Il pensiero umano tende da una parte ad allacciarsi al passato, agli schemi già precostituiti, alla memoria semantica, alla cultura, alle idee altrui. Dall’altro lato ha una tendenza innata a costruire nuovi concetti. Il bambino impara dai genitori un modello, poi dà un apporto personale divenendo con il tempo un individuo. Secondo questo modello, regressivo e prospettico allo stesso tempo, si spiegano comportamenti umani quali la fusione psichica in un gruppo e l’apporto personale entro lo stesso. Noi tendiamo ad uniformarci agli altri senza perdere del tutto la nostra originalità. Sempre per questo il fenomeno religioso sta in bilico costantemente tra passato e innovazione. Ogni religione ha elementi che si richiamano alle dottrine e alle prassi precedenti ma cercano sempre di svilupparle nel tempo, in un modo o nell’altro.
È significativo che la filosofia greca antica nasce ai primordi in stretta connessione con il pensiero intuitivo e magico-sacrale (Eraclito aveva uno stile oscuro perché cercava di imitare l’oracolo di Delfi), poi soprattutto con Platone e Aristotele si sgancia da questa linea e diventa più razionale per concludere il suo ciclo nell’ellenismo, quando ritorna alle origini intuitive. Infatti, la filosofia greca ellenistica molte volte diviene una forma di magia, quando rinasce come teurgia, cioè evocazione delle divinità entro oggetti (telestikē) o entro la persona del mago.
L’approccio religioso è un tentativo dell’uomo di congiungersi qui sulla terra a quel Principio dal quale proveniva. Le varie credenze e i vari atti di culto altro non sono che un ritorno ma innovativo a quel passato nel quale eravamo con quel Grande Essere che molti chiamano Dio. In ebraico si parla di korbanot, ma non andrebbero intesi propriamente come “sacrifici” quanto come tentativi di avvicinamento a Dio. Corano 2, 156: “A Dio apparteniamo e a Lui facciamo ritorno”. Per la riflessione musulmana, la vita è ‘ibada, vale a dire un atto di omaggio a Dio, al quale dobbiamo devozione e servizio, incontrandolo in ogni circostanza dell’esistenza. Nell’induismo il tempio è mandir, “casa”, in quanto vi è l’incontro la divinità a cui è dedicato e il fedele, infatti in esso vi è la immagine, murti, del dio.
Dio e la figura materna sono al nostro inizio. Dio si trova in quella nebbia che sta prima di ogni nostro ricordo nitido, come voleva Agostino, invece la madre sta in quello spazio fusionale nel quale ci identificavamo totalmente con essa prima di iniziare a separarci gradualmente. La nostalgia di Dio sta alla base del senso religioso, invece la nostalgia della madre sta alla base dell’essere dei filosofi. Ma l’uomo si staglia creativamente da questi inizi elaborandoli in chiave soggettiva: pertanto esistono molte fedi religiose e molte idee di essere, da quelle dell’uomo comune a quelle dei filosofi di professione.
Una volta si dimostrava l’amore per il nostro Principio studiando a memoria i testi sacri. Oggi la cosa va sempre più scemando, ma non sempre: gli imam continuano a imparare a memoria il Corano. In ebraico la radice ZKR, “ricordare”, dà il numero 227, mentre SKH, “dimenticare”, dà il numero 328. Tra queste due quantità c’è la differenza di 101 unità. In un passo del Talmud babilonese si dice che chi fa il proprio dovere deve studiare i precetti dei padri ben 100 volte (per impararli a memoria), invece chi serve Dio, cioè fa più del proprio dovere, deve studiarli 101 volte. I cabalisti insegnano che nella Parola di Dio (Torah scritta e Torah orale) non vi sia nulla di casuale.
Gli ebrei sentivano questo amore per Dio talmente visceralmente che aborrivano ogni forma di idolatria. Il culto va dato solo al Dio biblico! Il re babilonese Nabucodonosor aveva fatto costruire una statua d’oro e aveva fatto venire i notabili “alla inaugurazione” (Daniele 3, 3: nell’originale aramaico abbiamo il sintagma la-channukat). Ma la radice semitica del sostantivo channukat è sacra per l’ebraismo, indica la dedicazione del Tempio di Gerusalemme, donde la omonima festa ebraica detta Channukah. Quindi sottilmente l’autore del libro di Daniele voleva far passare l’idea che Nabucodonosor era un grande idolatra in quanto inaugurava una statua anziché dar lode all’unico Dio.
L’immaginazione è collegata con la fede religiosa e con la filosofia. Fede e filosofia sono idee che risentono del passato, cioè della tradizione, ma spesso vengono cambiate dai grandi maestri, che danno sempre nuove luci per comprendere il passato in vista del presente, e viceversa. L’immaginazione è una capacità umana prodottasi filogeneticamente (lungo l’evoluzione della specie) innanzitutto per capire meglio i pericoli (se li immaginiamo, sappiamo meglio cosa aspettarci e quindi programmiamo i comportamenti adeguati). Oggi la società non dà grande peso alla immaginazione, ma i suoi vantaggi sono innegabili:
- Prevede;
- Aggancia;
- Sostiene;
- Condensa;
- Muove;
- Crea;
- Espande;
- Racconta;
- Manifesta.
In definitiva, le nostre azioni e i nostri comportamenti sono il risultato delle antiche esperienze sensomotorie collegate alle emozioni, alle sensazioni e alle continue interazioni con l’ambiente.
Esiste un nesso innegabile tra immaginazione e emozione. Una emozione ha risonanza in noi dapprima inconsciamente e poi tramite una immagine mentale. Il nostro mondo immaginale o “vissuto catatimico” (Leuner) di ogni soggetto si esprime per una rete immaginativa continua.
Ma noi, dopo aver sentito emotivamente e poi immaginato, colleghiamo dei pensieri razionali a questo mondo intuitivo. Per questo gli uomini possono morire per una idea, per una fede, per la politica, per i valori. Ci sono persone che attratte dalla vita religiosa vivono come in carcere per il resto dei loro giorni. Altre insegnano agli altri le proprie verità andando in missione in parti sperdute del mondo. In questi fenomeni sociali, più numerosi di quanto di solito si creda, l’individuo non è attratto solo dalla verità ma è scosso dall’amore verso quella verità. In questa persona l’idea razionale è collegata al proprio vissuto emotivo e immaginativo. Nella sua Prima Lettera (1, 8) Pietro dice di Cristo: “Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui”.
Abbiamo molte manifestazioni religiose quanti sono gli individui. Non c’è un solo modo di incarnare una singola religione. Certamente nelle varie religioni ci sono molti elementi in comune, dipendenti probabilmente da un unico archetipo inconscio. In Giappone i monasteri sono costruiti spesso attorno ad alberi nei quali si era manifestata una divinità. Anche oggi la Madonna o gli altri santi appaiono a volte sopra alberi. Nell’antica Grecia era la stessa cosa. In Euripide (Elena, al verso 1107) compare una espressione greca, dendrokomois, “boscosi”, attestata una sola volta n tutta la sua produzione, e in altri autori solo in Aristofane. Euripide si sta rivolgendo all’usignolo che abita nei boschi. È un topos letterario: nei boschi vi erano le muse, protettrici del canto, alle quali allusivamente Euripide chiede l’ispirazione.
Ma ogni vero credente, quasi in maniera paradossale, se sente veramente la religione, la deve vivere in maniera individuale, seppure entro certi schemi. Nel tempio di Shaolin vi erano tante religioni quanti erano i monaci che vi abitavano. Per Pier Damiani, secondo una linea di pensiero che affonda le radici in Evagrio Pontico, nella chiesa tutti non possono fare tutto: il monaco ha il carisma di allontanarsi perfettamente dal mondo e, seguendo questa vocazione individuale, cioè essendo pienamente sé stesso, non fa che lavorare per la chiesa tutta. Il santo camaldolese Paolo Giustiniani diceva che il monaco, estraniandosi da tutto per amare perfettamente solo Dio, alla fine ama anche il prossimo.
Per questo all’inizio del cristianesimo, quando i cristiani venivano martirizzati spesso, fiorivano continuamente le eresie. Una delle più estese era l’arianesimo, che vedeva nel Figlio una natura subordinata a quella del Padre (addirittura per Eunomio la natura del Figlio è totalmente diversa da quella di Dio). Nel mondo cristiano la tensione tra passato e forze innovatrici si vede oggi nelle correnti moderniste, che vogliono cambiare dottrina e prassi.
Anche gli ebrei. Essi sono molto conservatori, tanto che oggi le squadre sportive si chiamano con il nome dei Maccabei, che millenni prima in Israele si opposero al potere ellenistico per ripristinare quello ebraico. Però oggi l’ebraismo ha sfaccettature diversissime tra loro, non esistono solo gli ortodossi, è possibile che un ebreo sia anche taoista.
Gli esseri umani sono caratterizzati da una personalità formata dalla interazione di temperamento, carattere e intelligenza. L’intelligenza è la capacità di risolvere problemi nuovi. L’intelligenza è prodotta da più geni che stanno alla base delle singole abilità, ma affinché l’intelligenza si sviluppi è necessario un ambiente adeguato. Se un genio della lingua come Dante fosse nato in una tribù di zulu, non avrebbe certo scritto la Divina Commedia.
Ora, l’ambiente è tale solo se poggia su due coordinate: la cultura precedente e le spinte innovative. Una famiglia ha un patrimonio intergenerazionale che discende dai nonni, ma i genitori e i figli innovano creativamente quell’antico contributo. Una società ha un’anima collettiva, ma i singoli membri la alimentano dando il contributo della propria individualità. L’anima collettiva di una squadra di calcio è quella di essere forte e vincere lo scudetto, ma unicamente se vi sono elementi singoli che danno il contributo, un attaccante, un difensore, un centrocampista, e così via.
Il fondamento di ogni relazione è che essa nasce dalla fusione delle parti ma diventa qualcosa in più rispetto alla somma delle singole parti. Qui poggia l’autorità esercitata da un gruppo. Il nome di una società è più importante del Presidente stesso.
Jung diceva che ogni grandezza che nasce in questo mondo è colpa, perché annichilisce l’uomo comune. Bisogna sempre uccidere e distruggere per poter far nascere qualcosa. Se una squadra vince il mondiale, tutte le altre perdono. Anche per questo non esiste il voto assoluto, il buon docente sa che il voto deve essere relazionato a tutti gli altri membri della classe.
Ma l’anima collettiva di un gruppo nasce solamente se il gruppo diventa più importante dei singoli interessi delle parti che lo compongono. Una famiglia funziona solo se il marito o la moglie sacrificano i propri interessi egoistici per la famiglia stessa. Per questo costruire una famiglia è sempre impegnativo.
Il problema della malattia mentale poggia sul deragliare dalla regola della società. Ognuno di noi ha interessi singoli che devono essere sacrificati per il buon vivere. Una persona inizia ad ammalarsi mentalmente quando non disciplina tra la parte che può e deve far sviluppare soggettivamente e quella che deve mortificare per il vivere sociale. Ogni malattia mentale è tale se l’individuo non sta più in armonia con la società.
È stato Pinel il primo che nel Settecento ha distinto il criminale dal malato di mente. Il criminale viola consapevolmente le regole sociali, quindi va punito. Il malato di mente lo fa perché sta male, quindi va curato. Per Fagioli le carceri andrebbero chiuse perché piene di malati di mente: l’uomo nasce sano e non violento, solo quando si ammala diventa criminale.
Fino a poco tempo fa negli USA il pazzo che uccideva poteva essere condannato a morte, però nel 2002 la Corte Suprema (Atkins vs. Virginia) ha emesso il precedente per cui è contro l’Ottavo Emendamento uccidere con pena di morte chi non è in grado di intendere e volere. La storica sentenza diceva che chi ha un quoziente intellettivo troppo basso non è punibile con tale pena. Prevedeva anche che ogni stato USA deve stabilire quale è il criterio esatto.
C’è da osservare che per la psichiatria europea il quoziente intellettivo non dovrebbe dire nulla della presenza o meno della facoltà di pensare bene in merito ad un reato violento. È dagli anni Settanta che in Italia si è scissa la neurologia dalla psichiatria.
In ogni modo gli USA intendono per pazzia un qualsiasi comportamento aberrante rispetto le regole della società, senza andare sul sottile riguardo le cause specifiche del comportamento aberrante. Per questo Freeman lobotomizzava anche omosessuali, prostitute e criminali.
Nel criminale il senso della società è perso per un motivo di interesse, quindi la possibilità di scegliere dovrebbe essere mantenuta, invece nel pazzo per un motivo di malattia, quindi la possibilità di scegliere dovrebbe esserne inficiata. Allora non ha senso punire un incapace. Ma ci sono delitti talmente efferati, come l’omicidio, che viene veramente da pensare sulla falsariga di Sciascia che l’omicida che intende sul serio quello che fa non commetterebbe l’assassinio.
Ma il modo di intendere un comportamento aberrante dipende sempre dal contesto. Cambiando la società, muta anche il sentire delle persone e quindi l’etichetta di reato o meno. Una volta era ammesso il delitto d’onore. Nella giurisprudenza esiste un principio per il quale la lettera di una norma giuridica può essere applicata anche a fattispecie concrete differenti nel tempo. In Italia non esiste la regola del precedente vincolante come negli USA, ma è stata storica la sentenza del 2019 della Corte d’Assise d’Appello di Roma che, dovendo giudicare sull’omicidio di Sara Di Pietrantonio, ha condannato il fidanzato riconoscendo l’aggravante della violenza psicologica, tesa a distruggere la femminilità della ragazza.
Nel criminale e nel pazzo la perdita del senso andrebbe recuperata rispettivamente per via della pena e della cura. Ernesto De Martino direbbe che bisogna passare da una catastrofe a una anastrofe. In Italia, in forza dell’art. 27 della Costituzione, la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
Pertanto anche la realtà della pena e quella della cura rientrano in quello straordinario fenomeno umano per il quale l’individuo si allaccia ai dettami della società ricavandone un effetto individualizzante. Assecondando un ordine sociale e parzialmente livellante, l’individuo diventa veramente sé stesso. Winnicott riconosceva che un adulto diventa veramente indipendente solo se da bambino ha soddisfatto il bisogno di dipendenza. Vivendo totalmente la fusione materna, il bambino si stacca naturalmente dalla madre come un frutto maturo dall’albero. Analogamente si può dire della società: chi per una ragione o l’altra deraglia dalla società, nell’atto di sottomettersi alla sue regole, sarà pronto in futuro ad essere autenticamente sé stesso.
Il potere straordinario del cervello è di essere una struttura in parte già stabile e in parte in grado di modificarsi sulla base delle nuove esperienze (plasticità neuronale). La plasticità sta alla base della nostra individualità. Ma le nuove sinapsi che si creano devono giocoforza confrontarsi con quelle vecchie che intendono superare in una dialettica continua, che, prepotente nell’infanzia, dura in qualche modo fino alla vecchiaia.
Alberto Magno (De unitate intellectus III, 2, 26) scriveva che l’intelletto “è in potenza tutte le cose”, est potentia omnia. Possiamo rivisitare questo concetto filosofico aristotelico facendolo passare dalla sfera speculativa a quella scientifica. Le capacità del cervello sono potenzialmente infinite perché esso può ristrutturarsi di continuo, come quando impariamo un’altra lingua o decidiamo di diventare migliori.