Il buddhismo è suddiviso al suo interno in molte tradizioni e molti approcci che hanno interpretato il messaggio del Buddha in modi anche assai diversi. All’interno di queste diverse sensibilità vi è una grande distinzione: quella tra tradizione Hinayana (Piccolo Veicolo) e tradizione Mahayana (Grande Veicolo), dentro di esse sono sorte poi molte scuole. Dobbiamo ricordare che questi due termini sono stati coniati in ambito Mahayana: questi buddhisti ad un certo punto hanno detto di loro di essere il Veicolo più importante, più Grande, rispetto al Veicolo considerato in modo dispregiativo, cioè più Piccolo. All’interno della tradizione Mahayana sorse in Cina la scuola buddhista Chan, la quale giungendo nel Medioevo in Giappone diede vita allo Zen. Chan significa “meditazione”, Zen è la resa fonetica in giapponese della parola Chan. In Cina era diffuso anche il taoismo, quindi il buddhismo Zen nasce dall’incontro tra la filosofia buddhista e quella taoista. Grande Veicolo: questa tradizione è considerata Grande in quanto, secondo i Mahayana, gli Hinayana lavorano solo alla costruzione della propria liberazione, mentre i Mahayana vogliono lavorare attraverso la pratica interiore non solo sulla propria persona ma anche sulle altre persone, la comunità di cui il monaco fa parte, la città e la comunità di tutti gli esseri umani, non solo, ma anche di tutti gli esseri viventi, senzienti. Gli animali non sono liberati e non possono lavorare alla propria liberazione: quindi lo statuto dell’essere umano, benché deprecabile in quanto all’interno del ciclo delle vite, è il più ottimale per lavorare per la propria liberazione. Questo perché mentre gli animali non sono consapevoli del proprio stato di non liberazione, gli umani lo sono, quindi possono impegnarsi per questo scopo. Anche gli esseri superiori all’uomo, cioè gli esseri divini, sono in una situazione di beatitudine tale che non li rende consapevoli dell’essere all’interno del ciclo delle nascite, quindi al di fuori del nirvana.  Allora l’essere umano può lavorare sia per sé stesso sia per gli altri. Infatti, nella tradizione Mahayana emerge la figura del bodhisattva, cioè colui che pur pervenuto alla propria totale liberazione e potendo scegliere di uscire dal ciclo delle vite, decide consapevolmente di non uscirne per aiutare gli altri nella liberazione. Il primo bodhisattva è il Buddha stesso: egli, pervenuto allo stato di liberazione, non uscì dal ciclo delle rinascite (mahanirvana). Mara, l’essere demoniaco che tiene tutti nella rete, lo invita a uscire completamente dal samsara, ma il Buddha risponde a questa tentazione dicendo che vuole rimanere vivo fino a che tutta la verità sia conosciuta da parte di tutti. Ma Mahayana è Grande anche in un altro senso. La pratica considerata per eccellenza per raggiungere la liberazione è la meditazione. Una volta la meditazione era propria del monaco, invece il laico buddhista non medita come obbligo religioso. Allora se lo strumento principe per raggiungere la liberazione è la meditazione, e il laico non medita, allora il laico come potrà sperare di raggiungere la liberazione? In un’ottica Hinayana solo il monaco può liberarsi. Il laico può fare tutte le altre cose che propone l’insegnamento buddhista, come seguire una certa morale, la preghiera, i pellegrinaggi. Ma tutto questo non nella speranza di liberarsi nella vita presente bensì di rinascere in un monaco, che solo allora deciderà di intraprendere il cammino per la liberazione. Invece nella tradizione Mahayana la distinzione tra monaci e laici per la possibilità di raggiungere la liberazione, cade. I Mahayana danno una grande importanza al mondo laico. Questo mutamento di interpretazione poggia su un cambiamento metafisico. Secondo una prima fase del buddhismo (Hinayana) vi è un personaggio storico, il Buddha, il quale nella sua vita è passato egli stesso da una dimensione normale alla liberazione e da quel momento ha fatto conoscere a tutti la verità affinché anche gli altri potessero raggiungere il suo stesso stato. Invece secondo i Mahayana la questione non sta nel passaggio da uno stato non-illuminato a uno stato illuminato, cioè vi è uno stato di realizzazione, di illuminazione dentro ogni essere senziente, è lo stato di Buddha, il Buddha interiore. Si passa dal dare l’assoluta importanza al Buddha storico che solo ad un certo momento si è realizzato, al dare importanza al Buddha interiore, rispetto al quale il Buddha storico non è altro che una manifestazione affinché gli esseri umani possano venire in contatto con una verità eterna rivelata dal Buddha storico. In questo senso ogni essere senziente, se viene aiutato, può risvegliare in sé, riconoscere, consapevolizzare il suo stato eterno di Buddha. Il buddhismo Mahayana è oggi diffuso nella maggior parte degli stati asiatici, ma parte dall’India e principia da due contributi: da una parte Nagarjuna, dall’altra la scuola Cittamatra, detta anche Yogacara, ma anche Vijnanavada. Il primo (150 d.C. ca – 250 d.C.) è considerato il più grande filosofo del buddhismo, scrive diverse opere, quella più importante in cui riassume il suo insegnamento è Strofe del Cammino di Mezzo. Egli sistematizza tutta una serie di insegnamenti a lui precedenti e che incontriamo in una letteratura buddhista che va sotto il nome di Prajnaparamitasutra, costituita da una serie di testi attribuiti al Buddha. Tutte le cose hanno una loro verità, una verità occulta all’occhio in preda all’ignoranza. Questa vera verità di ogni cosa, il loro fondo, consiste con il Sunyata, il Vuoto. Entrare in contatto con la natura intima delle cose, il Vuoto, è uscire dallo stato di ignoranza e anche uscire dallo stato di sofferenza. In Occidente la filosofia è considerata come ricerca della verità delle cose, ma assai raramente si dice che questa verità conduce anche ad uno stato di liberazione dalla sofferenza. Invece nel buddhismo la verità delle cose fa passare anche la sofferenza. Nagarjuna da finissimo filosofo e logico porta i ragionamenti antitetici fino alle estreme conseguenze, fino all’assurdo. Ogni cosa esiste solamente in quanto esiste il suo contrario. Ogni cosa non ha in sé il suo principio di esistenza, la sua identità di realtà. Ogni cosa ha il suo statuto, è quella che è, in quanto si contrappone a qualcosa di altro che non è quella stessa cosa. Il bianco esiste solo in rapporto al nero. Il Buddha riguardo al vuoto costitutivo delle cose dice: l’essere umano non ha un io in quanto la soggettività è una collezione di aggregati che si intrecciano tra di loro, quindi ci sono solo gli aggregati. Così per le cose: non esiste il carro in sé, ma solo i pezzi di cui è composto. È il concetto di Anatta, non c’è un Sé, un principio di individuazione che sostanzia le cose e anche l’essere umano.  Invece Nagarjuna arriva a questa idea di assenza di natura interiore in un altro modo: lo statuto di realtà è relativo al fatto che esso è contrario a ciò che esso non è, quindi è fatto da tutte le realtà che non sono quella realtà. Allora Nagarjuna parla di svabhava, assenza di natura interiore, assenza di Sé. Non c’è una realtà nelle cose e nell’uomo, bensì il vuoto. Ogni elemento che è opposto ad un altro elemento non ha natura propria, quindi è vuoto, non ha esistenza propria. Nagarjuna fa una lista di opposti, quelli più importanti, all’interno dei quali possiamo rintracciare tutte le altre negazioni: né abolizione (nirodha) né creazione, né annientamento né eternità, né unità né molteplicità, né arrivo né partenza. Ognuna di queste categorie è relativa a quella opposta, quindi non ha esistenza. Ci stiamo allontanando dall’idea secondo la quale la liberazione sarebbe un passaggio dallo stato di non illuminazione allo stato di illuminazione. Tra queste due stati c’è la pratica di meditazione. Ma dal momento in cui si dice che la liberazione (nirodha) è esistente solamente in rapporto al suo opposto, essa non esiste. Non sono due realtà, sono un’unica realtà. Quindi si supera l’idea secondo la quale la pratica sarebbe il passaggio da una riva del fiume a un’altra riva del fiume, come detto espressamente dal Buddha in un famoso discorso. In realtà, dice Nagarjuna, non esistono due rive del fiume. Questo avrà molte conseguenze nello Zen, per il quale non esiste una realizzazione (nirvana) concepita come altra dal mondo dei fenomeni, della realtà, della più banale realtà stessa. Tutto è vuoto, ma ci sono fenomeni, che tutti vediamo. Vediamo tante cose. Come si spiega? Nagarjuna, per spiegare questo, teorizza la differenza tra verità relativa (samvrtisatya) e verità assoluta (paramarthasatya). Dal punto di vista della verità relativa, il mondo dei fenomeni ha una sua realtà, non è completamente privo di valore, ma i fenomeni non esistono dal punto di vista della verità assoluta. Anche la verità del Buddha ha una una sua dignità ma solo nel mondo della verità relativa e non sono in quella della verità assoluta. Anzi Nagarjuna dice che il Buddha non ha mai proferito nessuna parola nel mondo della verità assoluta, ma solo in quello della verità relativa, cioè quella convenzionale. La verità del Buddha è veramente vuota nella essenza, nella verità assoluta. Allora Nagarjuna arriva a questa affermazione fondamentale. Ogni cosa non ha il suo statuto di realtà ma lo ha solo perché opposta al suo opposto. Quindi qual è l’opposto del nirvana? È il samsara, il mondo delle rinascite. Nirvana e samsara sono due opposti, quindi entrambi in realtà sono vuoti, pertanto se entrambi sono vuoti, sono la stessa cosa. Samsara è nirvana. Le due rive del fiume, che secondo l’ottica del Buddha simboleggiano samsara e nirvana, non sono rive del fiume, non sono distanti, sono la stessa cosa. Il Buddha è già in essere in ogni cosa. Da sempre e per sempre lo stato di Buddha sta in ogni cosa. Non c’è passaggio da uno stato di non illuminazione (samsara) a uno stato di illuminazione (nirvana). Invece Cittamatra significa “sola (matra) coscienza (citta)”, mentre Vijnanavada “dottrina della sola rappresentazione mentale”. Queste etimologie ci dicono il tratto specifico della scuola, che va collocata attorno al IV secolo d.C. Tutto è coscienza, ogni cosa è coscienza. I tre regni, cioè la totalità della realtà, sono solo coscienza, e tutto il resto è vuoto, apparenza, illusione. Realizzare questa verità, che tutto è coscienza, significa realizzare la vacuità, e realizzare la vacuità è superare la visione illusoria della distinzione tra soggetto e oggetto, dentro e fuori, me e resto della realtà, mente/coscienza e fenomeni al di fuori di essa. Questa è la realizzazione. La realizzazione è la realizzazione della verità della realtà. Nella realizzazione la persona è pienamente aderente alla nudità della realtà, nudità rispetto a tutto ciò che si aggiungeva, i pensieri, le illusioni. Questa dimensione originaria della realtà, questa dimensione nuda della realtà, è detta tathata. Il realizzato per eccellenza è il Buddha, il quale è diventato il tathata per eccellenza, colui che ha realizzato la quiddità, la identificazione con la realtà vera. Ogni coscienza che è uscita dallo stato di illusione è essa stessa tathata, totalmente coincidente con la propria quiddità, con la realtà vera delle cose.  Questo discorso tornerà molto nello Zen: tutto è mente e il resto è illusione. Il Sutra del Diamante, che tanta eco avrà nello Zen, parla tra le altre cose dell’abbandono del concetto di io. Nel Sutra del Diamante si dice: il bodhisattva agisce senza avere cognizione di qualcuno che agisca, dona ma non c’è colui che dona, soffre ma non c’è colui che soffre. Resta l’evento della manifestazione senza l’io. In buona sostanza si tratta dell’insegnamento taoista del wei wu wei, “azione senza azione”. Nel momento in cui non c’è alcuna cognizione di io non c’è più colui che fa una distinzione. C’è il sentire ma non c’è colui che sente. C’è il donare ma non c’è colui che dona. C’è l’evento senza più un io che osserva questi eventi. Finché c’è un io che osserva siamo in una dimensione dualistica (soggetto e oggetto). Il bodhisattva è libero anche dall’io delle cose e anche da ogni idea, in quanto ogni idea presuppone un io delle cose. Nel Lankavatarasutra, anch’esso molto importante nel buddhismo Mahayana e quindi nello Zen, si parla del risveglio interno, cioè la presa d’atto di una realtà realizzata già realizzata dentro il praticante (la natura di Buddha). Bussho è un termine giapponese tradotto come la natura di Buddha. Nello Zen la realizzazione è chiamata in giapponese kensho e satori. La natura di Buddha non è un respiro, non un pensiero, non un’emozione, non è una nuvola, abita dentro il praticante, ma non è nulla di ciò che lo costituisce secondo l’esperienza fenomenica. Il satori quindi è un percorso fatto di disidentificazione: la pratica interiore deve spingere a disidentificarsi da tutti quegli elementi che sembrano identificare il praticante ma che in realtà non lo costituiscono. La natura di Buddha consiste nella vacuità. Tutto ciò che “è”, non è la vacuità, quindi bisogna disidentificarsi da tutto ciò che “è” sensazione, che “è” emozione, che “è” pensiero. Lo Zen narra la propria origine in questo modo. il Buddha sale una collina per fare i suoi discorsi, si siede e ha davanti a sé l’uditorio, ma quel giorno il Buddha non dice niente, allora i monaci rimangono stupiti. Egli sorridendo tiene un fiore in mano, lo fa ruotare tra pollice e indice e lo fa vedere all’uditorio. Cosa sta facendo? Ma ci sarà una persona che capisce quello che il Buddha sta compiendo. Ad un certo momento lo sguardo di Buddha incontra quello del discepolo che capisce. In quel momento avviene il passaggio di conoscenza dal Buddha a questo discepolo, di nome Cassiapa, che diventa il primo patriarca dello Zen. Poi ce ne saranno altri, tra cui Nagarjuna, fino ad arrivare a Bodhidharma (483-540 d.C.), l’ultimo patriarca indiano, il quale decide di spostarsi in Cina per far conoscere lo Zen. Tutto il patriarcato indiano è secondo gli storici una costruzione fatta dallo Zen stesso (la maggior parte dei patriarchi Zen in India sarebbe una finzione letteraria). In Cina Bodhidharma arriva al porto di Canton e viene invitato dall’imperatore cinese Wu per colloquiare con lui. L’imperatore Wu è un grande sostenitore del buddhismo in Cina. Egli gli pone una serie di domande. Quali meriti mi vengono per le azioni che ho fatto per l’espansione del buddhismo in Cina? Bodhidharma risponde: Nessun merito. Qual è l’essenza della verità dello Zen? Bodhidharma risponde: Vacuità, niente di santo. L’imperatore è stupito dalle risposte del monaco indiano. Allora gli fa un’ultima domanda: Chi sei tu che dà risposte incomprensibili alle mie orecchie? Bodhidharma risponde: Non so. Le risposte di Bodhidharma sono tutte all’insegna della negazione. In cinese e in giapponese la negazione significa anche “vuoto”. Tutte risposte vuote! Qualcuno ha detto addirittura che erano risposte vuote date al vuoto, in quanto l’imperatore si chiama Wu, che in cinese è una negazione. L’imperatore non ha alcun merito per aver fatto costruire tanti templi. L’imperatore non deve agire con lo scopo di fare qualcosa per ottenere la liberazione, credendo di voler liberare un io, in quanto tutto è vuoto. Poi non c’è niente di santo, cioè non c’è distinzione tra sacro e profano, nirvana e samsara sono la stessa cosa, tutto è vuoto. In ultimo Bodhidharma non sa chi è perché la definizione di sé implica un io, ma tutto è vuoto. Dal colloquio con l’imperatore Bodhidharma si convince che la Cina non è pronta per lo Zen. Quindi egli rimane in Cina ma si ritira in una grotta (che sarà il monastero di Shaolin) e resta in meditazione per nove anni contro il muro della grotta. Poi una persona, Huike, chiederà di diventare un suo allievo e alla fine riuscirà a convincerlo. In seguito ci saranno altri allievi. Alla fine della propria vita Bodhidharma deciderà che il suo successore dovrà essere proprio Huike.    Bodhidharma avrebbe scritto molte opere, tra cui Lineamenti della pratica, nella quale opera rintracciamo vari aspetti che ci ricordano che costui è un indiano, ma rintracciamo anche elementi che ci ricordano molto quello che sarà lo Zen più maturo, influenzato dal taoismo. Vediamo qualche passaggio di questo testo. “Gli esseri umani sono sempre alla ricerca, invece i saggi si risvegliano”. Lo Zen insiste molto su questo aspetto. Nagarjuna pone arrivo e partenza come due illusioni, quindi egli mette in questione l’idea stessa di ricerca, per cui l’esito finale della ricerca è qualcosa che la trascende. I saggi non portano a termine la ricerca, ma la oltrepassano. “Cercare significa soffrire, invece non cercare niente significa beatitudine”. Questo avviene proprio perché il saggio smette di cercare. Chi cerca è spinto dal desiderio di qualcosa, invece il saggio oltrepassa il desiderio. “Coloro che sono sufficientemente saggi per praticare le sei virtù per eliminare l’illusione, non praticano nulla. Questo significa praticare il Dharma”. Tale passaggio ci ricorda il wei wu wei del taoismo: il saggio non è un soggetto agente che svolge una azione. La realizzazione non è realizzazione di qualche cosa, perché se il saggio fosse nella idea che debba essere realizzata qualche cosa, sarebbe nella dimensione dualistica. Kensho è la visione dell’essenza, cioè della natura di Buddha. Ma questa etimologia potrebbe portarci fuori strada, come se ci fosse da una parte chi vede e dall’altra qualcosa da vedere. In realtà per lo Zen non c’è nessun dualismo tra soggetto e oggetto. La realizzazione (kensho) non è scoprire un oggetto, scoprire cioè qualcosa di nuovo. La natura di Buddha quindi non è un oggetto, ma ciò che è presente in ogni cosa da sempre. La natura di Buddha è la compresenza in tutto della propria natura personale. Allora la realizzazione è propriamente satori, che deriva dal verbo giuapponese “rendersi conto”. Il saggio che ottiene la realizzazione “si rende conto” che non c’è dualismo, quindi che non c’è realizzazione, in quanto la natura di Buddha, che dovrebbe essere realizzata dal saggio, è già da sempre nel saggio. Secondo lo Zen kensho e satori non sono esattamente la stessa cosa. Il satori è la realizzazione ultima, cioè il prendere coscienza di essere la natura del Buddha, anzi che lo si è da sempre. Invece di kensho ce ne sono in più vite, si tratta di realizzazioni parziali che spingono ad avere una vita migliore in cui realizzare un kensho superiore fino al completo satori. Per tutti gli studiosi dopo un certo momento lo Zen cambierà radicalmente, divenendo qualcosa di talmente alto nella storia dello Zen che lo influenzerà da sempre. Ci riferiamo alla vicenda del sesto patriarca, cioè l’ultimo, dopo il quale termina il patriarcato: nel VII secolo vive Huineng. Egli era un pezzente che raccoglieva legna, ignorante e illetterato, ma ad un certo punto sente una frase del Sutra del Diamante: egli ha una improvvisa illuminazione, un kensho, e viene a sapere che quella persona che stava recitando il Sutra del Diamante proviene dal monastero retto dal quinto patriarca dello Zen. Si reca nel monastero e cerca di farsi accogliere. Viene valutato e il monaco incaricato si accorge che Huineng è una persona molto realizzata sebbene sia un ignorante. Viene accolto e messo in cucina, poco stimato. Ad un certo punto il quinto patriarca sta per morire e indice una sorta di gara per decidere il successore: i monaci dovranno scrivere dei versi per esprimere l’essenza della verità dello Zen. Nessun monaco si azzarda a farlo perché tra di loro vi è il monaco più serio, che tutti pensano essere il successore, quindi scrivere qualcosa sarebbe una offesa a costui. Allora scrive solo tale monaco da tutti stimato: “Il corpo è l’albero della bodhi, la mente è come uno specchio chiaro, sforzati di lucidarlo perché su di esso non si posi la polvere”. Huineng non sa leggere, quindi si fa leggere da una persona i versi del monaco da tutti stimato, alla fine detta altri versi per farli scrivere come risposta: “La bodhi non ha albero, lo specchio non esiste, dove può posarsi mai la polvere? Tutto è vuoto”. Huineng, sebbene sia il più ignorante, verrà eletto sesto patriarca perché ha capito l’essenza dello Zen. Con Huineng abbiamo qualcosa che prima nessuno aveva mai incontrato in maniera così radicale. È il messaggio del vuoto radicale. Per il Buddha, invece, c’è inquinamento, c’è polvere, quindi la pratica è quella di togliere la polvere dalla mente inquinata mediante la pratica, soprattutto la meditazione. La pratica ci fa essere diversi da ciò che eravamo. Huineng dice che non c’è nessuna mente e nessun inquinamento, tutto è vuoto. È lo svuotamento più radicale. Huineng porta alle estreme conseguenze il messaggio di Nagarjuna. Per Nagarjuna non c’è differenza tra samsara e nirvana. Huineng ci aggiunge che nulla ha esistenza propria, in assoluto. L’uomo sperimenta diversi tipi di dualismi, ma Huineng critica il dualismo radice. La base di tutti i dualismi è quello tra bene e male, che la pratica servirebbe a togliere. Quindi per Huineng non esiste il dualismo tra Me prima della pratica e Me dopo la pratica. Ciò che dicono Nagarjuna e quindi Huineng è che non esiste un passaggio dalla dimensione non realizzata a quella realizzata, cioè da sofferenza a beatitudine. Huineng ha avuto il merito di aver fondato una tradizione spirituale che supera il dualismo fondamentale. Non esiste il problema, il problema esiste quando crediamo di avere un problema. Facciamo un esempio famoso. Il millepiedi non si pone il problema di dove mettere i piedi, in quanto si muove con tutti i piedi in maniera naturale. Ad un certo punto una farfalla gli chiede: Come fai a mettere tutti i piedi in maniera giusta? A questo punto il millepiedi si blocca, in quanto inizia a pensare a dove mettere i piedi. Linji è a capo della scuola Zen detta Rinzai, che è diversa dalla scuola Zen detta Soto. Con Linji lo Zen si svuota ancora di più del messaggio, raccogliendo l’eredità di Huineng fino alle estreme conseguenze. Leggiamo qualche brano del LinjiLu, la raccolta dei pensieri di Linji. “La mente ordinaria è la Via”. Quindi non la mente realizzata, quella diventata altro da ciò che si intende come ordinario. Lo Zen con Linji non ha più messaggio. Per questo lo Zen si distingue dalle altre vie. Se la mente ordinaria è la Via, possiamo parlare di una tradizione diversa da altre tradizioni? Esiste un approccio che rende realizzati? In realtà con Linji lo Zen si annulla, diviene una cosa diversa da una via spirituale come ce ne sono nel mondo. “Agite semplicemente senza mai interrompervi e tutto ciò che vedete sarà la cosa giusta”. Non bisogna arrancarsi dietro gli esperienti inutili delle tradizioni antiche, ma bisogna adattarsi naturalmente alle cose come vengono, tutte quante, senza giudicarle e senza opporvisi. Se si cerca il Buddha, egli sarà il produttore del samsara. La pace si ottiene quando si smette di cercare. “Semplicemente non sforzatevi, siate semplicemente ordinari … All’esterno non scelgo tra sacro e profano”. Proprio perché tutto è profano e tutto è sacro nello Zen non c’è necessità di avere una pratica tradizionale, nemmeno la meditazione. “Quando un uomo cerca la Via, la Via non agisce”. Il vero Buddha non ha alcun aspetto, il vero Dharma non ha alcuna forma. Invece chi pratica dà una forma a qualcosa, ma dando una forma a ciò che non ha forma, se ne allontana. “Non attaccandovi alle cose, le attraversate completamente”. “Non c’è nulla da cercare”. “Le vostre attività esterne non sono diverse da quelle dei patriarchi … siate semplicemente ordinari … passate il tempo senza fare nulla”. Linji è radicale, non resta in piedi niente non solo del buddhismo ma nemmeno dello Zen precedente e di ogni forma di religione. Per Linji, semplicemente, l’impalcatura concettuale e quella della pratica non permettono di vedere la natura di Buddha che è da sempre.