kafka  non aveva  abbandonato  l’esperienza –  sapeva  il  valore  della  conoscenza   pratica –       dell’ esistenza  vissuta  con  modalità  che  non  gli  sembravano  appropriate  e   che   aveva   tenuto  sempre  a    distanza.  Aveva  abbracciato  quel   mondo  nuovo  non  perché  lo ritenesse  del  tutto  estraneo  alla  società  nella  quale  era  cresciuto,  dibattuta  fra  contrasti  politici, ideologismi  senza  sbocco, imperi  che  crollavano,  ma  perché  di quel  nuovo  amava  la genuinità  dei  guitti  e  la  ferma   adesione  alla  “Legge”.  La  riscoperta  di  un  Dio  non  era  separata  dall’obbligo,  divenuto  per  lui     un gesto   d’amore,   di vivere  in umiltà  fra  gli uomini, senza  dimenticare  i cardini  fondamentali  dell’insegnamento  divino: la  verità,  la   purezza,  la semplicità. Non  si  ricorda  di  Kafka  nessun   momento  nel quale  lui  invocasse  la discordia,  la  provocazione.  Può  essere    un esempio da   consigliare?   Si  comprende  e  si   afferra   quasi  con soddisfazione che  la traiettoria  disegnata dal  suo essere  al  mondo  è  come   uno dei  suoi  schizzi  rapida, essenziale,  e  poi  pure    mutevole (altrimenti  non  sarebbe stato  in grado  di  pervenire  alle  più  drastiche  decisioni  senza  tentennamenti)   perché   contiene  la speranza  mai  allontanata  da  sé.  Il  tratto,   nero, lineare, carico  di  significati  può  essere  capovolto  e  in   un attimo  ne  cancella  l’angoscioso  tormento,   ne  rovescia  lo   zenit  e lo  rimette  nella  posizione che  gli è  stata  assegnata  dall’indistruttibile, da  quella  presenza  che è in tutti ma che lui  conosceva  senza sapere chi  o  che cosa  fosse sin dall’inizio.  Il  suo  mondo  gli  viene rivelato  da  una  cultura, da tradizioni,  da   consuetudini, da gesti, da note  musicali, da abitudini,  da un  idioma  con   motivi    diffusi   per ogni dove  e   per chiunque. Tutto  questo  gli   giunse   da  un punto  cardinale collocato  nel  luogo dal  quale  il sole  emana  la sua luce. Ve  lo riportò  la  madre che  non   aveva   mai    tradito  la sua  fede e che al  termine  della  esistenza   del  figlio   gli   consegnò  le   chiavi   per  aprire   lo scrigno   insieme  alla   giovane  donna    che  ne  condivideva   il  disegno   ricostruendo   simbolicamente il percorso travagliato  dell’uomo  che  aveva  partorito.            

Ugo Rubini

27  gennaio  2018