Da sempre, se chiedete agli italiani quale sarebbe per loro il Partito ideale, quasi tutti vi diranno: quello socialista, espressione di un socialismo immaginario, mai esistito, che fa il paio con il Cristianesimo, anch’esso sempre invocato, il più delle volte in antitesi con la Chiesa.

Dunque, la “chiesa socialista” oggetto di tante speranze, qualche errore deve averlo commesso, se non come istituzione, certo per i suoi  uomini più rappresentativi.

In due parti cercherò di esprimere glorie e miserie di due socialisti che, a mio parere, furono i più rappresentativi: Filippo Turati e Pietro Nenni, naturalmente non dimenticando l’ombra, ma solo l’ombra, del terzo: Bettino Craxi.

Parte prima

Il Socialismo democratico nel mondo non gode di ottima salute, nella fattispecie quello italiano è un caro estinto. La cosa è singolare, poiché la fine del Comunismo poteva aprire una prateria e invece regna il deserto. Quali le cause?

I miei amici reduci del cosiddetto “glorioso”, sono convinti che il decesso sia stato causato da una congiura a più mani, realizzata tramite la magistratura rossa e questo, tutto sommato, è anche vero, perché il sistema truffaldino per finanziare la politica e i politicanti era assai diffuso, tanto che i socialisti ebbero la visibilità dei parvenu, ma non certo il monopolio tangentizio.

Al netto delle disonestà personali (non penso sue), l’errore di Craxi fu quello di voler competere alla pari con il business della DC e del PCI, approfittando del suo ruolo di ago della bilancia, che per un certo numero di anni consentì al PSI di essere centrale ai due Partiti che, fino agli anni 60, monopolizzarono la maggioranza e l’opposizione.

Va detto che il primo Centro Sinistra, quello di Nenni e poi di De Martino, era talmente impegnato a far passare quelle che considerava, a torto o a ragione, riforme di struttura, convinto che il consenso sarebbe arrivato motu proprio.

Fu con la segreteria di Craxi che il partito fece un salto di qualità sul piano del potere, dopo aver preso atto che il riformismo in Italia, poco pagava. L’ingresso del terzo incomodo fece saltare il banco e con esso, in seguito, la prima Repubblica. Oggi si tende a dare al periodo craxiano un ruolo decisivo nelle fortune e sfortune socialiste, ruolo che, a mio parere, ha avuto solo in minima parte.  I 130 anni di storia socialista sono pieni di luci ed ombre, un fatto è certo, dal 1892 fino alla sua caduta, quel partito è sempre stato un passo indietro rispetto all’evolversi della società italiana.

Cercherò di motivarne le cause.

Nel 1945, nell’immaginario collettivo degli italiani non c’erano i Comunisti, anche se avevano lavorato bene nella Resistenza, grazie a capi che si erano formati nella scuola leninista prima, e staliniana dopo, sempre allineati alla strategia russo centrica di tutti i partiti Comunisti europei.

Una classe dirigente coesa, in grado di contare su una macchina propagandistica di prim’ordine.

Il 18,93% dei voti conquistati dal PCI nel ‘47 alle elezioni per l’Assemblea Costituente, fu un vero miracolo o piuttosto, l’inizio della débâcle socialista. Il 20,68% del PSIUP, come allora si chiamava il PSI, poteva rappresentare un buon risultato, ma non lo era affatto rispetto a quello del PCI che nelle ultime elezioni, prima dell’avvento del fascismo, prese poco oltre il 4% rispetto al 20% dei socialisti, che pure avevano quasi dimezzati i voti del ‘19 (32,28% ). Dal momento che i popolari avevano conservato il loro 20%, sicuramente si assistette ad un travaso di voti verso il listone dove c’erano anche i fascisti. Dopo l’avvento di Mussolini, per il PCI le cose con un 3,4%, non andarono certo meglio; il PSI dal canto suo si era ulteriormente indebolito con un 10% dei suffragi.

Al netto del clima di violenze se può essere giustificato il 10% del 23, la vera débâcle fu il 20% del 1921, dove in meno di due anni i socialisti persero il 15% dei consensi. Quali le cause?

A mio parere sostanzialmente una: il massimalismo che fu una sorta di marxismo a chiacchiere che impedì uno sbocco riformista, prima, per non aver colto la novità dell’era giolittiana poi, nel ‘19 dopo il successo elettorale, non aver colto la novità dell’exploit dei Popolari.

Questa analisi sul voto degli Italiani a sinistra, è propedeutico a identificare gli errori socialisti dalla fondazione fino a quel 1925, vero inizio del regime fascista. E poi, dal ritorno della democrazia fino a “mani pulite”. Sarebbe superficiale, sostenere che le responsabilità furono solo dei massimalisti dal momento che i riformisti furono maggioranza per un ventennio. Per capire i limiti del riformismo, a mio parere, occorre inquadrare quel 1892, data della fondazione socialista.

L’Italia era un Paese eminentemente agricolo dove dominava il latifondo, la rivoluzione industriale era in forte ritardo rispetto a Inghilterra, Francia e Germania, per non parlare degli Stati Uniti. Se Marx, invece che tedesco fosse stato italiano, difficilmente avrebbe partorito la teoria che porta il suo nome. Il primo Socialismo Italiano è tutto intellettuale, più che nelle campagne o nelle fabbriche, nasce nelle Università, al primo Socialismo umanitario alla De Amicis, si sostituì quello degli avvocati e dei professori che appartenevano a quel 3,5% di elettori che avevano diritto al voto.

Chi furono i socialisti del ‘92?

Organizzatisi in partito nel 1892, questo assumerà il nome di Partito Socialista solo nel ’94, in ritardo rispetto agli omologhi europei. I suoi fondatori sono quasi tutti di origine borghese: Andrea Costa è un professore di lettere che si è laureato con il poeta Giovanni Pascoli. Filippo Turati, Leonida Bissolati, Claudio Treves e Enrico Ferri sono avvocati. Quest’ultimo, brillante criminologo, fu allievo di Cesare Lombroso. Borghesia intellettuale quindi, interprete del ribellismo ancora spontaneo delle classi più disagiate. Questo primo socialismo sperimentò la repressione dei governi umbertini pur maturando nelle sue componenti più moderate, e in sintonia con le correnti riformiste europee, concetti di gradualismo. Secondo schemi internazionali, anche quel socialismo è diviso tra rivoluzionari e riformisti. Il sesto congresso del partito (il primo dopo le persecuzioni, la chiusura dell’«Avanti!», gli arresti ecc.) fu presieduto da Andrea Costa. C’erano: Filippo Turati, Leonida Bissolati, Anna Kuliscioff per l’ala riformista. Enrico Ferri capitanava il gruppo intransigente. Le due anime del socialismo inizieranno un confronto-scontro che durerà per tutto il Novecento, lasciando propaggini e incrostazioni anche in questo XXI secolo. Nel settimo congresso socialista, a Reggio Emilia, la musica mutò. Si ebbe una lotta accanita tra la tendenza riformista, capitanata principalmente da Turati, Treves, Bissolati, Prampolini, e quella rivoluzionaria capeggiata da Enrico Ferri e Arturo Labriola. Delle due tendenze riporto la sintesi che Bonomi presentò per gli atti del congresso: “La tendenza rivoluzionaria astrae quanto più è possibile delle varie, mutevoli condizioni dell’oggi per predicare instancabilmente le conquiste definitive del domani, la tendenza riformista si preoccupa invece di agire nelle condizioni odierne per farne una preparazione delle vittorie future.

Difficile, negli anni che verranno, esprimere una sintesi così stringata delle due anime socialiste. Il congresso, a grande maggioranza, respinse l’ordine del giorno dei rivoluzionari e approvò quello dei riformisti presentato dal Bonomi, nel quale – dichiarando incompatibile l’esistenza di due tendenze distinte, basate su differenze sostanziali – si approvava l’azione del gruppo parlamentare, che fino ad allora aveva appoggiato il ministero Zanardelli, e si vedeva nella riaffermata unità del partito “l’inizio di un’era nuova più feconda per la propaganda e l’organizzazione socialista”.

Sostanzialmente le divisioni dei socialisti italiani ricalcavano quelle europee, affermatesi per la prima volta in Germania ad opera di Bernstein (riformisti) e Kautsky (massimalisti). Nonostante le differenze strategiche, tuttavia, la divaricazione delle tesi non era ancora netta come avverrà in seguito. Entrambi in qualche modo si ispiravano a Marx. I riformisti si proclamavano marxisti citando il filosofo ebreo quando ne Il Capitale sostiene la necessità di non rompere con le forze democratiche. I massimalisti colsero gli aspetti più rivoluzionari del filosofo e, pur accettando le regole della battaglia parlamentare, respingevano il gradualismo riformista, volendo “tutto e subito”. Strano destino, quello di Marx. Sarà oggetto per tutto il Novecento di dispute ideologiche in famiglia, ognuno cercherà di dimostrare con la frase: «Come giustamente ha detto il compagno Marx…» le proprie convinzioni dottrinarie. Pochi a sinistra, anche tra i riformisti, ammetteranno per troppi anni che il filosofo molte cose non le azzeccò

Giraudo, Tito. La fabbrica di mattoni rossi (Monografie) (Italian Edition) . Conti Editore.

Questa, la cronaca succinta di quei primi anni, soprattutto la tipologia dei dirigenti.

Pur nelle divisioni tra riformisti e rivoluzionari, sostanzialmente non venne mai messo in discussione il fine e cioè: il Socialismo marxista. La figura emblematico di questo Socialismo, nel bene ma anche nel male, fu Filippo Turati.

Figlio di un alto funzionario statale, avvocato, frequentò gli ambienti politici progressisti e radicali. La svolta marxista coincise con il rapporto con Angelica Kulishoff, già moglie di Andrea Costa. Donna di grande carattere fu probabilmente determinante nell’orientamento socialista di Turati.

La coppia visse a Milano dove fecero nascere la rivista “Critica sociale”; il loro salotto in “Galleria” sarà ritrovo dell’intellighenzia progressista dell’epoca. Turati fu un personaggio complesso, soffriva di depressione anche se mitigata dalla presenza della compagna che tuttavia non riuscì mai a fargli superare del tutto. Fu il leader incontrastato della corrente riformista fino alla svolta massimalista del 12. Oggi, superficialmente si tende sostenere che fu un socialdemocratico, non è così, perché all’epoca all’interno del PSI, le posizioni autenticamente socialdemocratiche furono quelle che assunsero Leonida Bissolati ed Ivanoe Bonomi, non alla fondazione ma in un secondo tempo.

La via riformista del PSI non escludeva assolutamente che il fine fosse il Socialismo marxista, mutava solo la tattica che si discostava da quella degli Intransigenti, e degli astensionisti elettorali.

Va detto che mentre non esistevano modelli di società socialiste, se i nostri politici socialisti avessero varcato l’atlantico e visto ciò che succedeva negli States, o senza allontanarsi, analizzare i cambiamenti della società inglese, probabilmente un’intelligenza come quella di Turati avrebbe maturato una concezione dottrinaria diversa.

Fu Leonida Bissolati l’uomo della svolta socialdemocratica che avvenne nel 1812, quando al congresso socialista fu cacciato assieme a Bonomi ed altri. In quell’occasione Turati pur difendendo Bissolati, non riuscì ad imporre il suo prestigio di fronte al comiziaccio di un Mussolini segretario della federazione di Forlì, che infiammò gli animi di una platea avvezza al tifo più acceso. Eppure, Turati aveva colto l’avvento di Giovanni Giolitti che proprio in quell’anno si apprestava a varare quel suffragio universale (per soli uomini) che segnerà le provvisorie fortune elettorali socialiste e le sfortune liberali (definitive).

Se Turati avesse immaginato che il suo gruppo non avrebbe mai più avuto la meglio sui massimalisti e che poi il Partito avrebbe cacciato pure lui nel ‘22, forse la storia del PSI sarebbe stata diversa. Molti socialisti non capirono di che pasta era Giovanni Giolitti che io considero, con Cavour, gli unici grandi statisti di questo Paese.

Nei suoi confronti Turati fu ondivago, accettò di collaborare ma poi si ritrasse.  La Presidenza Giolitti coincise  con l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III, avvenuta dopo l’attentato a Re Umberto. Sovrano ben diverso dal padre e dal nonno (checché se ne dica), in tandem con Giolitti cambiarono l’atmosfera del Paese, ancora fresco delle cannonate umbertine del Beccaris. Giolitti, di fronte alle lotte operaie e contadine, tenne ben altri atteggiamenti. Nel contempo, mutato il clima, i socialisti conquistarono addirittura il Comune di Milano. Quello poteva essere il momento in cui un vero socialismo riformista avrebbe potuto competere. Chi meglio di Turati poteva interpretare quel ruolo?

Per la verità si aprì un mezzo dialogo tra Turati e: “l’uomo di Dronero”, nel frattempo l’aria nel Partito spirava nella direzione del massimalismo forse anche per limiti organizzativi del nostro, sta di fatto che anche se non sempre per colpa di Turati, in quanto Giolitti ci mise del suo, la collaborazione morì ancora prima di nascere. Anche sull’interventismo Turati dimostrò indecisione.  Non che non fosse neutralista ma di fronte all’approssimarsi del conflitto, dopo il voltafaccia italiano in direzione della Triplice Intesa (il ché voleva dire schierarsi con le democrazie per imperfette che fossero), piuttosto che con gli Imperi centrali e quell’Austria che avevamo combattuto prima dell’Unità.

La svolta italiana fece scoppiare, a destra un acceso nazionalismo ma anche a sinistra pose più di una crisi di coscienza, due mondi si scontravano e una parte, anche se minoritaria della sinistra, pensava si dovessero sostenere due Paesi progressisti come Inghilterra e Francia.

A sinistra, il caso più eclatante fu quello di Mussolini allora direttore dell’Avanti su posizioni massimaliste, ma anche dei socialisti rivoluzionari e degli anarcosindacalisti. Posizioni che furono considerate dal partito un tradimento e che portarono all’immediata cacciata di Mussolini dal partito e dall’Avanti. Questa intransigenza socialista che durò fino a Caporetto, fu un fatto tutto italiano in quanto le sinistre degli altri Paesi belligeranti sostennero lo sforzo patriottico.

Turati in quell’occasione, pur non rinunciando al suo neutralismo avrebbe potuto mitigare posizioni di cieca intransigenza che saranno pagate care nel dopo guerra.

Mi pare indicativo ciò che scrisse Camillo Olivetti sul settimanale “Tempi Nuovi” di Turati:

Filippo Turati

Conosco Turati da trent’anni e gli sono amico. È una brava persona, il che, trattandosi di un uomo politico, non è piccolo elogio. Non è uomo di azione: in lui lo spirito critico predomina e senza renderlo scettico, lo rende qualche volta perplesso nelle decisioni e gli fa piuttosto preferire le soluzioni dilatorie a quelle risolutive. Se non fosse stato così nel marzo del 1894, dopo le giornate di Adua, e forse sulle prime giornate di maggio del 1898 avrebbe potuto promuovere un moto che avrebbe portato a profondo rivolgimento politico e sociale (più politico che sociale) nel Paese, moto che, io credo sarebbe stato allora salutare. Invece ebbe paura di assumersi una responsabilità e nicchiò quando sarebbe stato necessario essere pronti e audaci: alla folla che domandava la parola eccitatrice e guidatrice egli preferì rivolgere la frase dilatoria che non fu sufficiente a trattenere l’impeto, ma ne smorzò il vigore si da impedire una possibile vittoria, dar agio alla reazione di trionfare se pur per breve tempo. Così tutta la sua tattica in relazione con le tendenze e con l’azione del partito socialista è improntata ad un’indecisione che è in fondo dovuta al suo animo intimamente onesto e non settario, come quello della maggior parte dei suoi colleghi, ma che lo rende inadatto a capeggiare un partito che, come è stato e condotto e reclutato in questi ultimi anni, deve essere un partito di azione e forse di rivoluzione se vuol vivere. La sua azione come uomo parlamentare è stata nefasta: di lui si può dire il contrario di quello che Goethe fa dire a Mefistofele: “Egli è l’uomo che pensa il bene e fa il male”. Le provvidenze da lui escogitate in favore dei postelegrafonici, certamente ispirate al concetto di assicurare a questi addetti ai pubblici servizi una vita decente che avrebbe dovuto servire a migliorare il servizio, per errori nei quali non sarebbe incappato se avesse avuto più conoscenza degli uomini e dell’industria, ottennero invece l’effetto di abbassare enormemente il rendimento degli impiegati e furono una delle cause del marasma di cui è afflitto questo importante servizio […]. L’ultimo passo al Quirinale, per chi conosce del Turati l’animo alieno da basse ambizioni, sa che deve essergli costato non poco sacrifizio, ma non so quale ne sarà il risultato. Il primo sarà certamente quello di farlo mettere all’indice sovra tutto da quelli dei suoi compagni che si ripromettevano i più grandi benefici personali e di partito, se egli avesse preso parte a un ministero. Io giudico il Turati certamente un uomo di grande ingegno, grande coltura e animo retto, ma mancante di energia e capacità di coordinare il fine che si propone, ai mezzi e agli uomini che si hanno a disposizione ed all’ambiente in cui si opera.

Evidentemente Camillo, stimava l’uomo e l’intellettuale, meno il politico.

Nell’immediato dopo guerra, vennero al pettine tutti i nodi del Paese che pur essendo tra i vincitori aveva dimostrato impreparazione e approssimazione, sia militare che nella gestione dell’economia di guerra. Un partito socialista dialogante con gli ambienti interventisti progressisti avrebbe evitato il saldarsi di questi, con il nazionalismo più retrivo e la conseguente nascita del Fascismo.  Anche in questo caso Turati, ormai fortemente indebolito come componente riformista, non seppe cogliere l’occasione alle elezione del ‘19, quando Bissolati e Bonomi promossero l’Unione Socialista Italiana, di trarre il dado e lasciare un Partito ormai appiattito sul leninismo.

Nel ‘22, subirà l’onta di essere cacciato da quel Partito che aveva fondato.

La seconda figura emblematica del PSI è quella di Pietro Nenni. Di Forlì come Mussolini, politicamente nasce Repubblicano, i rapporti con il futuro Duce saranno altalenanti, prima avversari, poi amici allorché in carcere finiranno nella stessa cella, poi di nuovo nemici quando Nenni, giornalista dell’Avanti non aderirà al nascente Fascismo.

Eppure la possibilità che Nenni potesse prendere l’altra strada non è da escludersi.

Rientrato dal fronte nel ‘19, Mussolini promosse i “Fasci di combattimento”, eredi diretti dei Fasci di azione rivoluzionaria del ‘14 che furono espressione delle sinistre interventiste, a cui aveva aderito anche Nenni. Ancora una volta Nenni darà credito al suo amico Mussolini, aderendo, salvo poi allontanarsi quando l’asse politico dei Fasci virerà in altra direzione con la nascita del Movimento Fascista.

Fuori dall’impegno politico tornò al giornalismo fintanto che Serrati, l’allora direttore dell’Avanti, non gli proporrà di entrare al giornale socialista. Dopo di ché si iscriverà al Partito Socialista.

Divenuto un dirigente, ebbe posizioni altalenanti. Nel congresso del ‘22 non seguì i riformisti espulsi dal Partito. Quando Mosca premette perché si realizzasse la fusione tra PSI e PCI, ci fu la divisione tra fusionisti e autonomisti. Nenni, da poco rientrato da Mosca, non ebbe esitazioni nel capeggiare la corrente autonomista, forte del prestigio che gli dava l’Avanti, di cui diventerà direttore dopo Serrati (e Mussolini), vincerà il Congresso non evitando però l’ennesima scissione poiché molti fusionisti lasciarono il Partito. Il Pietro Nenni, fino alla Liberazione fu un politico tormentato che sovente cambierà opinioni, nell’ ultimo congresso in Italia, promuoverà il rientro dei riformisti di Turati nel Partito, questa volta venne messo in minoranza, con la conseguenza che lascerà la direzione dell’Aventi e lo stesso Partito.

Ormai a tutti i dirigenti della sinistra, persa la battaglia dell’Aventino (o sarebbe meglio dire la non battaglia), non restò che l’esilio.  

Nenni, in Francia, con Carlo Rosselli fondò la rivista “Quarto Stato”, solo più tardi rientrerà nel Partito. Del Nenni nell’Italia Repubblicana scriverò nella seconda parte dell’articolo.

Tito Giraudo