Le religioni e le tradizioni spirituali dell’umanità costituiscono dei grandi insegnamenti per tutto il genere umano. Per millenni questi insegnamenti sono stati la base della saggezza. Il sapiente egiziano Ptahhotep scriveva (Papiro Prisse):

jr wxA jw.tw sDm=f

nn jr-n=f x.t nb.t

“quanto allo stolto che non ascolta

non potrà fare alcuna cosa  (non può portare a termine alcunché)”.

         L’originale egiziano è molto pregnante.  Jr significa riguardo a. La parola egiziana wxA significa stolto, fool, il manchevole (deficiente come deficere in latino, mancare di qualcosa). Jw.tw pronome relativo negativo, colui che non, in una forma arcaica ovvero con w al posto di yod, jwtj/jwty.  Nn è una negazione. Jr-n=f è il verbo. X.t-nb.t significa ogni (nb) cosa (x.t). È un po’ particolare questo n(j)n, perché per negare la capacità/possibilità, normalmente si usa la sola n(j) ovvero n(j) sDm-n=f, cioè non poter fare. Gardiner riferisce che in egiziano antico le regole delle negazioni valgono più su base statistica piuttosto che con regole precise. Gli uomini del passato erano assai attenti agli insegnamenti della tradizione, che sono la base della retta azione. Per Ptahhotep chi non ascolta gli insegnamenti della tradizione, cioè dei sapienti e degli dei, non può fare alcunché. I due più grandi poeti della letteratura persiana sono Rumi sul versante religioso e Hafez sul versante profano. Il vero nome di quest’ultimo è Shams od-din Mohammad, di Shiraz (1319-1390). Fu molto amato da Goethe e riscosse molta fortuna in Occidente a partire dal romanticismo. Egli è rinomato per un Canzoniere composto di circa 500 ghazal. Il ghazal è una breve poesia lirica, paragonabile al nostro sonetto. I ghazal di Hafez intrecciano varie tematiche e risultano frammentari anche particolari ghazal presi singolarmente. I temi ricorrenti sono l’amore smanioso di un amante verso un amato irraggiungibile e cattivo, mentre si esaltano i piaceri, il buon vino e la sfrenatezza. Abbiamo anche il panegirico verso un personaggio importante, spesso della corte di Shiraz (in meno del 10 per cento dei 500 componimenti del suo Canzoniere Hafez cita anche il nome del personaggio). Oppure il poeta si paragona a un sufi pentito, fattosi rend, “vagabondo”, “libertino”, cioè che si stanca della propria religione e vuole essere convertito in una cerchia gnostico-esoterica guidata da uno sconosciuto priore dei magi. Il sufismo è l’Islam esoterico, che a volte è stato in frizione con l’Islam cosiddetto ortodosso mentre altre volte risulta integrato con esso. La tradizione persiana chiama Hafez un poeta-‘aref, “sapiente”, “saggio”. Il termine ‘aref è un participio attivo arabo da ‘arafa=conoscere, quindi etimologicamente significa “conoscente”, cioè anche “gnostico”, cioè sapiente iniziato in una congrega di sapienti. Tuttavia c’è chi ha visto nei ghazal di Hafez un tema comune, un sottofondo che li raggruppa tutti quanti, una vena profonda che ne suggella l’unità. Già la critica persiana denominava Hafez quale “lingua dell’invisibile” (Lisan al-Ghayb), dove il secondo termine, ghayb, designa propriamente nel gergo religioso la dimensione del non percepibile ai sensi umani, dell’invisibile app7unto, del mistero divino. Inoltre lo pseudonimo Hafez significa propriamente “colui che ha mandato a memoria” il Corano, il testo sacro dell’Islam: i richiami velati a questo Libro sono innumerevoli in tutto il Canzoniere. Quindi per molti Hafez sta cantando una sola cosa, cioè Dio stesso, Allah. E lo fa in una maniera mascherata, allusiva. Perciò questo amato che Hafez vuole veementemente possedere altro non è che Dio, il quale non si lascia trovare tanto facilmente. Questo “amato” (ma’shuq) è detto anche “amico” (dust, oppure yar), spesso dalle sembianze di un giovane imperbe. In un famoso hadith Dio è definito “adolescente imperbe”. Molte volte questo amante ha nei confronti dell’amato un desiderio di annientamento, e l’annientamento (fana’) è un altro termine chiave della mistica islamica e lo si deve avere solamente verso Dio. È significativo che nel pensiero mistico persiano tutte le creature, cioè gli esseri che Dio ama, sono definite shahid, termine che designa certamente qualcuno che è bello, che nella lirica persiana definisce l’amato, ma etimologicamente significa “testimone”, ossia testimone di un’altra, soprannaturale bellezza. Per un certo filone della mistica persiana tutte le creature rimandano al Creatore. Dall’amore del bello umano si passa all’amore per il Bello per eccellenza, Dio. La poesia cortigiana, che esalta un personaggio illustre della corte di Shiraz, su cui tanto ha ragionato Lescot, in verità altro non sarebbe che una lode continua, ma velata, a Dio, il personaggio più importante che esista in assoluto. Su questa linea anche il misterioso priore dei magi (pir-e moghan), capo di una setta o confraternita di iniziati, che dona una vita nuova e superiore agli adepti, altro non sarebbe che Dio stesso, il quale dispensa a chi vuole la vera conoscenza, che è quella divina. Un ghazal di Hafez così recita:

“O caro, chi mai ti disse: ‘Del nostro stato non chiedere

fatti straniero e, dei tuoi intimi, la storia non chiedere!

Il lungo conto dei nostri diritti di amicizia, purezza e servizio

dal tuo cuore cancellalo, del nome nostro più non richiedere!’

Poiché ti appartiene una grazia infinita, e pur nobile cortesia,

perdona a chi è innocente, di quel ch’è già stato non chiedere!

Io solo il piacere conosco dei bruciori del tuo amore, non quel borioso ….

Non cercare in quelli col saio, là nelle celle, il contante di vera ricerca, a quei miserabili no, notizia del nostro elisir non è il caso di chiedere!

Nel libro del medico ragione il capitolo sull’amore non è dato trovarlo: o cuore mio, abituati dunque al dolore, della sua medicina non chiedere!

O Hafez, è giunta la stagione della rosa, la sapienza lasciala perdere, ricerca il contantedell’attimo, del come o perché non chiedere!”.

All’apparenza abbiamo l’amante che si strugge di amore per l’amato. L’io poetico, cioè Hafez, canta all’amato di non chiedere spiegazioni riguardo il sentimento. L’amante ama terribilmente l’amato e quest’ultimo non si deve dare spiegazioni sul perché, l’amore infatti è un sentimento libero al di là della ragione. Ma, ad una attenta lettura dell’originale persiano, vediamo come questa lirica trascolora in un senso ulteriore. In filigrana avvertiamo che Hafez ha tessuto un altro discorso. È significativo che il sostantivo “grazia” (loft) appartiene al gergo teologico. Quindi non si sta parlando di un amato in senso terreno, ma dell’Amato ammantato di grazia divina, cioè Dio stesso. Allora Hafez vuole dirci velatamente che l’amore nei confronti di Dio non ha spiegazioni, Dio viene amato mediante quei moti dell’anima irrazionali che nulla hanno a che vedere con ragioni umane, Dio è l’Assoluto e l’anima lo ama incondizionatamente. Non c’è medicina per curare il male di amore, simbolo, questa medicina, della ragione (‘aql) impotente a capire il mistero dell’amore verso Dio. Come può una creatura innamorarsi di tanto eccelso Essere e elevato? Le parole sono un nulla, non bisogna chiedere spiegazioni riguardo al motivo del cuore che ama Dio! La sapienza o scienza (ma’refat) di questo mondo va abbandonata. La parola è vana nel dire sull’amore di Dio! Abbiamo qui tutto il tema del sufismo, della mistica islamica, che non scrive trattati teologici, parole su parole, bensì sperimenta direttamente l’estasi divina. Nel Canzoniere di Hafez abbiamo spesso accenni al sufismo (anche se egli si paragona spesso a un sufi che vuole abbandonare la sua via), non solo ma anche alla fede islamica ortodossa e pure al zoroastrismo, la religione autoctona persiana. È altresì significativo il sostantivo “contante” (naqd), che appare anche nell’ultimo verso ma con altro senso: si tratta del contante della vera ricerca (talab), che alla lettera si riferisce alla ricerca amorosa dell’amato terreno ma in senso connotativo si riferisce alla ricerca di Dio. Allora Hafez non prende di mira il sufismo in quanto tale, che è estatica ricerca di Dio oltre ogni spiegazione umana, bensì i falsi asceti, che disonorano la vera religione. “Quelli che vestono il saio” (dalq-push) ha una variante manoscritta, che è “quelli che vestono/coprono il viso” (ruy-push), nel senso di ipocriti, falsi religiosi, religiosi solo all’apparenza. Il sufismo è una tradizione esoterica all’interno dell’Islam. Il sufismo si forma in modo spontaneo già nei primi anni della Rivelazione di Maometto (VII secolo d.C.) come l’insegnamento più vitale caratterizzato anche da pratiche ascetiche. In definitiva il sufismo parla con un linguaggio interiore e può essere compreso solo da chi condivide quella esperienza (iniziazione). L’affermazione del sufismo non è stata omogenea. Già un secolo dopo, cioè nel VIII secolo, gli autori erano discordanti riguardo la sua esatta natura. Il fatto che è un orientamento iniziatico, cioè segreto, crea diffidenza. Alcuni dimostrano molto presto persino disprezzo nei confronti del sufismo. Infatti i giuristi vi vedevano un pericolo per l’ordine costituito, invece gli ulema, cioè i teologi, vedevano nei mistici un pericolo costante verso l’ortodossia. Quindi la storia del sufismo è anche la storia di una ripetuta frizione con l’ortodossia. Questo senso di disagio si è ripetuto secoli dopo altresì con l’incontro con la civiltà europea dal XIX secolo: i nostri orientalisti trovano affascinanti autori come Rumi, Hafez, ma la segretezza dell’insegnamento crea anche non pochi problemi nella comprensione dell’esatto messaggio sufi. I nostri orientalisti avevano una idea legalitaria dell’Islam, che non pareva molto rappresentata dal sufismo, con i suoi aspetti estetici e molto liberi rispetto agli stereotipi che gravitavano attorno all’Islam. Questa incertezza rimane fino al Novecento, quando Louis Massignon riesce finalmente a capire in profondità il sufismo, grazie al suo vasto lavoro di interpretazione delle fonti. Egli sostiene che una tradizione religiosa è vera quando contiene in modo omogeneo tanto l’aspetto legale, quanto quello teologico e quanto quello del perfezionamento spirituale (questo ultimo aspetto è presente nell’Islam grazie al sufismo nella coerenza del suo linguaggio spirituale). Altri orientalisti, come Nicholson, Arberry, confermano abbastanza presto che i contenuti del sufismo sono coerenti con le premesse del Corano, quindi con la tradizione islamica. In particolare un orientalista tedesco, von Grunebaum, dice che il Tasawwuf (sufismo) è profondamente radicato nella parola rivelata, dalla cui molteplicità trae la sfida per la interiorizzazione del rapporto con il Creatore. Dal momento che nell’Islam tutti i significati importanti, siano filosofici, etici, artistici, ruotano attorno al tema dell’unità del Divino (tawḥīd), allora la via interiore diventa la ricerca della presenza nascosta del tawḥīd, la ricerca della sua articolazione interna. Il tendere verso questa unità con tutta l’anima secondo i suoi vari gradi – dalla percezione di una realtà ordinatrice alla scoperta della vicinanza con l’Amico fino al vedere le cose in una luce unificante – questa tensione diventa per molti il compito di tutta la vita. Queste persone sono i sufi. I sufi devono mantenere la custodia del cuore, in quanto il cuore è l’organo della conoscenza spirituale. C’è un bellissimo distico di Rumi che dice: “La prima origine del grido è dal cuore e l’eco ne rimbomba sulle montagne del corpo. O tu, stordito dagli echi, volgiti in silenzio all’origine della voce che crea”. Il sufismo è diventato qualcosa di molto più ampio, che ha attraversato tutta la storia della cultura araba per secoli. Vi è una varietà di fenomeni che si sono svolti dentro le società tradizionali, quindi per sufismo si intende sia le scuole di filosofia mistica, sia le confraternite, sia le espressioni della devozione popolari, sia delle scuole dove si pratica l’espressione artistica tradizionale (calligrafia, musica). Nel periodo del Profeta Maometto il primo atteggiamento di non poche persone che divennero i sufi ante litteram, era il timore del giudizio e quindi del castigo di Dio con atteggiamenti di rinuncia della mondanità e di ascetismo. Volontaria povertà, solitudine, desiderio di ascolto del cuore. Pertanto quando i primi testi parlano del sufismo si riferiscono a queste persone che in maniera assai diversa interpretavano asceticamente la dottrina di Maometto. È difficile trovare una linea comune tra costoro, non c’è un metodo particolare. “Morire prima di morire”, secondo un celebre hadith. Simili aspetti di ritiro e contrizione caratterizzano anche i gruppi di asceti del secolo successivo (VIII), quelli di Kufa e Bassora (in Iraq). Ma cambia qualcosa, infatti emergono i concetti di sincerità nella fede, la vita pura, l’affidamento a Dio per ogni cosa: viene tracciato il quadro della vita religiosa ideale. È qui che la pratica ascetica viene identificata con la veste di lana portata dai devoti, infatti la parola Tasawwuf significa “lana”. Anche se questi asceti iniziano a riconoscersi tra di loro, non filtra quasi niente delle loro pratiche, in quanto l’accento che ci rimane è quello delle esortazioni morali. Quel poco che filtra è costituito dalle “espressioni estatiche”, sono quelle che Massignon definiva “locuzioni teopatiche”, cioè delle estasi durante le quali avvengono delle locuzioni. Il sufi veniva investito da una forza divina e pronunciava delle massime. In seguito con la scuola di Baghdad (X secolo) avviene una progressiva sistemazione sia intellettuale sia delle pratiche. Si cercano i detti dei maestri e si raggruppano le loro convinzioni in una dottrina coerente. Compaiono i primi testi che diverranno canonici. Se prima il rapporto con la divinità era visto come una esperienza irripetibile e segreta, adesso acquista tratti più riconoscibili, tanto da poterla proporre. Per esempio l’ascesi, necessaria per mantenere il cuore puro, diventa qualcosa di inquadrabile in esercizi ben studiati destinati ai devoti. Poi viene data voce alla vita emotiva, cioè alla vicinanza con il Principio, che era prima segretissima e individuale. Quindi il percorso mistico non è più un puro sforzo individuale, ma una assimilazione progressiva di un sapere identitario condiviso da tutta una confraternita. Quello che viene dopo la fase di Baghdad, che è quella del sufismo classico, è ancora un sufismo diverso. C’è uno sforzo maggiore di esplicitazione della dottrina, mediante un linguaggio spesso filosofico. Si arriva alla sintesi di Ibn Arabi (m. 1240), considerato il maggior sufi e il maggior teologo islamico. Egli fissa le linee di una conoscenza speculativa che va al di là della teologia tradizionale dell’Islam (questa riflessione sufi è detta teologia dell’esperienza). Poi si assiste alla apertura della letteratura e della poesia alla sensibilità sufi. Infatti, ad un certo punto, nella letteratura araba e persiana si fanno discorsi che possono sempre avere un significato mistico-esoterico, cioè influenzati dall’insegnamento del sufismo. Si arriva quasi alla creazione di figure letterarie sufi. Questo vuol dire che il sufismo era penetrato nella coscienza collettiva, anche a livello popolare, grazie pure alla stabilizzazione delle confraternite. Il sufismo si incentra spesso nella identificazione totale del credente con Dio (monismo). Certamente questa visione era un motivo di frizione con l’Islam ortodosso per il quale niente di umano e terreno va paragonato a Dio, che è assolutamente trascendente, “altro” rispetto al mondo degli uomini. Infatti per l’islam ortodosso la bestemmia più grande è shirk, cioè di “associare” a Dio qualcosa di umano. I 99 Bellissimi Nomi di Dio sono tutti “astratti”, cioè non applicabili all’uomo. Afferma la tradizione extracoranica che Dio è il sole e noi siamo una pozzanghera di acqua sporca, che può talora riflettere in qualche modo il sole ma che resta inequivocabilmente acqua sporca. Tra il XII e il XIII secolo, nella tensione massima tra Islam ortodosso e sufismo, iniziarono a sorgere le prime confraternite sufi, cioè congregazioni rivolte a dare il messaggio sufi al popolo. Tra le più importanti confraternite si annovera quella shadhilita, dal nome del suo fondatore, Abu Hasan, detto al-Shadhili perché nato (1196/97) nel villaggio di Shadhila vicino Tunisi. Tra i membri autorevoli di questa confraternita si annoverano al-Mursi e Ibn ‘Ata’ Allah. Quest’ultimo è conosciuto per le sue Sentenze. Le Sentenze di Ibn ‘Ata’ Allah (1259-1310, vissuto in Egitto) sono considerate il breviario della scuola shadhilita, il vademecum spirituale di molte anime assetate di Dio. Ibn ‘Ata’ Allah risolve il problema di fondo dicendo: “Il tuo giungere a Dio è giungere alla conoscenza di Lui: il nostro Signore è troppo trascendente perché qualcosa di unisca a Lui o per unirsi a qualcosa”. Se l’uomo è talmente distante da Dio, la salvezza sta nell’abbandonarsi al Suo volere. L’uomo deve spogliarsi della propria volontà e sottomettersi incondizionatamente a Dio. Egli, in un’altra celebre opera, il Colloquio mistico, scriveva:

“Mio Dio, come sei munifico con me, nonostante la grandezza della mia ignoranza!

Come sei misericordioso, nonostante la turpitudine del mio agire!

Mio Dio, come sei vicino a me e come io Ti sono lontano!”.

Bibliografia

  • Hafez, Canzoni d’amore e di taverna, a cura di C. Saccone, Roma 2011; 
  • Ibn ‘Ata’ Allah, Sentenze e Colloquio mistico, a cura di C. Valdrè, Milano 1981;
  • A. Scarabel, Il Sufismo. Storia e dottrina, Roma 2007.