“La mattina del 24 dicembre 1914, un piccolo gruppo di persone saliva su per la strada del Gran San Bernardo. Quelle persone erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Così inizia Piccolo Alpino di Salvator Gotta. Un libro che il regime fascista immaginò come romanzo ideale per la formazione dei giovani italiani, vedendo in quelle pagine il segno di tutti i valori patriottici che il fascismo gonfiò a dismisura negli anni successivi alla Grande Guerra: l’amore per la Patria, l’abnegazione e lo spirito di sacrificio per una causa sofferta — nel caso di specie, da parte del giovane Giacomino — , lo spirito di solidarietà fra i soldati italiani e, dulcis in fundo, una breve parentesi dedicata al Re. In realtà, queste furono valutazioni fatte in seguito. Il romanzo non fu certamente scritto con lo scopo di esaltare il fascismo, dato che uscì nel 1926, ma fu già abbozzato dall’autore in precedenza, sulle trincee del Carso. Salvator Gotta, tornato dalla guerra, a cui aveva partecipato come ufficiale di artiglieria, lo scrisse traendo ispirazione dall’esperienza al fronte. In un’Italia dov’era ancora vivo e dolente il ricordo della Grande Guerra, le disavventure del piccolo Giacomino che, rimasto senza famiglia, viene adottato dagli Alpini e con loro combatte nelle trincee del Carso, ebbero subito un grande successo. Il Piccolo Alpino diventò un simbolo nazionale, un affascinante racconto d’altri tempi che, attraverso il fedele ritratto di un periodo così drammatico della nostra storia, rimase nei cuori di intere generazioni. Un libro che in tanti, superati da un pezzo i cinquant’anni, abbiamo avuto occasione di rileggere ancora. Salvator Gotta pagò nel dopoguerra la sua aperta adesione al regime, riconducibile più che altro alle opere successive da lui scritte. Lo scrittore piemontese, nato nel 1888 nella canavesana Montalto Dora e morto a 92 anni nel 1980 a Portofino, entrò giovanissimo nel mondo della letteratura e del giornalismo. Nel 1915 si arruolò volontario fra gli alpini per combattere al fronte. Tornato dalla guerra, riprese carta e penna non solo scrivendo il Piccolo Alpino ma, dopo aver aderito al fascismo, legò il suo nome al regime come autore delle parole dell’ex-inno degli Arditi poi usato anche dai fascisti: “Giovinezza”. Continuò a scrivere, anche nel dopoguerra, romanzi di evasione. Divenne popolarissimo tra gli adolescenti, tra gli anni ’60 e ’70, grazie a una rubrica di domande e risposte sul settimanale a fumetti Topolino ( tra l’altro, in una puntata della rubrica, rivelò di essere stato tra coloro che rinvennero il corpo di Emilio Salgari, suicidatosi il 25 aprile del 1911 a Torino) e per i suoi romanzi storici sul Risorgimento. Rileggendo il Piccolo Alpino, a prescindere dall’aver amato o meno questo libro, si intuisce come possa rappresentare un utile esercizio storico per chi voglia analizzare il costume dell’epoca e la retorica che ne scaturiva, sbirciandolo dallo spioncino dell’infanzia.
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