In poco tempo il mondo è cambiato drasticamente. Una volta i viaggi erano difficoltosi, lenti e pericolosi. I velieri quindi non prevedevano viaggi turistici. Inoltre essi non andavano di bolina, come oggi, cioè anche con il vento contrario, ma dovevano attendere la giusta spinta: quindi le rotte erano permesse solo in certi periodi dell’anno, quando vi era il vento giusto, e la bonaccia, che poteva sempre capitare, era una tragedia. Oggi le navi a motore hanno risolto il problema. Pensiamo poi all’aereo, alle astronavi, che ci hanno permesso addirittura di valicare l’orbita terrestre. I progressi della medicina sono eccezionali. Una volta le malattie gravi non erano curabili, oggi invece condizioni come il cancro stanno diventando malattie croniche, gravi sì ma trattabili, quindi con cui si può convivere, come il diabete. La malattia viene vista sempre più in chiave integrativa, cioè come un reciproco scambio tra corpo e mente. Non vi è la sola componente corporea né la sola componente mentale, ma un mutuo intervento e sostegno tra i due settori della nostra umanità. Il modello integrativo della salute globale dell’individuo ha individuato i fattori comuni a molti problemi, disfunzioni e malattie fisiche e/o mentali. Essi sono:

  • Iper-attivazione degli assi dello stress, dei circuiti cerebrali che regolano emozioni e i sistemi di adattamento e di tutto il sistema nervoso in generale
  • Uno stato infiammatorio cronico, che – anche a livello subclinico – crea gravissimi danni alla salute e altera i processi emotivi, affettivi e cognitivi.

Questi primi due punti sono strettamente collegati e si influenzano a vicenda. A loro volta, sostengono:

  • Meccanismi di iper-reattività, come spaventarsi per un suono innocuo, arrabbiarsi in modo estremo senza aver capito che cosa è realmente successo, attacchi d’ansia per un evento totalmente ipotetico e comunque lontano nel tempo, e così via
  • Iper-algia, ovvero sentire dolori intensi in modo sproporzionato allo stimolo. Questo può succedere per stimoli acuti (scottarsi o pungersi) come per sofferenze croniche (dolore al nervo sciatico, una spalla che dopo un incidente dà sempre fastidio, e così via).

Esistono poi situazioni che sono in parte frutto delle precedenti, in parte dovute ad altri aspetti del passato, come:

  • Iper-sensibilità diffusa, ad esempio rispetto a scene leggermente violente nei film, critiche ricevute in prima persona o da altri, ma anche trovare intollerabile il ronzio di una mosca o un’etichetta di un vestito sulla pelle, e così via.

Tutti questi meccanismi sono sia causa che effetto di eventi avversi, difficoltà emotive e relazionali o altre condizioni sfavorevoli. Agire direttamente su questi meccanismi, oltre che sulle cause e conseguenze, permette di facilitare e favorire qualsiasi processo di cura. Per farlo è sufficiente curare alcuni dettagli della vita quotidiana, come per esempio:

  • attività fisica (trovando il giusto equilibrio tra quella aerobica e quella più attiva, entrambe utili – in modo diverso – al recupero della fisiologia di tutti questi sistemi)
  • il modo (rallentato, reso più fluido) in cui si eseguono attività e gesti abituali, come parlare, scrivere, tagliare, e altri gesti e comportamenti abituali
  • usare tecniche di rilassamento o di rilascio muscolare che rispettino la fisiologia dell’unità corpo-mente-emozioni
  • modalità di auto-contatto, di sviluppo della consapevolezza interocettiva, di recupero del contatto più profondo con sé stessi
  • giochi e attività in cui equilibrio fisico, mentale ed emotivo vengono ben integrati.

Quindi la salute mentale e il giusto rilassamento del sistema nervoso sono parte integrante del benessere fisico. Viceversa stati di esaurimento o sovraccarico fisico possono nuocere alla salute mentale. La vita quotidiana e la società attuale occidentale ci pongono in uno stato di allerta continua e di sforzo continuato che genera stress e quindi, a lungo andare, malattie fisiche e mentali. Lo stato continuativo di stress e di lavoro eccessivo sono come una cappa che ci preclude l’accesso alla nostra interiorità. Questo perché viviamo concentrati sull’avere e non sull’essere. Oggi le persone hanno paura del cambiamento in quanto esso pone le persone davanti a sé stesse: ma se c’è un velo che ci copre chi siamo, come possiamo essere felici di cambiare? Il mondo occidentale ci offre vite inautentiche. Pensiamo anche al fatto che le persone di solito giudicano: giudicare è più facile che pensare e valutare obiettivamente la realtà. Per valutare la realtà occorre conoscere noi stessi prima di tutto. Da più parti è stato richiamato il fatto che non è segno di salute mentale essere molto adattati a una società malata. La società attuale in Occidente è malata perché ha perso il contatto con la propria interiorità e perché compensa questa perdita ostentando, quindi giocando con una maschera alla quale vuole credere e vuole che gli altri ci credano. È la “società dello spettacolo” (Debord). Però l’uomo non è solamente corpo e mente, è anche spirito. Se nel corpo siamo sviluppati, nella mente siamo poco sviluppati rispetto all’età anagrafica. La maggior parte delle persone non è matura: nonostante l’età anagrafica, ha spesso una età mentale di 16 anni. Nello spirito, cioè nell’anima, la situazione è ancora peggiore. Le persone sono spiritualmente inadeguate. E anche questo va a decremento del benessere totale dell’individuo. Frankl richiamava l’attenzione a quelle malattie nosografiche che derivano da bisogni spirituali inespressi. Assagioli notava che le spinte del superconscio, nel quale si manifesta la vita dello spirito, devono trovare una eco adeguata nella vita di tutti i giorni. Jung asseriva come gli dei, che una volta erano accolti nella vita quotidiana mediante la religione, adesso, scacciati e relegati unicamente nell’inconscio, si sono trasformati in malattie. In Oriente ci sono meno suicidi in quanto le persone hanno una vita dello spirito più sentita e più praticata. In Occidente le persone sono sazie ma disperate: questo perché non hanno Dio, l’Amico dell’anima. Hanno sostituito Dio con l’io, hanno sostituito lo spirito con la materia e le esigenze materiali. Tuttavia gli albori dell’Occidente sono sacrali e quindi mitici. West fu uno dei primi ad aver sostenuto l’ipotesi dello sciamanesimo nell’antica Grecia: dall’Oriente questa concezione sacrale e magica della vita si sarebbe diffusa fino in Grecia. Prova ne sia, ad esempio, il corpo tomba dell’anima come lo ritroviamo in Platone, che è di chiara ascendenza orfica ma che prima di tutto deriva dalla fede degli sciamani orientali. I primi “sapienti greci” (così denominati da Colli), dei quali si ha memoria, non erano filosofi razionali (anche se la filosofia, pure  di Platone e di Aristotele, avrà ancora molto di mitico) ma dei maghi con poteri terribili: tutti presenti anche nello sciamanesimo. Come nota Vernant, questo sciamanesimo decadde in un certo senso con la polis nella quale subentrò la figura del filosofo, più “civilizzato” e meno “stregone”, diremmo noi. Uno di questi possibili sciamani ellenici fu Aristea, del VI secolo a.C., il quale lasciava con l’anima temporaneamente il corpo ancora respirante e nelle sembianze di un corvo si recava in altri mondi. Esattamente come facevano gli sciamani orientali, amerindi e, sulla base dei dati degli antropologi, fanno ancora. Ma anche nell’epoca classica e in quella ellenistica continuarono ad esserci, in Grecia, figure di sciamani e sciamane, cioè le Pizie, sacerdotesse che profetizzavano a nome di un dio del quale sentivano la voce. Però, oggi in Occidente il sacro è via via venuto meno e si perde la fede senza accorgersene. Le chiese sono deserte anche la domenica e persino i musulmani trasferitisi qui, che dalle loro parti sono ferventi (in arabo la bestemmia non si formula quasi grammaticalmente), perdono il senso del sacro tra mancanza di fede e vizi. Che tutto questo sia frutto del capitalismo che crea il disincanto del mondo (Weber)? Le persone muoiono spesso senza sacramenti, attendendo, anziché l’incontro con la divinità, il nulla, il vuoto, lo sfacelo nel non essere. In passato invece la morte era vista come il grande viaggio da intraprendere per andare nel mondo dei beati. Molte religioni del passato preparavano il cadavere per il viaggio e approntavano una tomba idonea che lo permettesse. Nell’antica Cina i grandi capi si facevano costruire tombe monumentali adibite per la trasformazione della persona in un essere immortale, che poi comunque doveva compiere in viaggio sopra un drago per raggiungere la dimora definitiva nei cieli. Il primo grande imperatore cinese, Qin Shi Huangdi, dal 246 a.C. si era fatto costruire un mastodontico parco funerario. Tra il 157-141 a. C. è datato il parco funerario dell’Imperatore Jingdi, presso Yangling. Quindi l’idea di costruirsi dei parchi funerari viene mantenuta in epoca Han. Questi parchi ereditano le leggi del primo imperatore e le sviluppano ulteriormente. Per quanto riguarda il modo di sepoltura degli imperatori,  rimane l’idea del parco funerario ma con delle differenze: nei parchi funerari Han sono sepolti sia l’imperatore che la moglie (in tombe separate). Anche in questo caso, il tumulo che ricopre la tomba è artificiale. La differenza è che la struttura e più compatta rispetto a quello del primo imperatore. Quella del primo imperatore era enorme e le fosse erano fuori dal perimetro esterno. Qui invece abbiamo un perimetro esterno con mura, sulle quali si aprono 4 porte, che corrispondono ai punti cardinali e sono porte monumentali, in cinese si chiamano que, servivano a segnalare l’ingresso in un’area importante, che poteva essere sia religiosa (tempio), sia palaziale, sia tombale. Anche in questo caso, nessuna tomba Han è stata scoperta, quelle che noi conosciamo solo le fosse di accompagnamento alla tomba dell’imperatore Jingdi. All’interno del perimetro esterno ne abbiamo due, una per l’imperatore e una per l’imperatrice. Nella fossa di accompagnamento dell’imperatore Jingdi sono state rinvenute molte statuette nude e senza braccia, che dovevano accompagnare il defunto nel processo della trasformazione in essere immortale. Il numero delle statuette è più o meno lo stesso del primo imperatore: migliaia. Sono più piccole e sono molto particolari, curiose, perché per l’appunto sono nude e senza braccia: questa è la caratteristica che ci colpisce immediatamente e che non ci riusciamo a spiegare. Soprattutto non sappiamo perché sono senza braccia. C’è chi sostiene che fossero fatte di paglia e ovviamente la paglia non ha resistito, ma non ci sono tracce intorno di questo materiale. Altri sostengono che non ci fossero per niente, quindi era più facile vestirle. Una tomba molto famosa è quella della marchesa di Dai, necropoli di Mawangdui, Changsha, Hunan, del 168 a.C. Scoperta nel 1972 in Cina meridionale (Hunan). Ha una pianta tipica di quell enelle tombe degli Stati combattenti. La fossa è scavata verticalmente nel terreno, con una struttura di legno guo, suddivisa in 5 scomparti. C’è un corredo che ci fa capire che si riferisce ad una stanza specifica della casa del defunto, che viene riprodotta nella tomba. Si tratta di una necropoli, con tre tombe dove sono sepolti marito (depredata) moglie (conservata molto bene anche il corpo) e figlio (con corredo completo ed eccezionale per quantità e qualità di oggetti). Si tratta quasi esclusivamente di legno laccato e seta. Era importante riuscire a sigillare bene la tomba: intorno, la parte nera è argilla con carbone, perché il carbone protegge dall’umidità; il bianco è caolino, che serviva anch’esso per proteggere dall’umidità. Effettivamente in questo caso ha funzionato: il corpo si è conservato

bene, con capelli veri, ha ancora le unghie e la pelle al momento della scoperta era ancora elastica. Gli organi li aveva ancora e quindi sono riusciti a fare un’autopsia, che ha permesso di determinare la causa della morte: peritonite da semi di melone. Interessante è la Via dello Spirito con tempietto nella necropoli della famiglia Wu a Jiaxiang, Shandong (200km da Yinan), della dinastia Han Orientale, 147-189 d.C.. Questa Via dello Spirito conduceva alla tomba. È costruita in superficie come un lungo viale, al cui inizio ci sono delle torri monumentali: sono pilastri che terminano in 2 o 3 livelli (il terzo era riservato per l’imperatore) con un’ala laterale. Seguivano degli animali alati o leoni, le stele e infine un tempietto all’interno del quale si svolgevano le cerimonie funebri. Anche quelle per gli antenati. È un cambiamento del periodo Han Orientale con l’imperatore Ming (introduce il buddhismo in Cina), il quale abolisce il tempio ancestrale e sposta le cerimonie dedicate agli antenati (sepolti nel posto) nel tempietto. Le torri sono decorate con basso rilievo appiattito con sfondo rimosso e abbiamo il carattere wu della famiglia. Abbiamo anche grandi lastre di pietra con soggetti che ricalcano quelli di Yinan, con storie confuciane e per il raggiungimento del cielo. Pensiamo altresì ai faraoni egiziani. I geroglifici entro le piramidi servivano a guidare il faraone nel viaggio nel regno dei beati. La imbalsamazione serviva a conservare il corpo per la futura risurrezione. Ogni luogo dell’antico Egitto esprime il sacro. Nell’antico Egitto l’arte era funzionale alla religione. Quegli antichi resti, che la archeologia porta di nuovo alla luce, sono un intreccio di storia, filologia, credenze religiose a dir poco unico. A ovest del delta del Nilo (in cui il Nilo sfocia nel mare) ci sono delle oasi molto importanti: con l’espressione “le 7 oasi dell’antico Egitto” gli egiziani intendevano questa area dislocata appunto nel vasto deserto occidentale. L’Egitto antico si estendeva lungo la valle del Nilo: l’Alto Egitto era dove sgorga il Nilo, cioè la parte meridionale (il Sudan, che anticamente era detto Nubia, ove c’erano importante miniere d’oro, che gli egiziani sfruttarono molto), e il Basso Egitto era l’area settentrionale, che termina con il Delta del Nilo. Il resto del territorio egiziano è desertico: in questo deserto vi erano molte vie (piste carovaniere) di comunicazione con i territori limitrofi e per raggiungere le miniere di risorse naturali, presenti già dai periodi molto antichi. Le oasi egiziane non stavano nell’Alto Egitto, vicino Tebe (l’odierna Luxor), ma a ovest della valle del Nilo, da nord a sud lungo questa estesissima area desertica che gli egiziani, appoggiandosi su queste oasi, potevano attraversare per comunicare con i popoli circostanti, procedendo in varie direzioni. Già dalla IV Dinastia (2000 a. C.) gli egiziani facevano spedizioni per attraversare il deserto occidentale e comunicare con l’Africa subsahariana per ragioni commerciali.  Nel mondo delle oasi c’è un dualismo molto marcato. Da una parte abbiamo l’elemento preponderante, cioè il deserto (mancanza di punti d’acqua, assenza di vita se non per rare forme animali e vegetali), dall’altra abbiamo l’elemento anti-deserto, cioè l’oasi, questo punto nel quale esistono sorgenti d’acqua, la possibilità di fare approvvigionamento idrico, e la possibilità di abitare, costruire, gestire delle coltivazioni.  Ma questa area non è stata sempre desolata. Queste sono le fasi:

  • 10.500-5.500: epipaleolitico, prima fase umida, caratterizzata da dipinti e graffiti rupestri (in gran parte nella estremità sud-occidentale, formata da massicci sistemi di colline con grotte; uno molto importante è il massiccio Gilf Kebir, che si trova su una antica pista carovaniera; Foggini, che amava molto il deserto, durante una delle sue lunghe escursioni in Egitto, nel 2002 scoprì una grotta, che all’epoca era coperta dalle dune, che riporta alla luce una grandissima “biblioteca” di immagini che si compone di graffiti sulle pareti, di dipinti di grandi dimensioni; in essi compaiono, oltre ad umani danzanti, già gli struzzi, che erano animali simbolici di queste aree occidentali, inoltre animali fantastici e uomini giganti);
  • 5.500-4.500: cambiamenti climatici che determinano la prima fase arida, con conseguente spostamento dei primi gruppi umani dal deserto occidentale verso la valle del Nilo; questo ha aiutato la nascita della civiltà egiziana antica: una buona parte della popolazione egiziana, che era mista, proveniva dalla parte occidentale del deserto e venne lungo la valle del Nilo per sopravvivere a causa del cambiamento climatico; quindi stiamo nel periodo corrispondente a un millennio anteriore i primi documenti scritti della civiltà egiziana (che li abbiamo nel 3.150 a.C.);
  • 4.500-2.500: seconda fase umida, i primi sovrani dell’epoca tinita (Protodinastico), per difendere la realtà egiziana, contrastano le infiltrazioni degli abitanti del deserto occidentale verso la valle del Nilo;
  • 2.500-0ggi: seconda fase arida, che copre il periodo storico delle sette oasi del deserto occidentale.

Il deserto egiziano è caratterizzato da:

  • vento, in certi periodi dell’anno diventa pericolosissimo, in primavera c’è un vento terribile detto dei Cinquanta Giorni;
  • sabbia, che ciclicamente copre e scopre interi paesaggi;
  • roccia.

Quando gli egizi parlano del proprio paese, il deserto occidentale non è inteso come parte dell’Egitto: l’Egitto, inteso come valle del Nilo, è detto Kemet, invece il deserto occidentale (e tutto ciò che non sta nella valle del Nilo) è detto Dšrt. Kemet letteralmente vuol dire La Nera, cioè il Paese della terra Nera, con il riferimento evidente al colore della terra della valle del Nilo, nera in virtù della presenza del limo del Nilo. Dšrt è determinato dal segno del luogo straniero, montagnoso, desertico e letteralmente vuol dire la Terra Rossa, in riferimento alla sabbia desertica. Gli abitanti del deserto occidentale non erano intesi come egiziani, ma erano detti Dšrtyw, cioè gli abitanti di Dšrt, gli abitanti del deserto. Non esiste un unico deserto occidentale, ma diversi tipi di paesaggio con caratteristiche proprie: il Gran Mare di Sabbia (Il Bahr bela ma, che sta sulla pista del Gilf Kebir ed è il deserto sabbioso caratterizzato solo da dune), oppure il Deserto Bianco presso l’Oasi Farafra, il Deserto di Cristallo presso l’Oasi Bahariya, il Deserto Nero sulla pista per l’Oasi Bahariya. Anticamente le piste carovaniere non erano percorse dal dromedario (che venne introdotto in epoca greco-romana) né dal carro (introdotto nel 1500 a.C. e mai usato in Egitto come mezzo di trasporto civile, ma solo per la guerra) bensì con l’asino o a piedi. Nel Papiro Boulaq 6 è scritto che il dio Horus era partito sul deserto fuori dall’Egitto quando il cielo era tempestoso e nero senza alcun messaggero: questo racconto riflette la paura che gli egiziani avevano del viaggio nel deserto, col vento, l’oscurità e la solitudine. Nel deserto gli egiziani andavano non solo per recarsi oltre i confini egiziani per intessere rapporti commerciali sostando presso le oasi, ma anche per prelevare materiali. Il più ricercato della zona era il silica glass, con cui costruivano oggetti di assoluto pregio. Il pettorale di Tutankhamon presenta uno scarabeo incastonato realizzato con il silica glass. La ricerca di questo materiale, forse derivato dalla deflagrazione di un meteorite caduto nel deserto occidentale, fu portata avanti sin dai tempi più remoti. Sin dall’Antico Regno gli egizi consideravano l’oasi molto importante non solo come punto di tappa, ma anche per coloro che decidevano di insediarsi per vivere stabilmente nell’oasi: infatti, essa è una realtà geografica, e non solo, che presenta tutta una serie di vantaggi rispetto al deserto, ma anche di problemi che bisognava gestire. Non era facile vivere in un’oasi per coloro che provenivano dalla valle del Nilo: l’acqua è a volte rara, pur con la presenza di pozzi, e è quasi tutta roccia. Coloro che vivevano stabilmente nelle oasi dovevano imparare a gestire quattro elementi, in egiziano antico Pet, Ta, Mu, Ju: cielo, terra, acqua, roccia. Inoltre, non era semplice affrontare i fenomeni naturali, così come non lo è per noi oggi. Il deserto è il luogo del caos, mentre l’oasi rappresenta l’ordine determinato dagli insediamenti di tipo urbano, anche se gli abitanti dell’oasi dovevano fronteggiare diversi problemi. Per poterli affrontare, gli egiziani antichi, che sin dalle epoche più remote avevano una grande esperienza nella valle del Nilo, per esempio nella gestione delle piene del Nilo agrariamente, economicamente e umanamente, unirono la loro maestria con le esperienze degli abitanti che vivevano sin dai primordi in queste oasi. Vale a dire che gli egiziani iniziarono a fare dei grandi lavori ingegneristici e agrari per poter sfruttare al meglio le oasi mediante una organizzazione capillare gestita sin dall’Antico Regno da governatori scelti e inviati dallo stato centrale. Questi governatori erano accompagnati da funzionari amministrativi. Nei dintorni delle oasi esistevano sorgenti di acqua ma non erano gigantesche né potevano essere usate da tutti in ogni momento. Poi l’oasi era estesa e bisognava trasportare l’acqua anche nelle periferie. Gli egiziani affrontarono questi e altri problemi non solo con l’ingegneria, ma anche con la pratica oracolare. Il mondo egiziano non era solamente civile e amministrativo, ma era sacrale. Non esisteva una società laica, come la abbiamo oggi, nella quale il sacro era limitato solo a certi aspetti. Per una sorgente nel deserto si può morire: un pozzo d’acqua nel deserto è importante per la sopravvivenza di tutto un gruppo umano. Quindi le divinità erano chiamate in causa per ripartire convenientemente l’acqua e la gestione dei pozzi. Inoltre, l’azione combinata del forte vento di nord-ovest e della sabbia è oggi in grado di far sprofondare un fuoristrada in poco tempo. Anticamente questa azione naturale faceva invadere le abitazioni abbattendo i muri. Per questo gli insediamenti e gli edifici erano rivolti a sud (con gli ingressi al riparo dal vento) ed erano provvisti di alte mura di cinta (che avevano anche una funzione difensiva). I muri in questione avevano uno spessore doppio del normale per resistere alla pressione e alla forza di erosione delle tempeste di sabbia. Erodoto (Storie III, 26) riferiva addirittura di un intero esercito coperto dalle dune di sabbia e mai più ritrovato: l’esercito era partito con l’ordine di sterminare gli Ammoniani, molto probabilmente gli abitanti di un’oasi occidentale egiziana in cui il dio Ammone dava gli oracoli, ma prima di farlo fu sterminato dalle dune. Bisogna altresì ricordare come l’oasi non era come una città grande perduta nel deserto, era sì urbana ma non metropolitana: si trattava di un luogo molto vasto nel quale vi erano insediamenti sparsi qua e là concentrati vicino alla varie sorgenti di acqua, là dove il terreno è coltivabile. Ne deriva che il tempio o i templi locali, oltre che essere luoghi di culto e custodi di tradizioni antichissime, diventano il punto di riferimento principale per la gestione e l’amministrazione del territorio e dell’acqua, l’accumulo e la ridistribuzione dei prodotti agricoli. La Stele di Dakhla (945-925 a.C.) presenta la scena della lunetta, assai enigmatica, che mostra al centro il tempio del dio Seth, visto di fronte a due figure femminili. Verso il basso vi è un testo in geroglifico e in ieratico. I personaggi raffigurati sulla Stele sono in atto di presentare una offerta al dio Seth. Si pensa a questo dio come a una divinità malvagia, in realtà non è affatto così, e per le oasi è la divinità più importante, alla quale ci si rivolge per risolvere i problemi. L’oasi di Dakhla, come le altre, dipendeva dalle risorse idriche, quindi è comprensibile che una disputa sulla proprietà di un pozzo potesse essere oggetto di consultazione oracolare, della quale la Stele fa memoria. A porre l’interrogazione al dio Seth nel corso della processione estiva per la sua festa è il governatore Uaihasa, membro della famiglia regale.  Ma agli egittologi interessa questa Stele altresì per via della organizzazione dell’oasi che da essa traspare:

  • Pozzi (wbn-Ra, letteralmente “Ra splende/sorge”), dai quali l’acqua poteva sgorgare da fonti sotterranee;
  • Pozzi da irrigazione;
  • Acqua appartenente a privati o al demanio (qui poggia la disputa);
  • Allusione a “catasti” dei pozzi e dei terreni irrigui richiesta dal faraone Psusenne nell’anno 19 di Regno.

Sorgenti, pozzi e canali (qanats) permettono di convogliare in molte direzioni l’acqua dei pozzi artesiani e di gestirne l’utilizzo. Nelle varie oasi di solito l’acqua non veniva trasportata superficialmente ma da una fitta rete di canali (qanats) sotterranei, anche molto profondi (per evitarne l’evaporazione). Sono state condotte molte ricerche su questi canali, per esempio dall’Istituto Francese di Archeologia Orientale.