La parola psicoanalisi, dal tedesco Psychoanalyse, si
forma dall’unione di psiche, (termine greco che inizialmente designa l’anima,
in seguito utilizzato per indicare lo spirito vitale e infine la mente)
e analisi, (da analùo, verbo greco formato dal prefisso ana- “su,
indietro” e lùo, “sciolgo”,
ossia sciolgo nei vari elementi), dunque
il termine può letteralmente tradursi
con l’espressione: indagine delle singole parti costitutive di quel che
anima l’uomo.
Il padre della psicanalisi è Sigmud Feud, (1856-1939), neurologo, psicoanalista
e filosofo austriaco di origine ebrea. Egli si dedica allo studio della psiche
umana a partire dal 1885, identificando nell’inconscio la sede degli istinti,
dei desideri e dei conflitti irrisolti. È grazie a tali studi, dedicati alle
attività dei fenomeni esterni alla sfera della coscienza, che inizia a
definirsi il concetto di inconscio. L’opera manifesto delle scoperte freudiane
è L’interpretazione dei sogni, (Die Traumdeutung), pubblicata nel
1899, all’interno della quale è illustrato il metodo psicoanalitico, utilizzato
per accedere ai contenuti inconsci della mente. Viene così definito il
passaggio dalla tecnica della libera associazione di idee alla nuova
metodologia proposta da Freud, tutta incentrata sullo studio dell’attività
onirica e sull’annullamento, in specifici frangenti, dell’attività censoria
della ragione. Il volume desta in egual misura interesse e critiche, da parte
degli studiosi, risultato degno di un’opera rivoluzionaria.
La psicoanalisi influenza la maggior parte dei campi di studio, in particolare
la filosofia e la scienza sociale, le innovazioni delle sue scoperte si
protraggono per tutto il Novecento.
Va ricordato, tuttavia, che, se Freud è il primo a scandagliare con metodo il
subconscio, altri prima di lui avevano iniziato ad indagare in quella stessa
direzione, come ad esempio Jean-Jacque Rousseau, Diderot, Goethe e altri autori
ancora, come Blaise Pascal, Baruch Spinoza o Gottfried Wilhelm Leibniz.
Pensiamo a quei riferimenti all’autocoscienza, alla ricerca dell’essenza del
soggetto o ancora a quelle indagini interminabili intorno alle percezioni
umane.
La questione colpisce anche altri tipi di indagatori, che sempre di passioni e
pulsioni si occupano, anche se al posto di taccuini, calamaio e parole, sono
soliti utilizzare tele, colori ad olio e trementina: gli artisti non rimangono
indifferenti di fronte alle nuove indagini, al contrario si avviano a dare il
proprio contributo. Pittori e scultori intraprendono a loro volta quello stesso
percorso alla ricerca dei luoghi oscuri della mente dove alla ragione
assente pare sostituirsi un infinito
spazio onirico incontrollabile.
Si può citare, a tal proposito, Francisco Goya, pittore e incisore spagnolo
vissuto tra il 1746 e il 1828. Egli anticipa, con la sua poetica che tutta si
protrae verso le epoche successive, l’indagine spaventosa all’interno
dell’inconscio, delle azioni che l’uomo può compiere quando la ragione si
assopisce e la bestialità irrazionale prende il sopravvento. Sono testimonianza
di tale ricerca del grande pittore le orrorifiche e violente acqueforti
denominate Capricci, a cui egli si dedica a partire dal 1790. I Capricci
comprendono 80 incisioni, tra queste la più conosciuta è Il sonno della
ragione genera mostri, (1799), opera che si auto-commenta nella lettura
della titolazione. Le tavole sono volte ad analizzare i vizi umani e le follie
comuni a tutte le società civili. Irrequiete e spaventose sono anche le 82 incisioni
che compongono I disastri della guerra, che Goya esegue tra il 1810 e il
1820, denunciando le brutalità inenarrabili, di cui egli stesso era stato
testimone durante la rivolta antinapoleonica negli anni della guerra
d’indipendenza spagnola.
Un altro esempio, sempre rimanendo in ambito artistico, può individuarsi nella
figura di Johann Heinrich Füssli, pittore e letterato svizzero, vissuto tra il
1741 e il 1825. Egli indaga quegli stessi temi che saranno tanto cari agli
Espressionisti e ai Surrealisti. Le sue opere sono pregne di pathos, di
gesti furenti e atmosfere mistiche e visionarie, come esemplifica uno dei sui
quadri più celebri: L’incubo, del 1781. Si tratta di una tela pregna di
simbolismi, criptica e angosciante, priva di forme armoniche, lontana dal gusto
della tradizione classica.
Nella tela sono rappresentate tre figure, una fanciulla, un mostro e un
cavallo, secondo uno schema a piramide appuntita, che ha come vertice il
demone, personificazione dell’incubo.
L’opera tende ad un esasperato senso di deformazione e straniamento. L’effetto
è accentuato anche dalla figura eccessivamente allungata della donna: essa
assume una posa irreale e il suo volto è distorto in un’espressione di angoscia
e terrore.
Anche l’uso della luce gioca a favore del risultato che l’autore vuole
ottenere, egli la utilizza come se l’azione si svolgesse all’interno di un
teatro, illuminando solo ciò che desidera far emergere dal buio indefinito,
creando così contrasti esasperati ed innaturali. Altro rimando ad una
dimensione artificiosa e drammaturgica è data dalla presenza sullo sfondo di un
tendone consunto, forse un logoro sipario, da cui spunta il muso di un animale
demoniaco. La belva è un cavallo, o meglio, una cavalla. Il sesso femminile è
desunto dal titolo originale dell’opera, Nighmare, dove night
significa “notte” e mare “cavallina”. Vi è qui un probabile riferimento
ad una leggenda scandinava, secondo cui mare è una creatura malefica che
durante la notte si siede sullo stomaco degli uomini e causa terribili incubi e
angosce.
Guardando a ritroso, molte sono le opere in cui si può individuare un interesse
per il subconscio, non di meno sono successive le correnti artistiche che
meglio esplicitano la stretta connessione tra psicanalisi, subconscio e arti visive.
In primis, l’Espressionismo, sviluppatosi nei primi anni del Novecento e che
non fu solo un movimento riguardante la
pittura, ma anche la letteratura, il cinema ed il teatro. Tale avanguardia interpreta, ed è qui il
collegamento con la materia freudiana, un potente sentimento di disagio
collettivo, lo sbandamento di una popolazione piegata dalla paura del conflitto
mondiale e dalla crisi economica. Il movimento nasce quasi contemporaneamente
in varie città tedesche e per la prima parte del secolo breve si fece carico di
rappresentare l’anima di una Germania distrutta, affamata e tormentata. Gli
artisti appartenenti a tale corrente possono essere divisi in due grandi
gruppi, il primo formatosi a Dresda intorno al 1905, chiamato die Bruke
e composto da autori quali Kirchner, Hekel e Nolde. Caratteristica predominante
nelle opere degli artisti di tale fazione è l’esasperazione del segno grafico.
Le figure che si formano sono volutamente grossolane, abbozzate, brutali, non
di rado paragonabili a mostruose maschere africane.
Il secondo gruppo si forma a Monaco di Baviera intorno al 1910, prende il nome
di der blaue Reiter, (Il cavaliere azzurro, nome della stessa
rivista in cui i componenti del gruppo raccoglievano i propri articoli). Gli
artisti di questa frangia fanno riferimento a Vasilij Kandisnskij, considerato
il fondatore dell’Espressionismo astratto.
Dopo la prima guerra mondiale l’espressionismo tedesco esaspera le sue
caratteristiche, dividendosi in due filoni: il Costruttivismo razionale,
del Bauhaus di Weimar e la fazione denominata neue Sachlichkeit. Del
primo gruppo fanno parte autori come Kandinskij e Klee, rivolti ad approfondire
l’astrattismo, il secondo, invece, si compone di artisti come Georg Grosz e
Otto Dix, che realizzano opere ispirate ai drammi umani, all’orrore della
carneficina, ai mutilati di guerra, agli industriali diventati ricchi grazie
agli introiti del conflitto.
Sono proprio queste le opere, apertamente schierate e volutamente di denuncia,
che Hitler definì “arte degenerata”.
Approfondiamo ora alcune opere, per sottolineare come, in questi autori, il
vero soggetto sia proprio la ricerca di ciò che è interiore, nascosto, sia esso
una pulsione astratta o qualcosa di più violento e orrorifico.
Sguardo al passato è un quadro di Kandinskij realizzato nel 1924. La
tela porta lo stesso titolo della sua autobiografia e vuole sottolineare lo
stretto rapporto che c’è, secondo l’autore, tra pittura e letteratura. È un
rimando ai tempi andati, nella composizione compaiono forme e colori presenti
in opere precedenti ma, questa volta, rappresentate con rigore e metodo. Un
ultimo sguardo indietro, una tela dove il ricordo e la malinconia si
trasformano in aeree forme geometriche.
Differente è la tela eseguita da Otto Dix nel 1933, intitolata I sette
peccati capitali. Si tratta di un quadro che provoca aberrazione e che, in
un qualche modo, si può ricondurre ai Capricci e alla raccolta I
disastri di guerra di Goya, perché le turpitudini dei conflitti non sono
poi così differenti, la bestialità non evolve. Sulla tela, sono raffigurate le
allegorie dei sette peccati capitali, le figure sono rappresentate secondo la
tecnica iperrealista e sono poste una a fianco all’altra, come se stessero
partecipando ad una confusionale festività. Al centro della composizione è ben
visibile un personaggio vestito da scheletro, intento ad agitare la falce, in
un gesto a metà tra lo scherno e lo spavento, appena sotto di lui una
irriverente caricatura di Hitler, qui rappresentato come un baffuto bambino
impaurito.
È evidente l’influenza della psicoanalisi per le opere espressioniste, che
tuttavia fanno emergere quasi esclusivamente solo un aspetto, quello della
nevrosi, dell’irrazionalità violenta e della follia omicida che si scatena
nell’animo umano in situazioni di miseria e povertà.
Un’altra è l’avanguardia che con un diverso approccio si dedica alla scoperta
dell’inconscio indagandone più aspetti. È del 1924 il primo manifesto
surrealista, che viene di fatto considerato come l’atto di nascita del
movimento, anche se non ha in sé nulla di programmatico.
Tale movimento si fonda proprio sulla scoperta freudiana dell’inconscio,
facendosi forza del fatto che se nel subconscio si pensa per immagini, allora è
proprio l’arte il giusto mezzo per indagarlo e per portare in superficie quei
contenuti apparentemente rimossi.
I surrealisti si rifanno ad una tecnica precisa per realizzare le loro
composizioni. Essi guardano al metodo del monologo interiore utilizzato da
Joyce per la stesura della celebre opera Ulisse, e lo traducono in un
procedimento automatico, che permette alle immagini, situate nell’inconscio, di
fluire senza l’intervento razionale dell’artista, si arriva così alla costruzione della surrealtà.
Gli artisti che aderiscono all’avanguardia sostengono l’importanza
dell’esperienza onirica, dell’attività psichica che si attua durante il sonno,
essi sono infatti convinti che sia necessario coniugare il materialismo
dialettico con la psicanalisi.
Di questa corrente fanno parte grandi personalità come Breton, Ernst, Mirò, e
Magritte, ma la figura che più di tutte riesce ad incarnare lo spirito
surrealista è Salvador Dalì.
Patria del movimento è la Francia, anche se poi si diffonde in altri paesi, a
partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, fino in Belgio,
Svizzera, Giappone e Inghilterra.
La stagione surrealista termina con l’inizio della seconda guerra mondiale.
Approfondiamo ora alcune opere.
Nel 1924 Mirò dipinge Maternità, una tela dal fondo neutro, dove
compaiono, quasi sospesi in un criptico nulla, due figure geometriche collegate
tra loro da due linee sottili che si incrociano. Nelle forme essenziali si
possono riconoscere, con un po’ di sforzo, simbologie riguardanti la maternità:
una testa, un ventre, dei seni e delle piccole creaturine, più insetti che
bambini, un maschio e una femmina.
Max Ernst, nel 1933, realizza Coppia Zoomorfica, una trasposizione
automatica di un incubo, utilizzando proprio la metodologia surrealista. Si
presentano, su uno sfondo neutro, delle figure dai contorni vaghi, una ricorda
un uccello e l’altra un essere umanoide, con lunghissime dita che sembrano
accarezzare il volatile. L’immagine è palesemente inquietante, e a contribuire
alla trasmissione di tale sensazione è anche la tecnica che l’artista ha
utilizzato, miscelando strati di colore a olio con vernici schizzate e
soffiate.
Figura centrale dell’avanguardia surrealista è certamente Salvador Dalì,
personalità egocentrica, lui stesso era solito definirsi El unico e
parlava di sé in terza persona. Egli è non di meno un grandissimo artista, in
effetti equiparabile a pochi altri maestri. Dalì aderisce al movimento, ma
personalizza l’esperienza, trasponendo nel quotidiano la ricerca artistica,
praticando un metodo che lui stesso definisce paranoia-critica. Si
evince dai testi di psichiatria che il paranoico-critico è un individuo che,
accecato da un senso di onnipotenza, interpreta il mondo con una visione
delirante ma che pure riesce a razionalizzare il suo delirio. Nel 1934 Dalì
viene espulso dal movimento dallo stesso Breton; si rifugia quindi negli Stati
Uniti dove attende la fine della guerra. Dalì continua ad essere un artista
prolifico anche dopo il conflitto mondiale, dedicandosi anche all’illustrazione
e alla grafica. A caratterizzare le sue
opere sono paesaggi allucinati, desertici e pregni di elementi codificati,
distese infinite su cui galleggiano figure simboliche, orologi liquefatti,
elefanti dalle zampe di insetto e misteriose figure femminili, generalmente
riconducibili alla sua amata musa Gala.
Una delle opere più conosciute e che meglio esemplifica la poetica di Dalì è Sogno
causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del
risveglio, realizzato nel 1944. Colpisce lo sguardo dello spettatore il
corpo nudo di una donna distesa, con la testa rivolta verso il paesaggio che si
estende dietro di lei, il volto non visibile la rende ancora più misteriosa
agli occhi di chi la osserva. Si tratta di Gala, moglie e musa dell’artista. La
donna è sospesa nel vuoto, sotto di lei si trova uno scoglio levigato e
marmoreo, che si erge da una distesa di acqua di mare dalla superficie
stranamente liscia. In primo piano e in ultimo galleggiano nell’atmosfera due
rossi melograni, da quello sullo sfondo fuoriescono un pesce mostruoso dalle
cui fauci saltano fuori ruggenti due tigri. Tra le tigri e la donna è presente
una baionetta che con la punta sta per toccare il braccio di Gala.
All’orizzonte compare un elefante dalle zampe di libellula, lunghissime e
sottili, troppo fragili per sostenere l’obelisco che l’animale trasposta sulla
schiena, così imponente che la punta esce dalla tela. Nella composizione ogni
elemento è rappresentato secondo i canoni del surrealismo, senza tenere conto
della presenza degli altri elementi. La baionetta simboleggia il pungiglione dell’ape,
invece la percezione del dolore è da ricercarsi nel gruppo di fiere che
fuoriescono dalla melagrana gigante. L’elefante che cammina senza increspare
l’acqua supera uno scoglio, particolare che viene di solito inteso come il
superamento da parte di Dalì di una difficoltà grazie alla fede.
Come si è sottolineato più volte, El unico è un’artista superbo,
decisamente prolifico, tuttavia la sua opera più grande può considerarsi quella
che ha realizzato confrontandosi con il più grande fra i grandi della letteratura.
Nel 1951, infatti, il governo italiano incarica Dalì di celebrare la nascita
della più celebre e fondamentale opera italiana, la Divina Commedia.
L’opinione pubblica, tuttavia, non prende di buon grado l’idea che il poema
fiorentino venga affidato alle mani di un artista spagnolo, e così la proposta
viene ritirata. Ma l’artista decide comunque di non abbandonare il progetto.
Egli realizza 100 xilografie a colori, impiega nove anni, tra il 1957 e il
1964, a completare le tavole che saranno poi esposte negli anni Sessanta a
Parigi presso il Palais Gallerie.
L’opera si compone di trentatre trittici, ognuno composto da tre tavole. Le
illustrazioni sono eseguite secondo i canoni dettati dal metodo paranoico-critico
e dall’estetica del molle che caratterizzano tutta la produzione
dell’artista spagnolo. All’interno di tale colossale collezione sono
riscontrabili tutte le sperimentazioni del Maestro: rimandi agli orologi molli,
oggetti deformi, immagini mostruose e immagini doppie. Tra le tante tematiche
ne ritorna una in particolare, cara a Dalì, ossia l’iconografia dei cassetti
all’interno dei corpi umani. Con questo modello figurativo, l’artista spagnolo
vuole spiegare come il corpo umano sia colmo di segreti, simboleggiati dai
cassetti, e che solo la psicanalisi è in grado di aprirli e scoprirne i
contenuti paranoici.
Se si osservano con attenzione le xilografie, si può notare come il lavoro
illustrativo segua la lezione dantesca, diventando via via più leggero e
aeriforme man mano che nella narrazione si raggiungono i nove cieli del Paradiso
e l’Empireo.
Nelle tavole riferite all’Inferno si può cogliere un generale senso di
pesantezza e corporeità, con allusioni all’arte classica e a volumi
michelangioleschi, come dimostra la tavola dedicata a Caronte, raffigurato di
schiena e il cui corpo in torsione pare quasi un rimando agli studi di nudo del
maestro della Cappella Sistina. Sempre nell’Inferno Dalì sfoggia la sua
immaginazione grottesca disegnando le creature abbiette di coloro che “non
furon ribelli /né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.” (Inf.III,
38-39), tra di essi è proprio quel demone alato che ha il corpo conficcato di
cassetti semiaperti, raffigurato in una postura contratta, con le ali piegate e
gli artigli ben in vista. Tra i mostri infernali vi è anche Gerione, (Ecco
la fiera con la coda aguzza, /che passa i monti, e rompe i muri e l’armi, Inf.
XVII, 1-2), raffigurato come un imponente mostro alato, simile nel corpo ad un
drago cinese e nel muso ad una maschera grottesca della tradizione Tiki.
Il Purgatorio è in entrambe le opere punto di passaggio, la tecnica del
pittore spagnolo si adegua al testo dantesco. Sono ancora qui presenti alcune
punizioni brutali, come quella riservata ai superbi, costretti a trasportare
sulle spalle enormi massi di pietra, peso che nelle illustrazioni diventa
insopportabile, tanto da deformare e spezzare i corpi (Purg, X-XII).
L’evoluzione della modalità di pittura all’interno del Purgatorio è
visibile nella tavola riguardante l’incontro con Sordello (Purg., VI, 58
sgg.: Ma vedi là un’anima che posta/ sola soletta inverso noi riguarda).
In essa Dante appare curvo, intento ad ascoltare la spiegazione della salita
delle anime, anche se è nella rappresentazione della barca dei penitenti,
guidata dall’angelo nocchiero, (Purg. II) che il tratto diviene più
sfumato e lieve.
Arrivati al Paradiso, le illustrazioni si fanno luce. Ormai i tratti e i
colori sono leggeri, liberi, come è chiarificato nella tavola dell’incontro tra
Dante e Cacciaguida, che discende dalla Croce di Marte (Par.XV-XVII). La
rappresentazione diventa completamente simbolica, le figure dei due personaggi
sono siluette appena abbozzate, effimeri fantasmi che possono volar via
al soffio del lettore. Il colore che sovrasta la composizione è il giallo e sullo
sfondo dei flebili segni grafici compongono la croce che si libra nell’aria (tale
dal corno che ’n destro si stende/ a piè di quella croce corse un astro/de la
costellazione che lì resplende (Ora., XV, 19-21).
La Commedia dantesca è, insieme alla Bibbia e ai poemi omerici,
il testo più studiato e conosciuto, e anche quello più soggetto ad
interpretazioni. Prima di Dalì molti artisti si sono lasciati ipnotizzare dalle
terzine di endecasillabi a rima incrociata, ricordiamo tra i tanti Botticelli e
Dorè. Innumerevoli sono le raffigurazioni, senza contare le miniature
medievali, che si ispirano al viaggio allegorico della salvezza umana che Dante
descrive nel suo poema.
Come avrebbe potuto un’opera di tale imparagonabile importanza non destare
interesse in un autore come Salvador Dalì? Come avrebbe potuto, proprio lui,
così interessato alle immagini che scaturiscono dal più profondo dell’animo,
non cimentarsi in un’opera che, più di tutte, coinvolge il lettore con le sue
potenti suggestioni?
E va altresì sottolineato come numerosi studiosi si siano avventurati in una
lettura psicoanalitica della Divina Commedia, trovando complicati
simbolismi sul dramma della vita umana e allegorie sul processo della nascita.
La lezione dantesca è quindi sempre attuale, infinita, complessa, sempre pronta
a mettere alla prova chi coraggiosamente decide di avvicinarsi ad essa ed
accettare la sfida.
Una lezione così corposa, preziosa e sublime, che anche il grande Dalì sentì
forse l’inconscio più leggero alla lettura della parola (stelle) che
segna la chiusa delle tre cantiche, e che è espressione del motivo ideale che
attraversa l’intero poema: e quindi uscimmo a riveder le stelle (Inf.,
XXXIV, 139), puro e disposto a salire a le stelle (Purg., XXXIII,
145), l’amor che move il sole e l’altre stelle (Par., XXXIII,
145).
Alessia Cagnotto