[…] Il prepotente, la potenza la mette in atto attraverso ogni sorta di abusi e soprusi, di atti di dominio arbitrario e, quando necessario, crudele.

Il mite è colui che lascia essere l’altro quello che è […][1]

“Io posso, tu puoi”, “io posso, tu esegui”, “su, che ce la puoi fare!”, “non puoi, non ti è possibile”, “se voglio posso”, “ha buona volontà, ma non ce la può fare”, “in quanto capo esercito il potere”, “è il potere della maggioranza!”, “non te lo puoi permettere!”. Potremmo continuare all’infinito. 

Il potere della parola “potere” ha condizionato la storia dell’uomo sin dagli albori; guerre e conflitti di ogni tipo, interni ed esterni, sono sempre stati e continuano ad esserlo, il risultato di una cattiva gestione del potere. Esso viene esercitato in qualunque contesto: tra gli Stati, in famiglia, a scuola, nel rapporto di coppia, solo per fare alcuni esempi. Il potere: una parola che, seppur chiara etimologicamente, assume un significato ambiguo e complesso e, per questo, attenzionato da studiosi e specialisti di diversi ambiti di studio, a dimostrazione della sua trasversalità. Per esempio il filosofo J. Hillman, ha sviluppato una vera e propria fenomenologia del potere e un’analisi di tutte le sue incarnazioni, restituendocene un quadro caleidoscopico che ci consente di cogliere le dinamiche gerarchiche di dominio che hanno incrementato le disuguaglianze a livello planetario, da sempre. Di grande interesse sono poi gli scritti di George Orwell. In 1984 ecco che cosa l’autore fa dire ai protagonisti: «Come fa un uomo ad affermare il suo potere su un altro?” “Facendolo soffrire” “Esatto; l’obbedienza non basta. Il potere è infliggere dolore ed umiliazione altrimenti non c’è certezza. Il potere è fare a pezzi una mente umana e poi rimetterla insieme nella nuova forma che tu stesso scegli; il potere non è un mezzo, è un fine».[2] Parole lapidarie che si commentano da sole.

Nelle prossime righe intendo proporre solo alcune riflessioni generali stimolate dagli accadimenti odierni e che coinvolgono inevitabilmente anche il mondo dell’Educazione.

Affidiamoci all’etimologia e leggiamo: “Essa è riconducibile direttamente al verbo latino poteo e in particolare ad una forma arcaica dell’infinito posse, che è proprio potēre. Questo semplicissimo termine che indica proprio la capacità di “poter fare qualcosa”, ha assunto nel tempo anche l’accezione di capacità di “imporre il proprio volere a qualcun altro”. Il termine stesso, però, rimanda ad alcune “precauzioni” nell’utilizzo di questa facoltà, infatti la radice “pa-” a cui esso sembra ricondurre, è la medesima che forma i termini “pane” o “padre“, suggerendo un senso di protezione ma anche di dominio, che chiunque abbia responsabilità su qualsiasi cosa o persona dovrebbe bilanciare”.[3]

Ma sappiamo “bilanciare”?è presumibilmente questo il problema! Generalizzando, c’è un potere buono e un altro cattivo, uno positivo e un altro negativo: è una parte costitutiva dell’essere umano, quasi un piacere. “Freud dette al piacere la dignità di Principe del potere, non di Principe delle Tenebre”.[4] Dobbiamo rassegnarci. Gli elementi che lo caratterizzano sono gli stessi per l’uno e per l’altro: la persuasione che implica la seduzione, una leadership efficace, una buona comunicazione, il carisma, l’entusiasmo, il prestigio, l’autorità e/o l’autorevolezza. Ne sanno qualcosa i grandi dittatori – i potenti della terra – che hanno prodotto incalcolabili danni alla umanità ma, per fortuna, disponiamo di altri esempi come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, solo per citarne alcuni, che hanno esercitato il potere della parola, dello sguardo, delle buone idee, dell’etica del vivere, rivolgendo un’attenzione esclusiva agli ultimi, agli etichettati diremmo oggi. Negli uni è cresciuta la fame di potere, negli altri “il potere spirituale […] che è al di sopra del denaro, al di sopra del prestigio e della fama” (Hilman, 2002) e, paradossalmente, predestinati a un’esistenza perseguitata ma mai dimenticata.

La parola “potere” è attraversata da una palese dicotomia: autorità o autorevolezza; controllo o libertà; ambizione o umiltà; carisma o mediocrità e via così. Un’analisi dettagliata di ciascun termine risulterebbe molto interessante e utile ma l’intento dello scritto è la proposizione di riflessioni per tentare di comprendere il nostro sociale contrassegnato, come da sempre, da perenni ambivalenze e forti contraddizioni. Secondo E. Morin, ogni persona, in quanto soggetto ha «due quasi-software in sé. Il primo è un software egocentrico, fondato sul nesso «me-io» che lo situa e lo posiziona nel mondo e gli permette di nutrirsi, difendersi, vivere. Il secondo è il rapporto «noi-tu»: l’empatia originaria, la relazione, un noi dentro il quale l’io può uscire dalla membrana solipsistica e realizzarsi pienamente».[5] Ma gli equilibri sono sempre più fragili, bilanciare è sempre più arduo; pare che ciascuno conduca un’esistenza dentro una bolla ormai disincantata mentre gli eventi che si svolgono a livello planetario sembrano appena sfiorare, privati di quella bella energia che si traduce in operatività e in coscientizzazione. Ci si affida, senza fidarsi, a “poteri governativo – pastorali” (Morin, 2020) che suadenti e seduttivi, non sanno generare processi di autentico cambiamento. Non solo: sembra solidificarsi un certo disamore verso tutto ciò che è cultura, sapere, arte, bellezza: elementi in grado di elevare la persona. Una sorta di magnetismo mediatico catalizza le persone, quasi sottomesse alla dittatura dell’immagine: una condizione, questa, che incoraggia e rinforza chi del potere, quello negativo, si alimenta. Una fetta sempre più ampia della popolazione combatte per la sopravvivenza quotidiana: il lavoro stabile che non c’è, i salari sempre più bassi e incerti che sono solo alcuni dei problemi che alimentano la povertà economica (vedi le ricerche Istat) [6] e, conseguentemente quella educativa.

Ma c’è l’altra fetta di popolazione, quella dell’homo consumens, che soddisfa il suo intimo piacere di potere attraverso una fittizia libertà: quella di poter consumare “se vuole rimanere nella società che si autoalimenta appunto di consumo, per evitare di essere escluso e diventare a poco a poco un emarginato”.[7] Si ostenta una ricchezza che spesso non coincide con quella interiore ma l’ostentarla soddisfa il sottile piacere di poter esercitare un potere: quello di avere per esserci. Gli effetti della forbice sociale che si è allargata e che riguarda una buona parte dei paesi del pianeta sono evidenti, mentre, paradossalmente, si parla fino all’esasperazione di processi di integrazione e di inclusione anche se le disuguaglianze si allargano a macchia d’olio. Sono le contraddizioni che da sempre accompagnano l’agire umano.

Ma qual è il potere buono? In pedagogia si parla di empowerment, ovvero il potere dell’essere, della progettualità, della relazione, della reciprocità, del potere di esistere, di stare dentro al mondo con dignità, di vivere una dimensione di cittadinanza attiva, scoprendo e offrendo talenti e attitudini al servizio di noi stessi e della comunità. “Non è il potere negativo di sfruttamento e manipolazione bensì è un potere positivo che aiuta a crescere e porta al riconoscimento delle proprie potenzialità, di quelle altrui, dell’interdipendenza tra l’io e il tu. È l’affermazione delle modalità dell’essere su quelle dell’avere, è la speranza in un mondo in cui l’uomo può essere molto anche se ha poco”.[8] Lavorare verso l’empowerment non si traduce certo in aspirazione al potere politico o economico bensì in potere di decidere, di scegliere, di andare, di scoprire, di pensare per poter esprimere al meglio possibile la singola e unica personalità senza ledere i diritti di chicchessia. Quando si è protagonisti del proprio cammino, quando si hanno le condizioni per scrivere e realizzare il proprio progetto di vita, quando è dato a ognuno il diritto di esistere, si acquisisce anche la libertà dall’ambizione e dalla presunzione di avere nelle mani le risposte a tutto, si diventa consapevoli che l’apprendimento è per tutta la vita, s’impara a riconoscere le proprie emozioni sapendo che l’esistenza umana è emotivamente tonalizzata (Mortari, 2003), si impara a entrare nella vita con l’etica del limite. Questo è l’empowerment, il compito dell’Educazione che, in un sociale tanto medicalizzato, è stato proprio dimenticato.

Intanto le forme di potere negativo abbondano. Jung scrive: “Dove regna l’amore non c’è volontà di potenza; e dove la volontà di potenza è grande, manca l’amore”.[9] Oggi mancano l’amore, l’umiltà e la benevolenza?

Volontà di potenza e acquisizione di potere personale non sono la stessa cosa. Entrambi i concetti sono dominati dal principio della forza, ma in modo diametralmente opposto. C’è una forza che implica il coraggio, termine che rimanda al cuore, ed è quella che permette di affrontare il dolore, la paura, di superare gli ostacoli, di assumere l’assertività (che non è aggressività) per comunicare e mettersi positivamente in relazione, di agire con amore e rispetto. C’è un’altra forza che implica il potere di potere, fosse anche necessario usare violenza fisica e/o verbale e l’aggressività, o la volontà di dominio sull’altro. La storia dell’umanità è ricca di esempi in questo senso: non abbiamo imparato nulla dal passato che si ripete inesorabile anche attraverso la parola. È sempre la parola, dell’uso che ne si fa e dei significati che le attribuiamo secondo le personali biografie ed esperienze, a dare un senso alle cose; così anche la parola “potenza” si presta a più significati[10] perché ogni parola è un mondo da esplorare. Si parla di potenza militare, economica, politica e via dicendo. Ma, per Aristotele, per esempio, la potenza è la capacità di produrre cambiamento e riguarda il divenire dell’essere. Bisogna adottare uno sguardo ermeneutico, che fa capo alla scienza e/o arte dell’interpretazione, per comprendere fino in fondo i conflitti relazionali causati dall’uso distorto delle parole visto che loro, le parole, sì che hanno potere! Ciascuno è le parole che usa. In un sociale dominato dal predominio dell’immagine nell’era dell’homo videns, dalla compulsione narcisistica, da una mancanza di cultura nel senso più profondo di sapere, le parole hanno perso bellezza e pregnanza e la comunicazione si è inaridita, superficializzata, dominata dalla retorica e dal conformismo. L’etimologia… una sconosciuta. “Padroneggiare la lingua nella sua storicità e non possederne solo la scorza ha dei precisi vantaggi. Chi acquisisce una forma mentis etimologica comprende che attribuire a qualsiasi parola un solo significato è nel migliore dei casi limitativo… L’etimologia è simile alla poesia perché ci fa accedere a un senso pieno e complesso che, altrimenti, nella frenesia della comunicazione, sarebbe destinato a sfuggirci […]”.[11] Preoccupa non poco l’aumento della curva verso una certa regressione intellettuale, verso un pensiero unico e omologato  che rischiano di provocare una totale atrofizzazione del pensiero; l’informazione manipolata[12], i toni propagandistici, l’uso distorto e i significati non condivisi delle parole, non fanno che incrementare la decadenza del pensiero e, conseguentemente, la pericolosa involuzione dell’agire umano. Basti pensare alla moltiplicazione dei reati di femminicidio, di bullismo, di stupro cui si assiste che rimandano a un’acquisizione di potere dell’uno sull’altro, un Altro generalmente più debole: fatti che suscitano orrore e paura e… distanziamento emotivo.

Eppure la distorsione interpretativa della parola “potere” si palesa già nella prima esclusiva relazione educativa tra bambino e figura di riferimento: la madre che educa all’autonomia e alla libertà il proprio bambino e la madre che toglie il respiro, per eccesso d’amore, perché non ha fatto ancora pace con sé stessa, strumentalizzando -inconsciamente- la condizione di dipendenza del bambino, come nel caso della sindrome di Munchausen per procura, “una grave forma di ipercura per cui il bambino è sottoposto a continui e inutili accertamenti clinici e cure inopportune conseguenti alla convinzione errata e delirante del genitore che il proprio figlio è malato”.[13] È poi nota la teoria dello sviluppo psicosociale di E. Erikson, che indica quanto la fiducia o la sfiducia, l’autonomia o la vergogna, si facciano strada proprio nella prima e seconda infanzia segnando la vita della persona che si farà adulta. Non è forse la manifestazione di un potere esercitato dall’adulto di riferimento?

In ogni relazione educativa, che sia parentale o che sia scolastica, amicale o professionale, viene agito un potere. Il potere è una realtà oggettiva. La domanda che ciascuno dovrebbe imparare a porsi, costantemente, è: di quale forma di potere mi servo?

Le in-coerenze, le contraddizioni e incongruenze, forse inconsapevoli, del nostro agire adulto/educativo sono numerose e sono frutto di una speciale e unica biografia. Il compito di riconoscerle e di liberarsene è tutt’altro che facile. Solo l’Educazione può venirci in aiuto, ovvero quel delicato e complesso compito di autoconoscenza, di autovalutazione continua, di autoeducazione, di riflessività, di approccio ermeneutico a partire dalle parole che ogni giorno, ogni attimo, percorrono le nostre vite. Un processo verso la com-prensione di quanto vive dentro e intorno a ciascuno di noi. Ciò richiede tempo per “fermarsi a pensare attorno a ciò che si vive concretamente, mettendo al centro le contraddizioni vissute e i sentimenti che le accompagnano. Fermarsi a interrogare la propria esperienza, a interpretare quello che accade e metterlo in parola è la chiave di accesso alla comprensione […]”.[14] Non è semplice in questo presente frenetico, burocratizzato, imprenditoriale e altamente competitivo dove il protagonismo attivo e democratico è stato frainteso con il  narcisistico apparire (che, ahimè, ha paradossalmente le sue ragioni: non S-comparire), anche con la forza se necessario; l’umiltà e la mitezza sono considerate mere forme di debolezza e di fragilità che non fanno che alimentare il potere del potente. Il bullo non sceglie una vittima di pari forza, chi commette uno stupro individua una vittima percepita come “debole”. “Dal primo gennaio al 23 luglio 2023 sono stati registrati 184 omicidi, con 65 vittime donne, di cui 52 uccise in ambito familiare o affettivo. Di queste, 31 hanno trovato la morte per mano del partner i dell’ex. (È quanto emerge dall’ultimo report del Viminale, 29 luglio 2023)”. Inquieta e preoccupa la crescita del fenomeno. Il potere dell’immagine e della parola distorta, il falso buonismo dei commentatori e opinionisti che invadono la comunicazione pubblica, l’inerzia delle istituzioni, hanno delle responsabilità? Quali?

Intanto fioriscono le iniziative di assistenza, supporto, sussistenza e solidarietà, a opera per lo più del terzo settore, mentre aumentano le categorizzazioni di buona parte della popolazione: i fragili, i soggetti a rischio, nelle scuole i BES, ovvero gli alunni con bisogni educativi speciali, i migranti, gli stranieri, i vulnerabili, gli anziani, i disabili, i senza fissa dimora: di quale potere godono queste persone? Di quale autonomia e/o autodeterminazione parliamo? Visto l’aumento di poveri impegnati a barcamenarsi per sopravvivere, delle diagnosi che demoliscono e frustrano il potere di esserci e di esistere con dignità, la povertà educativa cresce a vista d’occhio. Siamo molto lontani dalla comprensione antropologica che “porta in sé la coscienza della complessità umana” (Morin, 2015). L’unico potere che possa dare e avere senso nel nostro presente è il potere dell’Educazione; ma “chi educherà gli educatori?” Questo è un altro dilemma.

Bisogna imparare a distinguere e a scegliere buone pedagogie, libere da retorico pedagogismo; a liberarsi di una forma mentis tesa a medicalizzare ogni re-azione a eventi e questioni da affrontare, invece, con lucida consapevolezza; è necessario ricominciare dai bambini, coinvolgere positivamente e attivamente le famiglie in sinergia con gli insegnanti, anche se è faticoso, anche se accade di sbagliare, perché è l’erranza che insegna a vivere, a stare nell’incertezza, a trovare la strada migliore per non dover sopravvivere soltanto, anestetizzati. Ma scuola e famiglia non bastano: occorrono il “villaggio”, un processo di ri-educazione epocale e com-plexus, visto che “i problemi di fondo – i metaproblemi – sono globali ed essendo globali non ammettono soluzioni locali”.[15] La politica, l’arte di governare gli stati, deve ri-scoprire il potere della buona e autentica democrazia, che implica il rispetto verso ogni persona, il coraggio come cuore, l’entusiasmo del Noi, la bellezza, la coscienza, il protagonismo e la cittadinanza attiva, la dignità e la ri-conoscenza verso ogni persona, il rifiuto di un bieco individualismo sapendo che lo sviluppo non è sfruttamento, la crescita non è espansione a scapito di altri.

Educare, educazione, educato. C’è molto, moltissimo lavoro da fare, un’imponente opera di ri-creazione e di ri-vitalizzazione sociale. La speranza è l’utopia pedagogica che muove dall’esigenza di un cambiamento radicale della società, che implica la tras-formazione del pensiero e del modo di stare dentro l’esistenza, che richiede la capacità di pensiero critico per ri-pensare la vita stessa e le sue relazioni, che consente di liberarsi dal pensiero distopico. È un sogno tutto ciò? Ma senza sogni non c’è, e non ci saranno, né vita, né storia. Af-fidarsi all’Educazione può salvarci.

6 ottobre 2023


[1] BOBBIO N., Elogio della mitezza, Milano 2006, p. 40

[2]Tratto da “Orwell 1984”, regia di Michael Radford, anno 1984; basato sul romanzo “1984” di George Orwell e pubblicato nel 1949. https://www.youtube.com/watch?v=xi0nLJ0UBSs

[3] https://www.etimoitaliano.it/2015/02/potere.html

[4] HILLMAN J., Il potere, Milano 2003, p. 234

[5]MORIN E., La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà del mondo, AVE ed., Roma, 2020

[6] www.istat.it/it/files/2022/06/Report_Povertà_2021_14-06.pdf

[7] BAUMAN Z., Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Gardolo (TN) 2007, p. 102

[8] SIMEONE D., La consulenza educativa, Milano 2002, p. 97

[9] HILLMAN J., Il potere. Come usarlo con intelligenza, Milano 2002, p. 131

[10] Dal lat. potentĭa(m), deriv. di tens –ĕntis ‘potente’, forza, energia, efficacia.

[11] BALZANO M., Le parole sono importanti, Milano 2019, p. X

[12] Interessante la lettura del saggio: ORWELL G., Il potere e la parola, Prato 2021

[13] https://aipgitalia.org/wp-content/uploads/2008/10/bottiglieritesina.pdf

[14] MORTARI L., Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci, Milano 2003, p. 98

[15] BAUMAN Z., Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Roma 2008, p. 27