Un tempo accadeva che si tossicchiasse d’imbarazzo e si cercasse subito di cambiare discorso se sul tavolo della discussione ci si riferiva a uomini magari di valore, ma che, incolpevolmente per loro, erano stati generati fuori dai sacri vincoli del matrimonio. Non vorrei che si incorresse nello stesso ipocrita disagio sottovalutando o addirittura passando sotto silenzio il punto di origine dell’opera di Mario Marchisio: la fede in Dio… Dio? Ho scritto Dio? Che parola poco glitterata e del tutto fuori moda! Nella società completamente secolarizzata e materialista in cui ci è stato dato in sorte vivere in questo inizio di Terzo Millennio, la parola ‘Dio’ è mescolata sbadatamente con tutte le altre bagatelle e carabattole che il Gran Barattiere Globale espone sui banchetti mediatici, parole con cui ci si sciacqua la bocca per un attimo e si sputa – meno del classico minuto dal dentista -, idee che bisogna subito mettere alla prova del mercato, su cui bisogna ricavare un profitto sicuro. Marchisio coglie al volo la contraffazione, nei gesti e nelle parole, di questi nuovi mercanti del Tempio. “Lo spiritualoide, a qualunque latitudine, piace e conquista le folle molto più dello spirituale. Tenendo presente questo elementare concetto, comprenderemo una volta per tutte come il successo della poltiglia verbale che ci stritola fosse garantito in partenza.”(497) Invece in “Caleidoteratoscopio” la parola Dio c’è sempre, anche quando sembra eclissarsi: in una specie di pervasione spinoziana la sua effigie si delinea dietro ogni vocabolo, dentro ogni manifestazione concettuale. Dalla fede certissima – unica salvezza di fronte all’inevitabile fallimento del mondo – discende il carattere unitario dell’opera. Qualcuno dirà: ma non è una successione di frammenti? Pare che quando si citino i più famosi autori di aforismi e pensieri, sia gioco forza sottolinearne l’elemento di varietà e di sparigliatura, mentre vi si potrebbe benissimo riconoscere una tecnica molto raffinata di controllo del respiro letterario o di incastro, fra una particola e l’altra, dell’elemento della riflessione, controcanto invisibile del lettore, che in un libro di frammenti non può che esprimersi come spazio vuoto fra la successione dei numeri, come silenzio critico.
“ Il silenzio non è che la punteggiatura della voce e il suo presupposto, la sua attesa”(209)
Ma è l’esistenza di Dio a permettere che il silenzio, misticamente, ma anche nella partitura di opere come queste, possa sviluppare la sua intrinseca forza dialogica.
“Se Dio non esistesse la vita avrebbe un solo nome: Luogo del Nulla; e l’unico pensiero, l’unica saggezza, l’unica virtù sarebbero quelli della pietra e del silenzio.”(173)
La prevalenza dell’unità sulla frammentarietà apparenta questo libro alla vocazione del ‘diario intimo’, come quello che nel 1883 venne pubblicato a nome di Henri-Frédéric Amiel. Originariamente l’opera dell’autore ginevrino – edito in due volumi dopo il vaglio, badate bene, di 17.000 fogli di scrittura, stilati fra il 1847 e il 1881– fu “Fragments d’un journal intime” e il sottotitolo scelto da Marchisio per il suo libro è “ Torto e ragione del frammento”. Di quale grado io non so, ma sicuramente cugini, se non fratelli! Scrive Amiel:
“ La nostra vita non è altro che una bolla di sapone sospesa a una canna.(…) Apparire, rilucere, scomparire, nascere, soffrire, morire. Non è questo l’eterno compendio della vita, per l’effimero, per una nazione, per un corpo celeste?” ( Diario intimo, 7 gennaio 1866)
Questo è il principio stesso del “Caleidoteratoscopio” marchisiano: la visione fragilissima di colori ed immagini che si susseguono vorticosamente e che nella loro magnificenza hanno già iscritta la loro vocazione rotatoria e il proprio destino di estinzione senza possibilità di appello.
“Ogni nascita è garanzia di tenebre; magnete e idrovora che ci attirano nel sepolcro. Ignoranza, malattia e peccato, lubrificati dal burro delle illusioni, aprono il corteo dei morituri inalberando fiocchi rosa ed azzurri, confetti, torte nuziali, monete, gioielli, blasoni…La bocca, silenziosa, spalanca intanto la sua bocca, con immutabile appetito inghiotte, sminuzza, tritura. Siamo forme che precipitano nel nulla.(…)”(93)
Ora, è pur vero che Marchisio possa trovare affinità in autori materialisti che non sanno dare spiegazione dell’inutile affanno dell’uomo e della putrefazione finale di tutti i suoi intenti. Leopardi gli è caro e sembra amplificarne le parole, riadattandole solo di pochi toni al linguaggio contemporaneo:
“ Senza tregua si alternano come due brevi stagioni: a cosa alludono il giorno e la notte? E noi, improbabili imitatori di quel sorgere e di quello svanire, ora macigni e presto nebbia, dimmi, a cosa alludiamo?”(54)
Ma Marchisio non accetta l’eterna e sfiancante ripetizione del Sisifo camusiano, non accetta l’Assurdo e si apre a una prospettiva salvifica che non può essere altro che religiosa. E infatti il frammento 93, che abbiamo prima lasciato in sospeso, così si conclude:
“(…) Eppure, come insegna il Vangelo, la vita umana non appartiene definitivamente alla polvere. Cristo, il nuovo Adamo, è risorto e anche noi risorgeremo. In quel preciso istante, si svolgerà il Giudizio Universale, presieduto dal Figlio di Dio. Nessun evento sarà mai stato così grandioso e terribile.”
Dunque, più che alla radicalità senza speranza di Cioran, io apparenterei quest’opera a scrittori che pure nella loro problematicità e nel loro tormento hanno la base della loro ricerca nella fede in Dio: si parte dalla sottoscrizione ad occhi chiusi della scommessa pascaliana, per arrivare alle sottolineature drammatiche di Paul Claudel o alla sublime ironia di C.S.Lewis in “Lettere a Berlicche”.
Dalla fede discende anche lo stile di Marchisio che è fortemente assertivo, non tanto nella costruzione del frammento che può aprirsi a variazioni ipotetiche, quanto nella conclusione che è sempre decisa, anche quando procede per negazione del concetto precedentemente esposto. La sicurezza delle proprie convinzioni morali e nello stesso tempo dell’irrisorietà della sua come di ogni altra esistenza, porta Marchisio a denunciare senza pietà i cosiddetti “ircocervi mentali” di crociana memoria, gli idola tribus di cui si sostengono quelli che vengono definiti morti viventi o con una metafora assai azzeccata, “manichini avariati”(520) tenuti in piedi dalle stampelle dell’egocentrismo. Marchisio nella sua ‘pars destruens’ sa fare a pezzi pregiudizi assurdi, come quelli che danno per scontato il titolo di capolavori a romanzi che a un’attenta lettura rivelerebbero una mancanza di tenuta clamorosa. Ecco dimostrata la pigrizia e la superficialità dei frequentatori di wikipedia di ogni tempo! Ma, in tutti i campi, oggi, si assiste alla profusione di piccoli mostruosi capolavori. In questi due anni di follia collettiva le fole circolanti sono diventate inesauribili e si possono acquistare a prezzi irrisori, ma i costi sono altissimi per l’integrità personale: “Vivono da sonnambuli, scivolano verso la morte insensibilmente.”(389). Le pennellate di Marchisio sono scure, color viola, rosso, tutte le tonalità della decomposizione per descrivere gli uomini e le donne che credono nelle apparenze secolari e si nutrono di pacchi e pacchetti con un packaging lussuosissimo, ma in cui si annidano vermi immondi. Piuttosto conviene evocare spiriti delle tenebre, vampiri ormai vetusti nei loro vezzi, anche se cercano di aggiornarsi con un attacco all’ambulanza Avis, ricca di sacche con sangue ancora caldo. La vanitas, da eccellente esperto d’arte quale egli è, suggerisce immagini talvolta suadenti ma che nascondono il tranello della dissoluzione: le classiche rose, le candele che si spengono “sotto il soffio emanato da una bocca invisibile”(533), l’esca della bellezza femminile che presto si consuma nell’abbandono all’abitudine e alla sciatteria, tanto che intorno agli agognati capezzoli “farà capolino qualche acuminato pelo nero” (224). Amiel ancora sottolinea bene il momento delle vane illusioni: ammiriamo la parata dei colori più belli, “ma presto vi compare il punto nero, e il globo d’oro e di smeraldo si dilegua nello spazio, sciogliendosi in una semplice gocciolina di liquido impuro”( Diario intimo, 7 gennaio 1866). Le attrazioni sono varie, ma nella girandola di immagini fascinose è come se si inserisse davanti agli occhi la macula, la sozzura, la metastasi tumorale. Questo è il senso del titolo: lo sfarfallio del caleidoscopio si congiunge per incastro al posarsi infetto della sarcophaga carnaria, perché occorre “prendere nota con diligenza di ogni cosa che ripugna.”(256). Una zaffata colerina oppure un cumulo di cadaveri già belli che a posto. Così i pensieri possono succedersi rapidi e taglienti come rasoiate, oppure raccogliersi in una concrezione più grande. A volte addirittura diventano brevi racconti pervasi da un realismo magico o che per il loro tono macabro avrebbero potuto essere inseriti su “Le chat noir”, come quello, straziante nel suo sarcasmo, della sirena esposta sul banco del pesce e di cui si può vendere solo la parte inferiore, perché mai e poi mai si possa dire che gli uomini pratichino l’antropofagia. Nello stile è come se la danza macabra un po’ si quietasse e trovasse una sua regola formale rigorosa. Se il pensiero può essere un sasso casualmente affiorante nello scorrere del fiume verbale, può succedere che i sassi, a pericolo mai esente, siano disposti in modo che il lettore possa attraversare le acque in un determinato punto topologico: l’arte, i giardini, la complessità femminile, la difficile vita di relazione. Le pietre affioranti diventano fittissime, a comporre un percorso sicuro, quando si vuole trattare dei due piloni concettuali di “Caleidoteratoscopio”, ovvero la poesia e la religione.
I pensieri dal 199 al 222 prendono di petto, con tutta la sincerità e la sprezzatura di cui è capace Marchisio il tema della poesia e più in generale della scrittura. L’analisi si spinge addirittura a una sintetica rassegna dell’evoluzione della poesia moderna, ma soprattutto ancora una volta c’è occasione per fustigare i vizi contemporanei, questa volta della scrittura poetica: agudezas a buon mercato, finzione di profondità, oscurità pretestuosa. L’assenza di Dio ha fatto in modo che il significato fosse completamente vanificato e che i nomi, non corrispondendo più alle cose, si lasciassero afferrare in tentativi rischiosi di deragliamenti sperimentali, ma soprattutto in vaniloqui superficiali e autoreferenziali. Il mestiere del poeta necessita di un lungo studio e di una dedizione assoluta, nella previsione di cosa i blocchi grezzi della realtà e del nulla possano restituire attraverso il loro scalpellamento, sino ad un’auspicabile rivelazione finale di bellezza armonica: il lavoro poetico è in questo senso assimilabile alla ricerca dello scultore e come per lo scultore essenziale è un “rigore trasfigurante” in grado di assurgere a forma (199). Io, da poeta, frequento più di Marchisio il lato sperimentale della faccenda, ma anche lanciandomi in una progettualità estrema, sono riafferrato senza remissione, dal senso del ritmo, che il nostro autore afferma essere alla fine il padre tanto del verso metrico che di quello libero. Non teoricamente, ma proprio come esigenza profonda della mia sensibilità, non posso che essere d’accordo su questa valutazione del ritmo, che avverto come una pulsazione primigenia di cui non posso fare a meno.
I frammenti che vanno dal 317 al 340 affrontano il tema dottrinale, fondamento del pensiero di Marchisio, della necessità di Dio. Sono riflessioni abissali che riaffiorano con la semplicità di un’illustrazione, in cui si mostri l’eterna battaglia fra il Principe del Mondo e le schiere angeliche al servizio del Sommo Ordinatore. Ma il confronto, sanguinosissimo, è quello che avviene al livello della coscienza, quando si richiede di tapparci le orecchie ai richiami del materialismo e di una ragione strumentale, di rinunciare infine a noi stessi per accogliere “la verità antica come le stelle e perenne come il canto degli angeli”(317). “Caleidoteratoscopio” chiude il suo percorso con l’ “ineffabile sorriso di Cristo”(543).
Passo davanti allo specchio del frammento 425. Mi ci riconosco appieno. Mi tormento per il “bel dolore” della solitudine e per giornate lunghissime in cui gli scuri sono chiusi da dentro e da fuori, ma una volta trovata la tanto sospirata compagnia pure a me è sufficiente un’ora per “invocare nuovamente il carcere asettico del deserto e del silenzio.” La più gradita e sensata è la compagnia che non si consuma in vuote chiacchiere, ma che prevede un impegno comune verso un traguardo che si ritiene importante, verso la costruzione di un’impresa. Mario Marchisio è un amico recente e l’occasione dell’incontro è stata di carattere secolare: una promozione comune alla lotta e alla resistenza. Io non possiedo la sua fede, ma ci troviamo a combattere dalla stessa parte. Il frammento 395 mi è consono perché proclama la necessità dell’azione, senza limitarsi a una comprensione astratta, dai margini. A me, per ora, basta la parte iniziale, che include la speranza, mentre per lui è fondamentale, come in ogni pensiero di questo libro, la conclusione trascendentale:
“Non siamo nati per comprendere: siamo nati per agire. Un’azione che però non voglia condannarsi alla follia dev’essere fondata sulla speranza. Ma una speranza puramente terrena conduce al vuoto e alla disperazione: ed ecco che la Trascendenza si manifesta come presupposto necessario di ogni nostro autentico agire.”
Voglio concludere lasciando spazio ora proprio a quei pensieri che esprimono la constatazione dell’inganno, lo sconforto di fronte alla mancanza di compassione, la rabbia per chi si è lasciato facilmente irretire. Lascio a lui le lucide e profetiche parole. Io sarò, tra un pensiero e l’altro, il silenzio, l’altro che ascolta e riflette, ma anche in questo modo cercherò di tenergli compagnia.
“La ruota gira, non si ferma. Un giorno torneranno Principi e Stati Assoluti. E il “popolo sovrano”, puntualmente, tornerà a infischiarsene della democrazia, proprio come oggi deride compatto la nobiltà.”(185)
“La discesa che ha condotto l’Occidente al suo ipogeo di follia è stata lunga e complessa, alternata a pianori ingannevoli, a miti paesaggi bucolici nonché a periodiche rivelazioni di imminenti, gloriose palingenesi..”(321)
“All’inizio delle grandi sciagure, sembra quasi piacevole aiutarsi l’un l’altro, perfino sacrificarsi. Una fioritura di gesti e pensieri encomiabili lascia tralucere quel che nessuno avrebbe osato sperare. Ma col susseguirsi dei pericoli e delle notizie più atroci, ogni disponibilità, come per incanto, evapora.”(458)
“Speravate di sopravvivere a bordo di questo Narrenschif pilotato da una cricca di assassini?”(490)
“Chi cercherà di opporsi sarà eliminato; e i falsi benefattori, come sempre, andranno a sostituire la confraternita di chi li ha preceduti.”(493)