Delle cose è facile farsi un’idea, delle persone ci si dovrebbe fare un concetto. Se infatti il concetto è, come vuole Aristotele, l’idea nel suo farsi e se una persona non si conosce mai fino in fondo, si deduce che non è possibile farsene un’idea, senza correre il rischio di deformare una realtà due volte mutevole. Infatti cambiamo noi e cambia anche l’altro. Anche di qui l’esigenza del dialogo che può in teoria aversi anche con le cose che possono essere da noi “interrogate” ma non per questo rispondere alle nostre domande. La cosa la conosco nell’uso, la persona nel confrontarmi con lei.

I due processi, cioè la formazione dell’idea e quella del concetto, non rispondono – io credo – a un processo solo cognitivo ma anche affettivo. Amo una cosa ed è sufficiente che ne abbia un’idea. Amo una persona e devo averne un concetto, un’idea necessariamente vaga, come dimostra il fatto che in una persona si possa riporre più o meno fiducia, cosa che non ha senso nel rapporto che instauriamo con gli oggetti. Se di una persona mi faccio un’idea, cioè ne fisso nella memoria dei tratti che presumo esserne caratteristici, non la amo veramente, la idealizzo che è un’altra cosa. Rischio di farne un giocattolo o un soprammobile grazioso che arricchisce lì per lì la mia vita e le mie giornate.

Probabilmente per un retaggio culturale di parecchi secoli, l’uomo tende a idealizzare la donna “amata”, la donna è invece, per tradizione, educata ad adattarsi all’uomo per come si rivela poco a poco e nel tempo. Oggi la stuazione è diversa e quel poco di emancipazione femminile che le donne hanno acquistato in Italia, le rende meno prudenti e giustamente più capaci di voler mettere i puntini sugli “i”.

Mi pare probabile che il femminicida tratti la donna più come cosa che come persona. Mi domando anzi se non sia questa la ragione per cui scateni su di lei una violenza cieca, simile a quella che certi bambini usano nei confronti dei gioccattoli che li deludono o perché non “funzionano” più o perché  non “rispondono” alle loro esigenze, ovvero, per dirla senza mezze parole, se ne sono stufati.

Che possa essere così mi pare sia confermato dalla differenza che corre tra la proprietà e il possesso. La proprietà legittima il disporre della cosa di cui si è proprietari, fino a venderla, a donarla ad altri, a gettarla via, a disfarsene. Il possesso ha una sua dolcezza perché è per definizione precario. Se ne dispone finché ci è consentito. È il senso del possesso che genera quel male così particolare che è il lutto, per cui si rimpiangono le cose e le persone perdute. È nel lutto che il concetto diventa pian piano idea. E ci commuoviamo davanti a una vecchia fotografia in cui appare l’immagine di una persona che ci è stata cara. Mi pare chiaro che, se questa “fotografia” è già nella nostra mente, come idea, il concetto della persona non c’è mai stato. Che si chiami Adelaide, Clara, Clorinda o Genoveffa, Carlotta, Cunegonda, il suo stesso nome – bello o brutto che sia – è così poco importante da acquistare tanti significati tutti diversi, per non parlare delle pose, dei gesti, del sorriso, della voce, dell’atteggiarsi. Ma se Clara è solo Clara, anzi quella Clara lì che magari gli amici ci invidiano (!), muore in noi la fantasia che è alimentata dal coraggio necessario ad amare. Per chi tutto questo non esiste è possibile uccidere la persona “amata” perché, essendosene fatta un’idea e avendone rifiutato il concetto, quella persona è come svuotata della sua vita. A questo punto il lutto non ha bisogno di elaborazione. Può allora capitare che si uccida chi è già morto alla nostra mente, incapaci come siamo di fare lo sforzo di farcene un concetto, di vivere i problemi piccoli e grandi della convivenza. Nella convivenza impariamo ad amare, oltre che a tollerare, i difetti dell’altro, a cominciare da quelli più piccoli.

In conclusione: si mediti sul detto “Le persone vanne accettate”. Se non ne siamo capaci, l’unica cosa saggia da fare è svoltare l’angolo e cercare chi sappiamo accettare.