Nella poesia di Silvio Raffo la dimensione melica va di pari passo col perfetto dominio della metrica: una boccata d’aria pura fra i miasmi di troppa lirica contemporanea. I settenari e gli endecasillabi che si susseguono con raffinata eleganza nelle sei parti de La ferita celeste (La Vita Felice 2019, Postfazione di Silvio Aman) costituiscono l’ennesima prova del suo stile. I versi di Raffo incantano infatti il lettore e lasciano risplendere la propria luce sonora come se scaturissero da una fontana nascosta nell’invisibile, rinnovando ad ogni pagina i loro geometrici zampilli. Dagli strambotti del Poliziano alle ariette di Metastasio, ai grandi cammei lirici del XIX e XX secolo, l’orecchio ben temperato di chi ama le strofe “liquide”, dalle cadenze inesorabili come il volo di una freccia, saprà distinguere parentele e suggestioni. La letteratura è del resto una rete vivente e nessuno può scrivere qualcosa di davvero nuovo (e bello) se non si radica nella tradizione, che genera entrambi. Chi pensa di saltar fuori da quella rete e sopravvivere, finirà per essere fritto e bruciacchiato nella padella dell’oblio. Veniamo ora ai temi de La ferita celeste. Tempo ed eternità, gioia di vivere e improvviso sconforto, consapevolezza dell’inganno metafisico che orchestra le opere e i giorni della nostra avventura in questo mondo, mentre cresce l’ansia di fronte al Divenire che tutto trasforma, fino a quando non riconosceremo neanche noi stessi guardandoci allo specchio. Ecco, la contraddittorietà della condizione umana non risparmia l’anima del nostro poeta, anzi, quasi la scortica con un sorriso perfido di compiacimento. Di scarsa consolazione si rivelerà comunque, nello svolgersi della raccolta, quanto recita il calco dickinsoniano posto in epigrafe («Il pugnale che incide la ferita/è l’ala di un celeste tessitore»); nessuna teodicea può infatti insinuarsi ad addolcire un orizzonte esistenziale sequestrato «tra due rive di grigia indifferenza». La contraddizione si dipana altresì all’interno di uno degli atti più tragicamente filosofici che connotano la vita umana: l’attesa. Poiché essa – specie ove si tratti di un’attesa amorosa –, se lascia da un lato presagire svolte decisive e disvelamenti miracolosi in virtù dei quali «[…] svanirà ogni affanno», dall’altro è miserevole cosa, «insensata tenace resistenza / alimento della disperazione»: «Ti accorgi a un tratto irrevocabilmente / che da attendere no, non c’era niente» (Il poema dell’attesa, II e XX). Credo si renda ora utile una breve interruzione dell’analisi tematica allo scopo di segnalare, fra le auree liriche di questo libro, due testi che forse potrebbero vantare un plauso ancor maggiore. Mi riferisco alle quartine di settenari a rima incrociata de Il poema dell’attesa (XVI) e ai distici, sempre di settenari, di Love ghost, in cui spicca un’abilità indiavolata nell’alternare versi sdruccioli (rimati fra loro) e versi piani anch’essi in rima, per poi invertire lo schema e di nuovo invertirlo un’ultima volta nelle strofe finali. L’autore di queste liriche fresche e leggiadre, al momento opportuno, si dimostra anche raffinato clerc, capace di arricchire un componimento con una figura retorica oggi inusuale – ma assai efficace – come l’iperbato dell’ultimo verso: «[…] e lo smarrito / lievito di un ansioso divenire / sento confuso all’Essere svanire» (In uno flumine). E a proposito di genealogie letterarie, ecco sbucare D’Annunzionel già citato Poema dell’attesa (XI), dove leggiamo: «[…] Non esiste mutamento / né speranza di qualsivoglia evento», in probabile gemmazione dai celebri versi del Libro segreto: «Tutta la vita è senza mutamento. / Ha un solo volto la malinconia». Ma torniamo in medias res: il non-incontro, evocato in Pas de deux, rappresenta il punto esatto e a suo modo salvifico in cui l’attesa si annulla e la delusione è tuttora una favola lontana. Poi sarà troppo tardi, non rimanendo all’attivo che un’ambigua saggezza: «Tu dai numi mi sei stato concesso / perché capissi che l’amore è un gioco / d’ombre fatue, il miraggio di un riflesso, / uno specchio incrinato, un freddo fuoco» (Cold fire), poiché «la vita che si vive / ha un amaro sapore / ma quella che si scrive / è divino liquore» (versi in esergo alla quarta sezione, Scrivere il desiderio). Prognosi inevitabile: affinché la perfezione sia raggiunta, occorre una rigorosa solitudine; soltanto così il sogno verrà imprigionato e il desiderio, infine, scritto: «Chi sono più non so / L’Estasi m’incatena / Immobile Sirena / nel quadro di Delvaux» (Quartetto dello sguardo, IV). La vanitas di qualsiasi attaccamento, idealizzazione o progetto, cede infine il campo ad alcuni versi austeri e martellanti come certi cartigli barocchi posti accanto a una clessidra: «Dissolta in fumo ogni vorace brama / smascherata ogni futile speranza / da nubilose soglie in lontananza / senti solo la Morte che ti chiama» (Da nubilose soglie). Tuttavia la morte, se anche detiene l’ultima parola, non potrà vantare una completa vittoria: «il tuo domani» dice infatti il poeta alla propria anima, «è intatta luce. E questo è ciò che conta».
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