Quella guerra significò molto per lo sviluppo produttivo della fabbrica di mattoni rossi, ma non sappiamo se influenzò l’interventismo di Camillo. Se fosse stato un pacifista “senza se e senza ma”, non avrebbe certamente venduto la propria anima, nemmeno sull’altare della Olivetti. Quando la guerra iniziò, l’azienda era uscita dal tunnel della crisi del ’14. Anche l’Olivetti avrebbe dovuto convertirsi alla produzione bellica e non sarebbe stato difficile per Camillo unire le due esperienze, quella della strumentazione elettrica e quella meccanica, potendo così offrire prodotti e componenti sofisticate. È lo stesso Camillo a fare una breve cronaca di quegli inizi.

La nostra industria, che per quanto allora di modeste proporzioni era, relativamente alle altre industrie meccaniche italiane dell’epoca, ben fornita di uomini, di attrezzi, di macchine, non poteva restare estranea, per quanto un’offerta assolutamente disinteressata fatta da me alle competenti autorità militare fosse stata respinta perché non redatta su carta bollata di lire 1,35…

Comincia così il braccio di ferro tra Camillo e la burocrazia che, nonostante la guerra, continuò imperterrita a imperversare.

Ma gli avvenimenti furono più forti del malvolere della burocrazia, e poco dopo gli ufficiali dell’aeronautica ebbero dalla nostra officina un ausilio efficiente sovratutto per il disinteresse e la buona volontà del personale dirigente, tra cui primeggiava Burzio. Si fece un po’ di tutto. Proiettili, valvole per dirigibili, parti di mitragliatrici e di fucili, soprattutto spolette per antiaerei e magneti per aerei, di cui la nostra aviazione era rimasta sprovvista.

Rimasero sprovvisti di quelle parti perché a venderle era l’industria tedesca che, poco convinta dei loro tira e molla prima dell’entrata in guerra dell’Italia, si era guardata bene dal rifornirli. Ma i magneti prodotti dalla Olivetti erano così sofisticati che furono addirittura comprati dall’aviazione  inglese. Come per molte aziende, soprattutto quelle più avanzate sul piano industriale, la guerra fu fonte di sviluppo e di guadagni, leciti per alcuni, illeciti per molti. Si aprì per Camillo un tormentone nei confronti dei furieri dell’esercito preposti agli acquisti, soprattutto con il Comitato di Mobilitazione Industriale. Giolitti aveva avuto ragione nel sostenere che eravamo impreparati: il paese, che avrebbe dovuto rispondere alla guerra “come un sol uomo”, fece esattamente il contrario. Quando si capì che la guerra sarebbe stata lunga e durissima e che industria, agricoltura e quella burocrazia che avrebbe dovuto coordinare, andavano ognuno per conto proprio, si cercò di porre rimedio. La panacea furono quei Comitati che saranno presieduti dal generale Dall’Olio. Naturalmente per ragioni logistiche nelle regioni industriali ci furono dei sottocomitati. A Torino vi fu uno di questi. Camillo capì rapidamente come quegli organismi, composti dalle categorie produttive e da rappresentanti delle forze politiche, fossero dei carrozzoni che, dopo il primo entusiasmo, sarebbero rientrati nell’alveo del burocratismo inefficiente, tipico del nostro paese, dove ognuno avrebbe tirato l’acqua al proprio mulino. I problemi sul tappeto non erano solo le commesse militari, ma soprattutto gli esoneri, in quanto l’industria che produceva materiale bellico aveva bisogno della propria manodopera spesso altamente specializzata. In questa manodopera, complice il Comitato, finirono figli, nipoti, amici e amici degli amici. Camillo iniziò una battaglia personale con quel Comitato. La combatté con l’aiuto di un operaio della FIAT, Pietro Giraudo, che conobbe in una sezione socialista, una sera in cui Camillo tenne una conferenza. Con Giraudo conobbe Mario Gioda, allora tipografo e sindacalista rivoluzionario. I due, prima corridoniani, divennero ferventi mussoliniani quando questi fece la svolta interventista. Scoppiata la guerra, Mussolini e Gioda partirono per il fronte come volontari; il Giraudo, miope come una talpa per il tifo contratto da ragazzo, fu con suo sommo dispiacere esonerato e tornò in FIAT. Quando si crearono i Comitati di Mobilitazione Industriale, né i socialisti né il sindacato, che nemmeno l’entrata in guerra aveva spostato dall’acceso pacifismo manifestandosi poco collaborativo, vollero entrare a far parte dei Comitati, che pure dovevano rappresentare tutte le categorie impegnate, lavoratori compresi. Ci pensarono i mussoliniani o forse i sindacalisti interventisti dell’USI, che nominarono il Giraudo nel Comitato come rappresentante operaio per la FIAT. Camillo, venuto a sapere di quella nomina, lo contattò e da quel momento cercò in tutti i modi di influenzare il Comitato, non per l’azienda, ma per i suoi principi. Dato che quei principi erano anche quelli di Giraudo, i due collaborarono intensamente, purtroppo con scarsi risultati, perché quelle erano spesso delle battaglie contro i mulini a vento. Ecco cosa scriveva Camillo, a proposito del generale Dall’Olio e del Comitato, in un articolo del 1923 sul suo settimanale «Tempi Nuovi».

Il Dall’Olio è il responsabile in gran parte del fenomeno dell’imboscamento che così triste ripercussione ebbe sullo svolgimento della guerra. Non seppe mai dire, né autorevolmente imporre criteri precisi e razionali per la selezione del personale capace, occorrente sul serio per le industrie belliche […]. I comitati di mobilitazione furono delle vere fabbriche di imboscati che venivano distribuiti con grande larghezza alle industrie di guerra, mentre elementi veramente indispensabili venivano mandati al fronte. Durante la guerra poi, all’incompetenza degli uomini politici e della nostra burocrazia civile, si aggiunse quella superlativa della burocrazia militare, che non contenta di spadroneggiare nell’esercito, volle estendere il proprio dominio a tutti i rami dell’attività nazionale […]. Riteniamo il Dall’Olio personalmente un galantuomo, ma mancante delle qualità di intelligenza ed energia per non lasciare mangiare quelli che lo circondavano. Modesto burocrate, digiuno di conoscenze pratiche della produzione industriale, organizzatore formale come lo sono tutti i militari, è rimasto inferiore al suo altissimo, e non neghiamo, difficile posto.

Mussolini e il nascente fascismo, che pur negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra avevano criticato tali cose con la stessa ottica di Camillo, fecero in modo che alle responsabilità dei militari (in gran parte sostenitori del fascismo) fosse messa la sordina, puntando l’indice accusatore sull’industria. Camillo così prosegue:

Perciò è perlomeno sospetto l’accanimento contro gli industriali e il salvataggio di tutti i militari implicati nelle forniture di guerra. Che se è vero che vi furono molti industriali, notiamo, tra i più benevisi al Ministero delle Armi e Munizioni, che abusarono della fiducia in loro riposta, vi furono molti industriali, forse non presi abbastanza sul serio perché meno procaccianti, che fecero interamente il loro dovere, e anche con sacrifici aiutarono la difesa del paese con forniture di eque condizioni per qualità e prezzo. Sarebbe stato bene che la Commissione di inchiesta avesse avuto una parola anche per questi industriali che non vivono di solo pane.

Ogni riferimento alla Olivetti è voluto… Il primo anno di guerra fu il meno drammatico: quella guerra veniva combattuta essenzialmente con gli eserciti trincerati, difese e attacchi si susseguivano da entrambe le parti senza svolte traumatiche. L’industria si era convertita; si ovviava alla mancanza di operai, perché impegnati al fronte, sostituendoli con mogli e figli minorenni. Ben presto fu dimostrato che le preoccupazioni di Giolitti non erano infondate. I nodi vennero al pettine, e non solo nel nostro paese. Quella guerra fece giustizia di tutti i ritardi politici ed economici, anche nelle altre nazioni. Prima fra tutte la Russia, che meno delle altre grandi potenze aveva affrontato modernizzazioni e sviluppo industriale. Era un immenso paese praticamente feudale. Già nei primi anni del secolo c’era stato un tentativo rivoluzionario che avrebbe dovuto indurre lo zar ad apportare le riforme che potevano consentire, non diciamo lo sviluppo democratico, ma almeno la modernizzazione del paese. L’oligarchia russa era probabilmente convinta che una grande potenza si misurasse dai territori che governava, e che il malcontento si potesse sedare con la repressione. Quello sterminato paese registrava un profondo ritardo nel processo industriale, mentre la nobiltà agraria era restia a superare gli schemi feudali e non era nata una borghesia produttiva, rimasta sostanzialmente burocratica. Le industrie localizzate sul territorio erano state vendute chiavi in mano dall’estero. Questo aveva almeno consentito la formazione di una classe operaia, che non aveva tardato a seguire il socialismo rivoluzionario. Senza la guerra, tuttavia, la rivoluzione che avvenne nel ’17 non sarebbe stata possibile, almeno in quella forma. La forza militare della Russia era sempre stata garantita dal numero dei soldati (in gran parte contadini) e dalla difficoltà di occupare un così vasto subcontinente: lo aveva sperimentato a proprie spese anche Napoleone Bonaparte. Per proseguire la guerra, gli eserciti dovevano combattere un’estenuante battaglia di logoramento ai confini e su quel terreno il gap dei russi era evidente. Il confine con i tedeschi li costringeva a un arduo impegno con la potenza più preparata dello schieramento avversario e i rovesci militari furono all’ordine del giorno. La situazione russa influenzerà in modo determinante la politica nel nostro paese. La presa del potere dei bolscevichi nel novembre 1917 sarà la svolta decisiva della politica dei socialisti italiani. Mentre infatti in tutta Europa si rafforzeranno le socialdemocrazie, in Italia il socialismo diventerà a stragrande maggioranza massimalista, in attesa di un’ipotetica rivoluzione sulla falsariga di ciò che era avvenuto in Russia. Per cercare di interpretare gli avvenimenti russi dobbiamo fare un passo indietro. Come per il resto d’Europa, anche in quell’enorme paese era nato, nella seconda metà dell’Ottocento, il socialismo, che ben presto aveva assunto le innumerevoli sfaccettature tipiche di quel movimento. All’inizio del Novecento anche in Russia le tendenze dominanti erano la riformista e la rivoluzionaria, e naturalmente tutti si richiamavano a Marx. Ci fu però un elemento originale che venne dai rivoluzionari che avevano preso la denominazione di bolscevichi (che in russo significa “maggioritari” o maggioranza): al secondo congresso del partito operaio socialdemocratico essi avevano vinto contro i menscevichi (in russo, minoranza), riformisti molto simili ai nostri, forse più simili a Bissolati e Bonomi che non a Turati. Il loro leader, Nikolai Vladimir Lenin, di origine borghese (piccola nobiltà di campagna) elaborò una teoria per dare delle risposte strategiche sulle azioni da svolgere dopo l’eventuale presa del potere. Si ispirò probabilmente alla rivoluzione francese e al movimento dei Giacobini, pur non tenendo conto della loro disfatta. In nome del proletariato, inteso come l’unione tra operai e contadini, avrebbe governato un’élite di funzionari comunisti: il Partito. In fondo era una posizione più onesta di quella presa da tanti altri socialisti massimalisti a livello europeo (aveva almeno il pregio dell’onestà intellettuale), soprattutto gli italiani, i quali perseguivano la rivoluzione senza troppo indagare sugli scenari futuri e su chi dovesse, nella pratica, gestire il potere. Lenin costruì un partito di quadri, duri e spietati, che prima avrebbero dovuto guidare la rivoluzione e poi gestire il potere. Riuscirono in questo intento, a differenza dei massimalisti nostrani: evidentemente questa era l’unica strada concretamente alternativa al riformismo. Quando nel ’17, dopo gli innumerevoli rovesci militari, e soprattutto a seguito di una disastrosa situazione economica, si ribellò la popolazione, con in testa gli operai, più organizzati e politicizzati dei contadini, decisiva fu la partecipazione dei soldati, stanchi della guerra. Non tutti, naturalmente, ma quanti bastavano per creare la miscela esplosiva che scatenerà la rivoluzione di primavera. Lo zar Nicola II abdicò, lo sostituì prima un principe e poi un duca, e iniziò così la collaborazione con i partiti borghesi e i riformisti. La situazione, tuttavia, era degenerata a un punto tale che solo due elementi avrebbero potuto scongiurare l’ultimo atto rivoluzionario: la fine della guerra e profonde riforme istituzionali e sociali. Quei nobili che governarono il paese per pochi mesi non ressero, l’ultima chance fu data ai menscevichi che avevano partecipato a quei governi. Pensando che si trattasse di una situazione recuperabile essi, come tutti i riformisti, giocarono sui tempi lunghi. Non fecero i conti con i bolscevichi. Lenin, esule in Europa, nella prima rivoluzione di aprile era stato fatto tornare in patria dai tedeschi, che intendevano così minare dall’interno le basi della Russia zarista. Ci riuscirono, perché i bolscevichi furono determinanti anche in quella prima rivoluzione. La seconda scoppiò praticamente motu proprio. Lenin era nuovamente stato esiliato, in Finlandia questa volta; fu richiamato dagli stessi menscevichi che non controllavano più la situazione, dovendo fronteggiare da una parte generali ribelli, dall’altra la popolazione inferocita. Se pensavano a un compromesso con Lenin si sbagliavano di grosso, invitando il lupo nell’ovile. L’uomo valutò che questa volta c’erano le condizioni per l’ultima spallata, quella che venne data nella rivoluzione d’ottobre. Primo ministro era Kerensky, il socialista dal passato rivoluzionario convertito al riformismo, il quale, quando capì che i bolscevichi non avrebbero collaborato, tentò invano di opporsi. Si rifugiò poi all’estero, mentre il resto del governo venne esautorato e fatto prigioniero. Lo zar, e con lui tutta la famiglia, verranno trucidati a Ekaterinburg, una grossa città della Russia centrale situata sul lato asiatico degli Urali e centro amministrativo dell’Oblast di Sverdlovsk. Lenin diventerà così il nuovo zar di tutte le Russie. Uno zar che governerà in nome e per conto di un’altra classe, molto più numerosa, ma con cui lui e i suoi successori non dovranno dividere il potere, se non formalmente. Cosa rappresentò per Camillo la rivoluzione russa? Probabilmente egli esultò alla notizia che in Russia c’era stata una rivoluzione, quella che lui aveva sempre auspicato in Italia e che i nostri socialisti non avevano saputo fare: una rivoluzione repubblicana e democratica. All’inizio anche quella russa fu tale. Il riformista Kerensky, ex rivoluzionario ora menscevico divenne capo del governo. Camillo pensò di aver avuto ragione a sostenere che quella guerra avrebbe fatto scoppiare le contraddizioni e liberato forze nuove in grado di modificare lo status quo politico e sociale. Quell’illusione però durò lo spazio di un mattino, perché Kerensky decise di continuare una guerra ormai impopolare; nuovi rovesci militari condussero a un’ulteriore rivoluzione, questa volta portata avanti dai massimalisti che facevano capo a Lenin e Trotsky. In quattro e quattr’otto presero il potere in nome del Soviet degli operai e dei soldati, instaurando in Russia il sogno dei socialisti nostrani: la dittatura del proletariato. Camillo fu uno dei primi a capire che quella non era la dittatura del proletariato, ma la dittatura di un partito. Conosceva bene le posizioni di Lenin e sapeva che erano persino più lucidamente radicali di quelle di Ferri, Serrati e Bombacci. Non poteva, allora, immaginare che questa rivoluzione riuscita avrebbe talmente influenzato i nostri rivoluzionari mancati da provocare per reazione un’altra rivoluzione, un tantino diversa… Non crediamo che il suo giudizio negativo fosse influenzato, più di tanto, dalle tesi sulla socializzazione del sistema produttivo, che in via teorica non aveva mai escluso. Non avendo trovato scritti dell’epoca, ricostruiamo il suo pensiero basandoci su giudizi leggermente postumi, e cioè da suoi articoli sul settimanale «L’Azione Riformista». [

…] A parere nostro il bolscevismo, fosse pure immune da ogni violenza e potesse anche dimostrare la sua capacità di esistere e di prosperare – cosa di cui dubitiamo – ha il torto enorme di provocare un ordinamento in cui una sola classe (la classe operaia propriamente detta) riesce a sopraffare tutte le altre e ad imporvisi. Il bolscevismo, in una parola, permette a favore degli operai quell’esclusivo predominio che noi rimproveriamo all’ordinamento borghese di permettere a prò dei capitalisti.

Metabolizzata la rivoluzione russa, in Italia ci furono problemi ben più gravi. Prima un’ondata di malcontento, che a Torino sfocerà in una mezza rivoluzione, e poi la disfatta di Caporetto. Per il momento a Vittorio Emanuele III andò meglio, in quanto l’avanzata degli austriaci sul Piave fu bloccata proprio in riva a quel fiume. Cos’era successo e perché questo improvviso capovolgimento? I bolscevichi si erano ritirati dalla guerra, per cui Austria e Prussia poterono distogliere da quel fronte truppe che inviarono dove ritenevano ci fosse maggior debolezza negli eserciti dell’Intesa, nella fattispecie l’Italia. Ci presero così alla sprovvista, penetrando nel nostro territorio ben al di qua del Trentino che volevamo liberare. Emersero nella circostanza tutte le nostre debolezze, non ultime la stupidità e l’incapacità degli Stati Maggiori con alla testa il generale Cadorna, un veterano della vecchia scuola militare piemontese dell’Ottocento. Fu una rotta che provocò migliaia di morti e feriti, e un gran numero di prigionieri. La truppa, abbandonata a se stessa, si ritirò in modo disordinato; molti si arresero al nemico senza combattere. Si tenterà poi di addossare tutta la colpa ai soldati; in realtà le responsabilità maggiori furono dei generali e degli alti gradi. Certo quell’esercito era stanco e la propaganda pacifista aveva fatto presa. Quella però fu una sconfitta militare, imputabile alla presupponenza e all’incapacità dei militari. Cadorna aveva percorso in seno all’esercito una carriera travagliata. Quando si trattava di occupare una posizione di comando, veniva sempre preferito qualcun altro. Il capo di Stato Maggiore prima della guerra mondiale era il generale Pollio, ottimo comandante, che aveva però simpatie per gli austroungarici e i prussiani. Cadorna, non avendo fino ad allora ricoperto posizioni di grande responsabilità, era praticamente esente da errori militari. Quando si decise l’intervento a fianco dell’Intesa, quella di Cadorna fu una scelta se non obbligata, naturale. Nella strategia militare Cadorna era fautore di una teoria, cara anche agli austriaci, l’attacco a oltranza, il che comportò una dissennata tattica di attacchi e ritirate che lasciarono sul campo migliaia di inutili vittime. Per di più era arrogante con i sottoposti e totalmente insensibile al benessere della truppa, costretta a vivere disumanamente in trincea per mesi, tra pioggia, neve, fango e un rancio da barboni. Molti soldati erano partiti di malavoglia; in quel 1917 lo spirito combattivo lasciava alquanto desiderare. Questo stato d’animo, unito agli errori a catena degli alti e medi gradi militari, provocò la disfatta in quel paese del Veneto di cui pochi avevano sentito parlare. Stranamente, Caporetto provocò nella popolazione un effetto opposto a quello che era capitato in Russia, a riprova che in Italia vere e proprie condizioni rivoluzionarie non esistevano. Sentendosi minacciata di invasione dal nemico di sempre, la nazione ritrovò quel minimo di unità da consentirle, prima la resistenza, poi la controffensiva vittoriosa. Cadorna fu destituito e sostituito dal generale Diaz. Ci sembra interessante riportare quanto Camillo scrisse su «Tempi Nuovi» a proposito di quella disfatta.

Spettacolo umiliante. Un giudizio sereno.   I risultati dell’inchiesta su Caporetto, pubblicati forse in un momento inopportuno, hanno suscitato, come era facile prevedere, una tempesta di polemiche che vanno sempre più degenerando in odiosi attacchi personali mossi da spirito settario. I rilievi di quell’inchiesta che dovevano, se mai, richiamare tutti gli italiani ad un’opera concorde di epurazione e di restaurazione dei poteri politici e militari del paese, sono invece serviti a rinfocolare gli odi di parte, a risuscitare passioni che sembravano per sempre sopite, a servire quale campo per nuove e più esiziali competizioni ed infine a prestarsi quale piattaforma per la prossima battaglia elettorale che, fino ad oggi, si annuncia come la più combattuta e la più violenta di tutte. Il neutralismo giolittiano e socialista ufficiale, da una parte e l’interventismo mussoliniano e fascista dall’altra, sono ancora in piedi, armati degli stessi odi e dello stesso livore come nei primi mesi del 1915 durante il turbolento periodo della nostra neutralità. Ognuno cerca di rivendicare le proprie qualità profetiche e i propri meriti intrinseci, ognuno gioca a palleggiarsi la somma delle responsabilità, degli errori e delle colpe di cui tutti reciprocamente si accusano, e ciò in un’atmosfera di acredine che offusca ogni serenità ed ogni sincerità di dibattiti. Lo spettacolo è quanto mai desolante ed umiliante, tale da far pensare se in Italia la passione politica abbia fatto persino dimenticare che, malgrado la evitabile disgrazia di Caporetto, la nostra guerra sia finita a Vittorio Veneto con la disfatta piena e completa del nostro secolare nemico. A proposito delle odierne polemiche. “Il Secolo” ha promosso un referendum tra gli uomini politici più in vista. Fra i vari responsi, il più interessante di tutti è stato quello dell’on. Turati. Vogliamo riportarlo integralmente come quello che più di ogni altro si avvicina al nostro pensiero. «Forse sarebbe serio, sebbene poco giornalistico, aver prima lette attentamente tutte quelle 800 grandi pagine, che invece ho appena scorso al volo e, soltanto poi, darne l’impressione che mi chiedete. Anche per non rischiare di cadere in quello che mi sembra il peccato universale. Che ciascuno ne estrae questo e quel frammento, che serve al suo interesse personale e alla sua passione politica, per parare e assestare colpi mancini ai nemici ed alla verità, facendo, di un’indagine di giustizia, uno strumento di guerra civile, che sarebbe una nuova Caporetto interna, aggiunta a quell’altra. Comunque la mia prima impressione generica è questa: l’inchiesta sembra eclettica, perché volle essere obiettiva e serena quanto è umanamente possibile. Ma non c’era bisogno dell’inchiesta per conoscere le cause essenziali del rovescio inevitabile di Caporetto. Esse erano note, molto prima del fatto, e quanti avevano vedute le cose da vicino; a quanti, anche lontani, avevano come me ricevuto centinaia e migliaia di lettere dal fronte, lettere che malgrado le sopraffazioni stolte della censura militare, in gran parte riescivano pervenirci e che, per mio conto, ho conservato, sebbene tuttora alla rinfusa, e sono documenti terribili di pianto e di vergogna a quanti assistettero al primo “Comitato segreto della Camera” […]. Se qualche cosa deve sorprenderci, è che Caporetto non sia avvenuto molto prima (sarebbe stato assai minor male), e ciò si dovette al fatto, suppongo, che peccati analoghi si consumavano di qua e di la del confine militare “Illacos intra muros et extra”. Il delitto che generò Caporetto fu la universale viltà che ci permise di subire passivamente la intimidazione degli interessati oltranzisti alla guerra e la vergogna cronica della censura. Si era dimenticato questo principio di esperienza comune: che, nel buio, è difficile evitare gli scapucci. Le “cause” furono militari, ma le condizioni che consentirono alle “cause” di agire fino a quel segno, sono tutte nella politica interna, nella codardia dei partiti e del parlamento. Caporetto non era possibile, io stesso lo dissi alla Camera se, mentre al confine “non” si sbarravano le vie al nemico, all’interno non si fosse sbarrato tutti gli aditi delle più constatate verità. Quanto al disfattismo, non ne spiaccia ai miei compagni di parte, esso non poté non avere un’influenza concomitante notevole, soprattutto nel non aver parato in tempo al disastro, resosi poi deprecabile. Il disfattismo, per nove decimi veniva dal fronte, e i nove decimi di quei nove decimi si dovevano ugualmente a cause militari. Accusare le frasi cristiane di Treves e del Papa è, cercare il più sfacciato degli alibi. Sarebbe come voler computare lo sguardo, più o meno benevolo, di un passante nell’eccidio di un cittadino distratto che è travolto da un’automobile in corsa sfrenata. Con ragionari del genere, se crediamo a Don Alessandro, nel seicento i filosofi attribuivano la peste all’influsso degli astri. La storia ricanticchia le sue cantafere come un grammofono a dischi. Ma il resto ed il di più, mi consentirete di dirlo alla Camera.»

In realtà Camillo, riportando le dichiarazioni di Turati, lascia a lui la parola, questa volta dichiarandosi sostanzialmente d’accordo: non era entusiasta delle sue idee, pur scrivendo su «Critica Sociale», la storica rivista turatiana. Terminò nel ’18 quella guerra che forse non aveva cambiato molto il paese, ma certo cambiò la politica. Camillo se ne rese conto e considerò che la sua azienda si era sviluppata e che un po’ di tempo alla politica poteva nuovamente dedicarlo. Non apparteneva, ormai, organicamente ad alcun partito; le sue simpatie erano sempre in bilico tra i riformisti fuori dal partito e quelli dentro. Ora il suo impegno non sarà più di partito, ma politico giornalistico. I prossimi capitoli sono dedicati a questa svolta che ci aiuta a indagare l’evolversi del suo pensiero politico. Nell’Archivio Storico Olivetti abbiamo scovato una lettera indirizzata al gerente de «La Gazzetta del Popolo» di Torino, il secondo quotidiano della città dopo «La Stampa» fino agli anni Sessanta.

Saputo che è in vendita Camillo si offre, con non identificati soci, di acquistarlo.

Ivrea li 17 agosto 1918 Egregio Dott. Collino. Seguo il di Lei consiglio di scriverLe invece di parlarLe, per quanto non so se faccio bene o male, essendo quanto devo domandarle così in determinato che è difficile farlo per lettera, e forse anche imprudente. Ad ogni modo conoscendo la di Lei riservatezza, entro subito in argomento. Fino a pochi mesi fa Ella era comproprietario della Gazzetta del Popolo. Non so quali sieno ora i di Lei rapporti con il detto giornale. Se dei rapporti esistono ancora, desidererei sapere se delle trattative per l’acquisto del giornale da parte di un gruppo di capitalisti di cui io sarei l’esponente con eventuale partecipazione finanziaria anche degli attuali proprietari avrebbe possibilità di buon esito. Premetto che tale acquisto non sarebbe motivato nè dal desiderio di fare un affare, nè tanto meno per mettere il giornale a servizio di interessi bancari o industriali, perchè le assicuro che in tal caso io non mi sarei fatto promotore di una qualsiasi combinazione del genere. Il giornale continuerebbe la sua fisionomia patriottica attuale, soltanto le sue idee politiche diventerebbero alquanto più accentuate appartenendo io al partito riformista, per quanto desideri che il giornale resti indipendente dagli attuali partiti. Il divenire giornalista è stata sempre una delle mie aspirazioni ed ora che da una parte le mie condizioni finanziarie mi permettono di non occuparmi più così intensamente delle mie industrie, e d’altra parte il momento politico è tale che è bene che persone che in una diuturna lotta per la vita hanno acquistato una certa esperienza possano aver modo di far valere le loro idee, per un migliore avvenire della nostra patria, vorrei dedicarmi al giornalismo. Naturalmente non è il caso di venire a dettagli. Se la cosa è lontanamente possibile, la prego di voler farmelo sapere.

Per gentile concessione

Tito Giraudo: da “La fabbrica di mattoni rossi” Conti Editore-Amazon Kindle