La collocazione di Kafka nel panorama della letteratura non è stata sempre
concorde con i giudizi
della critica spesso disturbati e
influenzati da interventi
di carattere ideologico che ne hanno ritardato l’accoglienza e persino il
riconoscimento. Potrebbe bastare come esempio
l’ostracismo di lunga data, in
prevalenza architettato nell’Europa
orientale, che non soltanto ridimensionava l’opera
ma metteva in ombra
persino l’uomo facendolo scomparire a lungo dalla scena. Quando, grazie alla
lungimiranza di editori, amici e
scrittori, la figura di Kafka è riapparsa in tutta la sua grandezza, sono caduti
gli steccati e si è aperto un ampio dibattito sulla sua produzione letteraria. Non ci è
subito liberati delle scorie depositate sull’opera e sui
comportamenti dell’autore, certamente poco incline a farsi
traghettare, in vita, nel mondo della critica e successivamente in quello dei
lettori. Il silenzio che lo ha fatto tacere, anche con il suo consenso, ha avuto origine da
un carattere schivo
e riservato, ma anche dalle posizioni estreme di una
buona parte della critica
marxista e dal potere esercitato dalla politica. Non è stato
messo al bando nel mondo occidentale dove tuttavia
si è atteso a lungo
prima di assumere posizioni
decisamente più chiare e dove inizialmente si
è assistito ad una lenta
riflessione, che ha squarciato un
panorama
fatto di imbarazzanti titubanze. Kafka non poteva opporsi o difendersi, ammesso che
fosse possibile. Ma non bisogna
dimenticare che in quegli anni la sua preveggenza è
stata rara e
ancora più notevole
è stata la sua
capacità di interpretare
il corso degli eventi
dei quali in largo
anticipo colse le avvisaglie. Stavano addensandosi
sul continente europeo nubi minacciose e ne avvertì il pericolo.
Un esempio rafforza
la sua singolare capacità di preveggenza. Allo scoppio del primo conflitto
mondiale non si schierò con gli interventisti e rimase quasi indifferente nei confronti
delle posizioni assunte da
schieramenti opposti, individuati con accortezza, basati
su interessi egoistici privi
di orizzonti.
Questo
comportamento derivava in parte
della
sua natura ma allo
stesso tempo da una sensibilità e da
una umanità che lo vide
precocemente appassionato e profondo lettore
delle opere di Hamsun, Ibsen, Mann, Dostoevskij, Strindberg
e infine,
ma non da
ultimo, di Tolstoj.
E’ venuta
alla luce negli anni l’idea
che ci fosse dell’altro nella sua ammirazione,
quasi una venerazione, per l’autore
di “Guerra e pace”. Percepiva forse
che nel servilismo
secolare della società russa potesse
nascondersi oscuro qualche altro elemento, non del
tutto negativo, da studiare
a fondo. Furono la stima
e la considerazione per la scrittura
e il
modo di vivere del
russo ad attrarre
Kafka
verso il mondo orientale. Sulle
prime non ebbe del
tutto chiari motivi e ragioni di
tale “fascino slavo”
che si evidenzieranno in seguito
lentamente, quasi in parallelo con la sua ripulsa a occuparsi del conflitto che sconvolse l’Europa.
Rifuggiva, come si è detto, dall’occuparsi di critica
e dibattiti
fra esperti. Intuì però con raro acume
e immediatezza quali erano gli autori che raccontavano in
modo stupefacente la propria rigorosa lettura
dei fenomeni sociali con i loro protagonisti. Percepiva nei
loro scritti oltre allo stile
e alla perfezione
linguistica un impegno
morale e la volontà
di contribuire al miglioramento
delle condizioni che affliggevano le
classi più umili delle
loro società. Gli sembrarono meno
interessati ad occuparsi delle sorti
delle classi dominanti e del potere. La verità e la perfetta sovrapposizione di
etica e verità, uno dei cardini
del suo pensiero,
la riscontrò identica nei personaggi dai
quali attinse
incitamenti e aspettò conferme.
L’accostarsi a quel gruppo di geniali precursori fu per lui più un problema di ordine morale che non estetico o letterario. L’ interpretazione dell’opera di Tolstoj si teneva ferma a questo precetto e dai suoi spiragli, che si propagavano con la loro luce all’esterno, il praghese avrebbe in seguito colto aspetti che spiegano meglio perché egli fosse stato avvinto fortemente, più da quanto intravedeva nel complesso panorama del mondo orientale – storie e uomini con le loro vicende individuali e ampi intrecci con una sterminata e multiforme umanità – che non dalle epidermiche differenze strutturali percepite dalla saltuarie immersioni nelle società occidentali a lui vicine. Era una vaga sensazione di nostalgia, quasi di innamoramento verso qualcosa di indefinito che si profilava da oriente. Si sentiva in mezzo al guado non solo geograficamente ma anche psicologicamente e culturalmente, mai però lontano dalla gente. Il suo pensiero rivolgeva sempre l’ attenzione al rapporto fra etica e verità. Una sua regola fondamentale è racchiusa in poche incisive parole: “nostalgia verso la purezza: sentire e vivere la verità”. Parole indirizzate non soltanto a se stesso ma anche ad una umanità senza confini nella quale l’uguaglianza e la giustizia dovevano rappresentare il sostrato comune. Non si dovrà ignorare che l’uguaglianza, all’ interno del suo microcosmo, era incastrata in vicende che pur nella loro modestia riflettevano strutture e ordine universali , e, all’esterno, la giustizia presentava una somma di variabili fra le quali si annidava l’ardente desiderio per lo sviluppo e la difesa della democrazia. E’ arduo valutare quale impatto avesse all’epoca nel privato la parola “democrazia”. Franz adoperò tutte le sue forze per trovare una dimensione equilibrata nei rapporti sociali e famigliari e della democrazia ebbe, con il suo modo di vivere, un rispetto profondo.
Ciò si sarebbe manifestato, malgrado l’estrema variabilità caratteriale che si era preannunciata sin dall’infanzia e che rivelò fra l’altro un acuto senso dell’umorismo, anche per episodi inediti e sfaccettature in miniatura che arricchirono di senso i suoi tentativi di affacciarsi dalla finestra del mondo. Vi contribuirono un progressivo ampliamento della composizione familiare che mutava in base agli umori paterni, a caccia di una assimilazione con la società ceca in prevalenza praghese, ma da un punto di vista dell’ambizione personale con quella tedesca, o la nascita delle sorelline che alla sua vita conferirono una patina di socievolezza, o l’arrivo di personale di servizio e di precettori che l’economia della famiglia gradatamente poté permettersi. Tutto questo consentiva di rivestire l’adolescente che si andava formando e delineando di una mutevolezza che certamente poteva essere considerata simile a quella di altri rappresentanti del mondo artistico e letterario ma che pure aveva suoi originali e personali tratti. In quel piccolo mondo di famiglia si destreggiò non sempre con garbo ma si orientò facendo mostra di una impensata consapevolezza e onestà nella particolare cura dei rapporti evitando forti contrapposizioni. Negli anni della scuola l’ esile ed enigmatica figura oscilla fra un rintanarsi imbronciato nella solitudine e i timidi tentativi di aprirsi alle esperienze del mondo circostante. Sono rari i momenti dei giochi trascorsi nei cortili bui e intriganti della prima residenza nel ghetto, da cui il padre cerca di liberarsi, e più frequenti quelli del rimpianto per l’abbandono dei legami con le poco trasgredibili tradizioni materne. Furono compensati dal perfetto apprendimento di una cultura, la tedesca, di cui si impadronì in maniera sbalorditiva e che gli permise di inserirsi in meccanismi che gli spianarono la strada verso una inconscia e non perseguita assimilazione e un futuro che non poteva immaginare nella sua pienezza. Pur nelle contraddizioni che ne contrassegnavano l’incertezza dei comportamenti non dimenticò mai di esserne grato, solitario e appartato, al padre distratto che pure pretese che il figlio frequentasse le scuole migliori della città. Oltre ad apparire come un intelligente atto di fronte all’autorità paterna nel rispetto delle regole di una società fondata su norme rigide da condividere, quella decisione fu pure una variabile del significato di eguaglianza. Lui era un “ceco” della popolazione numericamente dominante, educato, – a testimonianza della variabilità – dalla predominante minoranza “tedesca” che avrebbe influito in modo decisivo sulla sua formazione e la sua crescita. Del suo rispetto per un sano concetto dell’allora democrazia diede ampia prova negli anni in cui frequentò le scuole superiori. In seguito il passaggio nelle aule della altrettanto prestigiosa università tedesca e l’età gli garantirono margini di autonomia. Ne fece largo uso coltivando rapporti all’esterno dell’ambiente famigliare ma non abusandone. Seppe cogliere da quella società ricca di stimoli il meglio e anche la scelta delle personalità più eminenti – talvolta fuori le righe – gli avrebbe dato a distanza di tempo pienamente ragione.
Va ricordato in proposito che nei primi decenni del secolo scorso a Praga, come ricorda Urzidil di alcuni anni più giovane di Kafka, si verificò in forma più singolare che altrove una concentrazione di altissimo livello di poeti e scrittori di lingua tedesca in prevalenza di origini ebraiche. Questo permette di comprenderne meglio la posizione personale. Si trovò immerso in una tale concentrazione e si sentì alleggerito nel compito di adeguarsi a situazioni che esigevano un confronto ininterrotto con almeno due mondi diversi possedendo e dotandosi gradualmente degli strumenti adeguati. Non tutti quelli di cui parla Urzidil furono paladini di una identità culturale e inizialmente anche Kafka si dibatteva fra questi distratti o indecisi gruppi che sentivano gravare sulle proprie spalle il peso di differenti provenienze, storiche, linguistiche, culturali. L’impronta linguistica divenne col tempo molto marcata nella sua storia individuale e nell’ opera e gli offrì un valido sostegno per la sua talvolta contorta evoluzione. Storicamente le vicissitudini della famiglia lo situano in quella fluttuante schiera di personalità di spessore a volte più vicine al mondo ceco, altre a quello tedesco, altre ancora a quello ebraico. Si può presumere che Franz abbia vissuto sulla propria pelle, superando silenziosamente tali oscillanti contrasti, questo costante e talvolta drammatico accostarsi o allontanarsi alla fonte più diretta della propria fisionomia che richiama, nel presente tentativo di rilettura o di ricostruzione, l’elemento religioso. Senza perdere mai di vista i suoi valori intellettuali e morali: l’eguaglianza fra etica e verità, l’amore e la nostalgia per la purezza, e la convinzione che la scrittura fosse una vera forma di preghiera.
Dato per scontato che Kafka appartiene a quel folto gruppo di scrittori che hanno fatto grande Praga o che Praga ha reso immortali con una storia irripetibile (si pensi ai mondi che vi vissero: ceco, boemo, austriaco, asburgico, tedesco, per citare i più rilevanti), si fa strada in lui, adulto nei primi due decenni del secolo, il tema sul quale stiamo cercando di soffermarci e che ha due perni centrali. Uno è la Praga, madre ossessiva e possessiva le cui grinfie lo afferrano con forza per non lasciarlo andare ma che in realtà rappresenta, nell’ipotesi comune qui formulata, la genitrice amorevole da lui ricercata, simbolicamente una figura felina all’apparenza, a lungo minacciosa nelle ombre oscure delle notti di Franz. L’altro è l’ indefinita sensazione di un’appartenenza culturale mai completamene compresa se non nella fase terminale dell’ esistenza. In entrambi i casi Kafka faticò a comprendere che cosa significassero gli artigli che gli impedivano di andare e quale direzione prendere, attirato dalla sua indistinta origine. L’ impossibilità di afferrarne il senso gli provocò una infinita sofferenza. Sofferenza che nutrì di sé ogni attimo della sua vita e ne penetrò l’opera modellandone i simboli secondo i suoi umori. La si rintraccia nei disagi e nelle difficoltà che lo accompagnarono negli anni senza interruzione. Il suo stato d’animo era velato con frequenza da tristezza e solitudine. Ne scrisse a Milena confidandole che: “la mia esistenza è angoscia”. In questa angoscia si racchiudevano – le più tenaci nello svelarsi – e la storia con l’ebraismo e le sue personali vicissitudini. Emblematico si rivelava il rapporto con i genitori (la serale partita a carte intesa come un rifiuto a partecipare al gioco della vita) e quell’ inestricabile intreccio di relazioni sentimentali che sfioravano il matrimonio e ogni volta lo respingevano. In quell’angoscia era però rintanata una certezza: anche nella più elementare banalità del quotidiano ricercava l’ identità fra convinzioni ed atti. Uno stile di vita che fornisce la prova di un dolore vissuto e accettato. Quando da ultimo si sarebbe convinto che la sofferenza consisteva più che nell’ atrocità della malattia nella ricerca inesauribile di quel quid assoluto che gli era sempre mancato, si acquietò. Ma era troppo tardi. Tuttavia la felicità si insinuò nel suo destino e gli tenne compagnia fino all’ultimo nella speranza di un futuro non solo immaginato ma che sperò concreto.
Di quel futuro mai vissuto si è oggi testimoni . Girovagando fra i giardini del mondo letterario, dove spesso si trovano i simboli dell’ ammirazione per gli scomparsi, si riflette sulla loro grandezza con una tardiva riconoscenza. La grandezza è la presa di coscienza nei confronti di nomi indimenticabili, la riconoscenza è quel sentimento di gratitudine che si prova quando li si nomina. E all’improvviso tutto questo si fa da simbolo realtà, una insuperabile magia kafkiana. Passeggiando per le strade di Vienna, una città appartenuta all’Impero come la Praga di Kafka, si scorge una statua dedicata a Goethe e ci si domanda se anche per Franz ci siano e dove si trovino busti o sculture eretti per ricordarlo. Non c’è una grande distanza fra Praga, la “matrigna” sempre presente nella mente dello scrittore, e Vienna, la capitale decaduta e la più occidentale geograficamente di un Impero duro a morire. In una realtà composita e quasi sbiadita Kafka si definiva il più occidentale degli scrittori ebrei di lingua tedesca, un ospite della lingua tedesca, come lui stesso affermava con una sottigliezza da sottolineare. Bisogna riflettere sul significato autentico di tale finezza. Conscio di appartenere ad una realtà limitata da confini ferrei anche per quanto concerneva il linguaggio – il suo tedesco era quello di Praga privo di qualsiasi canale di comunicazione con le fonti vitali dalle quali si alimentava e si trasformava – ammette che il suo trae linfa da un’isola linguistica cristallizzata e inamovibile. E’ opportuno tralasciare termini come grandezza e riconoscenza, che si riferivano alla letteratura in generale e soffermarsi su fatti così singolari e lontani da qualsiasi cliché.
Si guardi al sentimento di profonda infelicità, talvolta mascherato grazie all’ironia, e alla contemporanea umiltà, che caratterizzava gli attimi di una esistenza personale, famigliare, sociale, professionale, culturale e religiosa del ceco-tedesco costretto a muoversi nell’ambito di una classicità costruita da vicende storiche da tempo ereditate. Nella storia è arduo trovare personaggi e comportamenti che si sono sviluppati in maniera identica come in forma personalizzata dimostra la parcellazione del terreno chiamato Kafka. Questa offre la sensazione di una (apparente) uguaglianza per quel tedesco, come Franz, orfano di futuro, ma prospetta pure un quadro in cui si intravedono altri aspetti nei quali restò impigliato, per una fitta rete di fili intrecciati fra loro quasi geometricamente, e che pur facendo parte di un disegno comune si differenziano nettamente fra di loro. A lungo e ingiustamente gli sembrò che responsabili ne fossero gli artigli della madre Praga finiti nelle mani della tenera e tenace Julie che cercavano di trattenerlo nel territorio linguistico che lo aveva messo al mondo e che si preoccupava del suo fragile ragazzino per via di un malanno subdolo che aveva impiantato in lui radici profonde. Infelicità – si lamentava spesso di avere poco tempo a disposizione per scrivere – e sofferenza avrebbero provocato una inquietudine soffusa, quasi “religiosa” che penetrò profondamente in quella figura dallo sguardo severo e profondo. Una sorta di angosciosa oppressione che sconfinava nell’ansia dalla quale riuscì a liberarsi solo raramente. La pendolarità della situazione si evidenziava in poli umorali impenetrabili, affascinava chi gli era vicino ma turbava l’ambiente famigliare. Con insistenza ben dissimulata cercava un mondo e un modo per inserirsi e questo esercizio faticoso lo avrebbe torturato e occupato, anche diligentemente, a lungo. Le circostanze nella quali fu coinvolto originarono una somma di considerazioni psicologiche, culturali, sociali e infine, come provenienti da un tesoro nascosto da rivelare, religiose, dalle quali emergerà in tutta la sua dimensione l’ebraismo con la sua cultura e la sua – o le sue – lingue. Se pure riservata, pudica e silenziosa l’impronta della religione, che sottintendeva la mancanza o la ricerca di Dio e che si coglieva dallo studio approfondito della lingua ebraica, la lingua della “Scrittura” e dal desiderio costante della “Legge”, è quella che sarebbe entrata in scena negli anni delle sua più marcata sofferenza, della malattia, della quale non parlava avendo coscienza pudore e timore della propria debolezza. Solo Brod ne era informato e l’insegnante di ebraico- un altro passo verso la rivelazione – dal quale Franz si recava con regolarità conscio delle proprie lacune, rimase sbalordito quando venne a saperlo. Non riusciva a comprendere che quello “studente” così meticoloso e scrupoloso nella esecuzione dei compiti e nello studio della lingua che provava a riconquistare fosse così gravemente malato. Dava l’impressione dai gesti e dai comportamenti di un eterno fanciullo rivestito di una semplicità e di una umiltà imparagonabili.
Per tutto quello che si è detto, dove collocheremmo oggi un busto di Kafka che davvero risponda non solo nella forma al suo mondo poetico e faccia comprendere con una visione completa l’evoluzione delle sue graduali trasformazioni ? Forse non c’è un luogo adatto perché sarebbe difficile riprodurre in una qualsiasi forma l’identità contemporanea della sostanza. Lo si potrebbe ritrarre in marmo o con altro materiale strattonato e strapazzato da più parti. Lui però come intendeva nel profondo della sua non ancora matura coscienza la presenza insopprimibile e costante di artigli che lo ghermivano per evitare che abbandonasse il grembo che lo aveva partorito e pensava di ricercare l’ignoto perduto? Negli anni della gioventù e con l’amico più fedele tenterà spesso di sfuggire alle grinfie dell’immaginario felino trasposto ingiustamente nelle sembianze della madre. E ogni tanto fuggiva. Le mete più lontane lo condussero in Italia, dove la sua fantasia si esaltò alla vista dei primi aerei in quel di Brescia. Poi sarà il lago di Garda a entusiasmarlo ma il lago e le cittadine che lo rendevano attraente erano pur sempre parte dell’Impero. Parigi invece sarà una scoperta che deluderà i viaggiatori e rivelò una società frenetica e superficiale. Fece nascere altri dubbi nell’animo incerto di Kafka. Non si può pensare che il viaggiatore venuto dall’est e i suoi compagni di avventura che non amavano particolarmente le lingue e anzi si divertivano a storpiarle giocando con la loro ignoranza, facessero ricorso soltanto a tratti tipicamente goliardici, per contrapporsi alle stranezze e alle novità della società e della cultura occidentale non rispondenti alle attese. Alla base c’era di sicuro dell’altro. Le letture precoci avevano messo sotto gli occhi di Franz il mondo slavo con le sue acrobazie celebrali, e con l’altalenante rivolgersi a Dio nella rigorosa osservanza dei riti della religione più devotamente ascoltata, e nel rifugiarsi, simbolo delle colpe, negli sperduti conventi disseminati nelle lande di un territorio vastissimo quanto le pagine che ne descrivevano. Si poteva pensare solo ad innocenti sberleffi per rendere più piacevole il ritorno?
Il ritorno fra le mura domestiche, dove lo attendevano gli amorevoli ed esigenti genitori , gli restituirono un periodo di relativa calma e altre occasioni di liberazione. Gli artigli apparvero meno pungenti e aggressivi , (comincia a intuirli parte di sé come una appartenenza non dolorosa ma acuta), e gli faranno mutare destinazione portandolo su una traiettoria che si sviluppava in un triangolo che con Praga vedeva ai suoi estremi Vienna e Berlino. Vienna però gli iniettò dopo gli umori amari e velenosi del ricordo di Milena e Berlino non sarà da meno per la infinita storia con Felice Bauer. Storia che gli avrebbe lasciato altre scorie dalle quali gli sarà difficile scrollarsi: la più emblematica fu il matrimonio sempre pensato e mai voluto davvero realizzare, un atto nel quale lui rivedeva molto di quella società occidentale che lo tradiva e dalla quale prendeva le distanze. La emblematica frivolezza parigina e la incomprensibile posizione assunta da Milena quando risponde alla sua proposta di matrimonio gli fanno percepire, dinanzi a vincoli allentati, l’assenza della “Legge”. Questa legge, trasformata in lettere minuscole, aveva conquistato anche quella stravagante ma colta e intelligente transfuga di Praga. Il tempo cancellerà i suoi errori giovanili ma Kafka preferì la coerenza e il rispetto della legge sia pure di quella minuscola. Così se quel modo di vivere, che persino Milena per qualche tempo fece suo, lo aveva deluso, la società più vicina alla sua formazione, alla sua ormai accettata familiarità con la lingua, un enclave che la rinchiudeva e nel quale lui si era quasi docilmente rinchiuso, gli infuse invece fiducia.
Si chiedeva, forse senza saperlo, sino in fondo all’ anima quale era il posto del quale avrebbe voluto vivere perché più consono alla sua natura, quello nel quale la sua eterna insoddisfazione e la mancanza di qualcosa che avvertiva dall’infanzia, forse quel quid cha la madre gli aveva trasmesso nei primi anni e il padre aveva troncato, come e dove lo avrebbe trovato. Questa domanda inascoltata arricchita da una curiosità sempre più vicina al desiderio di conoscenza ottenne dopo il passaggio dall’adolescenza alla maturità, quasi inaspettata una risposta, la più semplice e più naturale, mediata dalle note di motivi popolari suonati da guitti provenienti dai Paesi orientali più vicini. Gli apparvero una rivelazione assoluta e rigorosa nella sostanza quanto più sgangherato era il contesto nel quale ebbe la ventura di ascoltarli. Le note strazianti, gioiose, allegre, profonde, tristi, ingenue di una musica la cui struttura lasciava a chi l’ascoltava il compito di abbozzare e tracciarne le linee interne nelle quali far confluire le emozioni riproponevano la sensazione di artigli graffianti, per lui piacevolmente dolorosi. Lo ghermiscono quasi illuminanti e gli aprono davanti orizzonti sconfinati. Ora acquista un senso compiuto lo studio della lingua ebraica. Se avesse potuto scegliere il luogo, la città, ma soprattutto la società, dove ricordare la sua storia a se stesso, avrebbe scelto quella che quei miserabili e inquieti vagabondi gli avevano svelato mentre lui si stava già dotando degli strumenti linguistici indispensabili a sondarne e penetrarne la profondità. Da quel momento Kafka scrisse il primo capitolo di un nuovo racconto e si lasciò alle spalle l’ombra del bimbo accompagnato da una donna di servizio e già abbandonato dagli affetti profondi. La sua candida figura inghiottiva nella sua innocenza l‘amaro boccone della solitudine e non sapeva come reagire. Furono la lontana premessa di un cammino interrotto in attesa di essere ripreso. Gli episodi intrisi di cultura e musica ebraica rimuovono la tristezza e lui accantona le immagini delle giornate trascorse con le persone più umili alle quali i genitori lo avevano affidato. Sente di poter ritrovare il cammino verso l’origine. Simbolo di questa iniziazione fu l’amicizia con Loewy, il più influente di quei girovaghi, che lui condusse spesso a casa sua. La frattura con l’educazione ricevuta si evidenziò in quelle circostanze nettamente. Ne ebbe prova dalla protervia del padre che non accettava la presenza di un ebreo, per giunta povero, squinternato e squattrinato. Dal suo canto Franz, grazie ai musicanti che gli fecero conoscere lo Jargon”, il dialetto ebraico, che lo riportarono davanti all’ingresso della cultura e della tradizione yiddish, ripensò con altro animo agli insegnamenti della madre e ai ricordi che quelle note ridestavano. Divenne studente modello di insegnanti esperti e colti nel desiderio di recuperare conoscenze smarrite. Si portava dietro la sua irriducibile ricerca per “l’indistruttibile” che era in lui e dovunque, una forma di giustizia innata e presente nell’essere umano. Ci si può ancora avvicinare a questo fanciullo della perfezione non solo per le essenziali linee dei disegni che ne trasmettono anche nella esteriorità la personalità, completata simultaneamente con la variante che ne rappresenta la sostanza. Quella totalità ne disegna l’immagine in una dimensione stringata ed essenziale che forse solo i suoi schizzi in bianco nero possono tradurre e farci comprendere.
Parallelamente al rintracciare le fonti della sua formazione si sviluppava la fase dei rapporti con la società, molto più pragmatica. Dopo il liceo con accanto giovani afflitti da problematiche simili (si teneva a distanza in una foto che lo ritrae all’ultima fila di una schiera di studenti in posa, un poco imbronciato o distaccato) conseguì il diploma di laurea senza brillare molto. Lo studio della cultura giuridica quasi impostogli dal genitore gli consentì di ottenere un posto nelle Assicurazioni Generali. Scoprì grazie alla giurisprudenza talune relazioni con aspetti della cultura e della lingua ebraica che contribuirono a rafforzare la curiosità per le sue origini e per quel non ancora netto concetto dell’ unzerstoerbar”( indistruttibile) . Questa indistruttibile presenza osservata nell’asciuttezza delle norme e della “Legge” simultaneamente all’ attività professionale sottoposero alla sua mente accostamenti dei quali intuiva di aver bisogno. Gradualmente si accorse di essere sulla strada di quello che cercava. Comprese pure che i guardiani della “Legge” posti nel “Processo” a controllare chi voleva entrare (ma ancora non sapeva di essere solo lui) in quel mondo governato in maniera così rigorosa non erano poi così torvi e minacciosi come sembrava. Gli offrono uno sgabello per farlo stancare nell’attesa ma forse pure per farlo riposare! Non sarà il caso che la rigidità dei guardiani nascondesse come la “mammina” di Praga l’arcano che lo aveva perseguitato sin da quando si recava a scuola? Quel percorso era per il bimbo uno sgabello temporale da utilizzare per riposarsi dalla sua angosciosa ricerca. Uno sgabello che doveva servirgli per tutto il tempo che avrebbe impiegato a afferrare con la mente che quella “Legge” e la “mammina” volevano svelargli la strada. Non doveva avere fretta ma scavare dentro la sua coscienza per giungere alla fonte della responsabilità.
Mentre lui si riposava, l’incontro con gli sprovveduti depositari della tradizione dimenticata e le pratiche dell’assicurazione che mettevano sullo stesso piano gli umili strati della società praghese con quelli, fece germogliare vitale ed evidente l’amore per il tesoro smarrito, per le consuetudini, i gesti, le tradizioni, le abitudini di un mondo che sentiva essere il suo ma che non aveva ancora compreso come fare suo. Il tutto si confaceva a uno stile di vita spartano e severo e lo conduceva nella direzione opposta a quella che non aveva mai accettato. Col tempo la ricorrente e fastidiosa idea del matrimonio si sarebbe ripresentata sconfiggendo l’idea della paura e della malattia. La sua angoscia si andava snaturando e capiva che dopo un altro passo , da un guardiano ad un altro, avrebbe saputo quale luogo geografico doveva accoglierlo. Purtroppo non ci sarebbe stato il tempo e il monumento rimane racchiuso oggi nella sua creazione letteraria. Tutto il resto scompare e la sua figura è l’unica insostituibile traccia della differenza rispetto a una qualsiasi forma di uguaglianza con altri personaggi. Essa è pari alla dignità e alla coerenza dell’opera nella quale spesso non aveva creduto. Gli costò un enorme dispendio di energie perché credere significava liberare l’indistruttibile che albergava nel suo mondo spirituale e che una volta portato alla superficie gli avrebbe consentito di sperimentare e vivere la verità. Concetti che si concatenavano l’uno con l’altro e lasciano comprendere come egli intendesse questo ininterrotto ricercare. Era un lavoro da eseguire nella forma più stringata e senza guardarsi dietro per non cadere nella trappola del passato. Da un passo all’altro, come disfare i singoli nodi e avere alla fine la perfezione sperata fra le mani. In questo modo gli fu svelato che gli artigli, ogni volta che ne penetravano la pelle, volevano fargli capire, come i guardiani della “Legge”, il senso dall’attesa. Gli permettevano di intravedere spiragli senza attirarlo con promesse ma, inchiodato sullo sgabello o avvinghiato alla sua scrivania, gli davano il tempo di svolgere il suo compito. Lo attiravano non per respingerlo o scacciarlo bensì per indicargli una strada, la sua strada.
Gli era sempre sfuggito il significato che, rintanato nella nostalgia, non veniva alla luce. Venne dopo le esperienze e la presa di coscienza di quello che si trovava altrove, la lenta maturata convinzione che il nucleo del suo perenne ricercare fosse all’interno di un unico profondo interrogativo, conficcato nel mondo della religione. La religione era una spina indolore e offriva un godimento fisico e spirituale che lo illuminò e spense le luci ingannevoli e subdole di luoghi nei quali l’atmosfera era superficiale e inquietante. La sofferenza che lo accompagnava non era qualcosa da cui sfuggiva ma era proprio quanto gli mancava. Nella differenza fra le qualità religiose dei Paesi situati a Occidente e quelli a Oriente aveva trovato il rifugio per rinchiudersi e soffrire in solitudine. Ormai lo attirava il mondo che Loewy lo aveva aiutato a scoprire. La gioia della sopportazione era una forma ascetica che si riempiva di contenuti e lo rendeva felice. L’ascesi guardava verso le forme e le norme del mondo e della religione ebraica ed egli mise da parte le consuetudini diluite dal mondo occidentale. L’essersi isolato fisicamente e spiritualmente lo avrebbe portato a decidere di recarsi nella patria natale dove sapeva di non essere nato, come se avesse fino ad allora vissuto da eremita in luoghi deserti e privi di appigli con quello che aveva intorno e alla fine di un lungo percorso si ritrovasse in pace con se stesso.
Nella lingua dei padri e nella studio senza interruzioni della Bibbia e del Talmud, e con una padronanza del linguaggio sul quale si inerpicava con sempre maggiore leggerezza, Kafka affrontò gli ultimi ostacoli. Ebbe accanto una donna vissuta ed educata nelle norme che la religione ormai comune ad entrambi prescriveva. L’elemento ebraico era connaturato ai due e non vi era nulla di estraneo nel loro rapporto che potesse corromperne l’essenza e la trasparenza. Kafka non aveva abbandonato l’esperienza – sapeva il valore della conoscenza pratica – dell’ esistenza vissuta con modalità che non gli sembravano appropriate e che aveva tenuto sempre a distanza. Aveva abbracciato quel mondo nuovo non perché lo ritenesse del tutto estraneo alla società nella quale era cresciuto, dibattuta fra contrasti politici, ideologismi senza sbocco, imperi che crollavano, ma perché di quel nuovo amava la genuinità dei guitti e la ferma adesione alla “Legge”. La riscoperta di un Dio non era separata dall’obbligo, divenuto per lui un gesto d’amore, di vivere in umiltà fra gli uomini, senza dimenticare i cardini fondamentali dell’insegnamento divino: la verità, la purezza, la semplicità. Non si ricorda di Kafka nessun momento nel quale lui invocasse la discordia, la provocazione. Può essere un esempio da consigliare? Si comprende e si afferra quasi con soddisfazione che la traiettoria disegnata dal suo essere al mondo è come uno dei suoi schizzi rapida, essenziale, e poi pure mutevole (altrimenti non sarebbe stato in grado di pervenire alle più drastiche decisioni senza tentennamenti) perché contiene la speranza mai allontanata da sé. Il tratto, nero, lineare, carico di significati può essere capovolto e in un attimo ne cancella l’angoscioso tormento, ne rovescia lo zenit e lo rimette nella posizione che gli è stata assegnata dall’indistruttibile, da quella presenza che è in tutti ma che lui conosceva senza sapere chi o che cosa fosse sin dall’inizio. Il suo mondo gli viene rivelato da una cultura, da tradizioni, da consuetudini, da gesti, da note musicali, da abitudini, da un idioma con motivi diffusi per ogni dove e per chiunque. Tutto questo gli giunse da un punto cardinale collocato nel luogo dal quale il sole emana la sua luce. Ve lo riportò la madre che non aveva mai tradito la sua fede e che al termine della esistenza del figlio gli consegnò le chiavi per aprire lo scrigno insieme alla giovane donna che ne condivideva il disegno ricostruendo simbolicamente il percorso travagliato dell’uomo che aveva partorito.
Ugo Rubini
27 gennaio 2018